Crepe
L’ultimo giorno delle vacanze estive, Fleur si svegliò ammantata di nostalgia e di un’irrequietudine che aveva tentato invano di lasciarsi alle spalle. Sentiva un peso gravarle sulle spalle, ogni giorno di più, e si chiedeva come sarebbe riuscita a tornare alla sua vita studentesca – senza crollare. Come da tradizione, lei e Gabrielle avevano passato le lunghe giornate estive nella casa provenzale dei nonni materni, dove i genitori le raggiungevano nel fine settimana. Era il suo luogo del cuore: l’unico nel quale la sua anima trovava pace, dove riusciva a respirare con facilità, e lei non si sentiva affatto pronta ad abbandonarlo. Si stiracchiò piano, inspirando l’odore di salsedine e di fiori selvatici che s’insinuava tra le tende svolazzanti, chiedendosi se ci fosse un modo per catturarlo e portarlo con sé. Se Fleur avesse potuto imbottigliare un profumo, avrebbe voluto che fosse quello, un’essenza in grado di calmarla e farla sentire in pace con il mondo, un balsamo per quelle ferite invisibili agli occhi che s’annidavano nella profondità della sua anima. Osservò distrattamente il proprio riflesso allo specchio e sospirò, soffocando l’ennesimo sbadiglio. Evidenti cerchi scuri le contornavano le iridi acquamarina, testimonianza dell’insonnia con cui faceva i conti da settimane, nemmeno i suoi geni Veela riuscivano a mascherare il colorito cereo su cui i solchi parevano ancora più lampanti. Sua madre l’aveva osservata apprensivamente per tutta estate, ma Fleur era sfuggita ai suoi sguardi indagatori e alle domande sussurrate, rassicurandola di star bene e di essere solo ansiosa all’idea dell’ultimo anno di scuola – e della sorpresa a cui Madame Maxime aveva alluso prima di congedarli per le vacanze.
Nonna Isabelle aveva colto la profondità del suo malessere, ma non aveva cercato di forzarla a parlare, si era limitata a lasciarle i suoi spazi e a coinvolgerla nelle sue attività preferite. Lasciò che i propri piedi si posassero sul parquet sbiadito dai raggi del sole e arricciò le dita, prima di alzarsi e togliere l’impalpabile camicia da notte color lavanda – la sua preferita. Sopra al costume celeste, indossò un paio di vecchi jeans tagliati, che sua madre trovava sciatti, ma di cui lei non poteva fare a meno, e una camicia di lino del padre candida come ormai lei non era più. Scese velocemente le scale, nel silenzio avvolgente dell’alba, badando a non fare rumore mentre apriva la pesante porta di legno e si dirigeva sulla spiaggia deserta sulla quale si ergeva la casa dei nonni.
Camminò frettolosamente, lasciando dietro di sé impronte incerte, respirando a pieni polmoni l’aria salmastra e ascoltando i gabbiani che sorvolavano la baia. Quando raggiunse la battigia, si fermò e chiuse gli occhi, rivolgendo il proprio corpo verso il sole tiepido, anelando a un calore che potesse sciogliere il gelo che le era penetrato sottopelle, avvelenandola a poco a poco. Lo sciabordio delle onde sovrastava i richiami dei gabbiani, il cielo era punteggiato di spruzzi di nuvole bianche che sembravano uscite direttamente dal disegno di un bambino. Quando riaprì gli occhi, la luce improvvisa la costrinse a sbattere le palpebre, ritrovandosi una miriade di luci che le danzavano davanti alle iridi. Sfilò camicia e pantaloncini, lasciandosi lambire le caviglie dalle onde, avanzando fino a che l’acqua non le raggiunse le ginocchia, poi le cosce, la vita, il petto, le spalle e infine la bocca, che assaporò il sale, che si mischiava a quello delle lacrime che non si era resa conto le stessero sgorgando. S’immerse con la testa, alla ricerca di una pace effimera, con il battito del proprio cuore come unica colonna sonora; spalancò gli occhi per guardarsi attorno, lasciando che i pensieri più cupi fluissero liberi e smettessero d’incatenarla. Urlò, senza che nessuno riuscisse a cogliere quel grido, e tornò in superficie solo quando i polmoni le bruciavano, alla spasmodica ricerca di ossigeno, e il cuore aveva preso a martellarle nel petto. Si sdraiò supina, allargando braccia e gambe, tornando a fissare il sole ora più luminoso, lasciandosi cullare dallo sciabordio delle onde, desiderando di essere trasportata in un luogo lontano – dove c’erano solo pace e silenzio.
Si concentrò sul battito del proprio cuore che decelerava, cercando di svuotare la mente e liberarsi della sensazione di essere sbagliata: un guscio apparentemente perfetto, incrinato da una serie di crepe invisibili e profonde.
Il frastuono del cuore di Fleur era coperto a stento da quello dei piedi che calpestavano il terreno umido di rugiada.
Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.
Correva nonostante la vista annebbiata dalle lacrime, cercando a tentoni la strada più breve per raggiungere il proprio dormitorio.
La voce di Jean-Luc diventava un’eco sempre più lontana, ma Fleur non si fermò fino a che non ebbe raggiunto la propria stanza e si fu chiusa la porta alle spalle.
Nonna Isabelle l’aspettava sulla spiaggia, quando si risvegliò dall’incubo che la perseguitava da quella notte di giugno.
«Bella nuotata, ma petite?»
Fleur scrollò le spalle.
«Ti senti pronta per tornare a scuola?»
«Devo» disse risoluta.
«Sei molto più forte di quanto tu creda, ma petite. La tua diversità è un dono, non un fardello. Ricordalo sempre.»
*
La grandiosità del castello annidato tra gli alberi secolari, la accolse al suo ritorno, ma la grandeur che contraddistingueva quelle pareti da lei così amate la fece sentire piccola e indifesa – un involucro in balia delle maree. Seguì Michelle, la sua più cara e in realtà unica vera amica, verso la loro camera e poi a cena, si costrinse ad ascoltarla mentre le raccontava delle vacanze in Bretagna e del fratello che aveva presentato la fidanzata ai genitori. Ma la sua mente era altrove e doveva forzarsi per annuire nei momenti giusti e mormorare dei flebili commenti qua e là. Osservò l’altro lato della stanza, quello in cui Jean-Luc era solito sedersi, stupendosi della sua assenza – nonostante lui si fosse diplomato l’anno precedente.
Madame Maxime prese la parola a fine cena, per anticipare che avrebbe svelato la grande sorpresa il sabato successivo a cena, dando vita a una serie di mormorii eccitati a cui Fleur non riusciva proprio a prender parte. Finse una grande stanchezza e lasciò Michelle con il resto delle compagne, trovando rifugio nella doccia, tentando di lavar via l’ansia che il ritorno a Beauxbatons aveva riacuito in lei.
Lo scroscio dell’acqua era l’unica cosa che sentiva, l’unica su cui voleva concentrarsi per dimenticare quanto era accaduto. Una volta chiusi gli occhi però, ripensò alla serata e a come era precipitata velocemente e rovinosamente.
Sentiva le mani di Jean-Luc che s'insinuavano sotto la sua maglia, il suo fiato caldo sul collo, il corpo possente del ragazzo addossato al suo più esile.
I propri lamenti ingoiati dai baci umidi di Jean-Luc, il sapore alcolico della sua lingua.
La propria voce che mormorava no che rimanevano inascoltati, sempre più flebilmente, le dita di Jean-Luc che scostavano la sua biancheria.
«Sei così bella» le ripeteva, come un mantra.
E Fleur desiderava solo essere anonima e scialba.
Mentre Jean-Luc penetrava in lei, Fleur percepì la propria corazza sgretolarsi, riempendosi di crepe che avrebbero finito con il distruggerla.
Fleur si sdraiò nel letto a baldacchino, augurando la buonanotte alle compagne e posando lo sguardo sulla foto di famiglia che le adornava il comodino, le parole di nonna Isabelle che le risuonavano chiare nella mente. Sapeva ciò che doveva fare. Ricostruire la facciata algida dietro alla quale si era trincerata per anni, nel vano tentativo di schermarsi ai coetanei, evitando così di soffrire inutilmente.
*
Aveva letto del Torneo Tremaghi nei libri, convinta che non avrebbe mai avuto l’occasione di assistervi, figuriamo parteciparvi. Invece, Madame Maxime aveva comunicato che tutti gli studenti maggiorenni avrebbero avuto l’occasione di prender parte alla prossima edizione del Torneo, che si sarebbe tenuta a Hogwarts. Fleur si ritrovò a fantasticare di essere scelta, pensando che fosse il modo migliore di mostrare il proprio valore – e cancellare il ricordo della propria debolezza.
«Dovremo ripassare tutti i concetti più fondamentali, se vogliamo aver la possibilità di vincere il Torneo.»
La voce di Madame Maxime era chiara e tutti gli studenti annuirono compatti.
«Oggi inizierete a rivedere le principali pozioni con Monsieur Blanche.»
Fleur era seduta accanto a Michelle, intenta a rivedere le istruzioni per il Distillato della morte vivente, quando l’amica puntò il dito sul successivo ingrediente da aggiungere.
«Ci serve l’assenzio.»
Fleur si alzò meccanicamente per andare a a recuperarlo, prima di consegnarglielo, guardando Michelle che lo sminuzzava con delicatezza.
Fleur rimestava una pozione febbrilmente, leggendo le istruzioni scritte a penna.
Si sollevò sulle punte dei piedi alla ricerca dell’assenzio, che sapeva essere presente nella dispensa dei nonni.
«Che succede, ma petite? Che stai facendo?»
«Una pozione...»
«Lo vedo. Quale?»
Fleur ammutolì e la nonna abbassò lo sguardo sul foglietto, senza proferire parola. Si misero all’opera in silenzio e Fleur ringraziò a bassa voce la nonna per la discrezione.
«Era evidente che fossi tormentata, ma petite, ora capisco il motivo...»
«È tutta colpa mia, nonna Belle. Lui sosteneva di non poter resistere al mio fascino, che non poteva trattenersi dal toccarmi e...»
«Essere belle non è una colpa.»
«Eppure è così che l’ho vissuto negli ultimi tempi.»
La nonna l’abbracciò, prima di terminare la pozione e fargliela bere.
Fleur pregò con tutta sé stessa che l’esito fosse quello sperato, ricominciando a respirare solo dopo che la nonna l’ebbe rassicurata sulla veridicità del test.
«Andrà tutto bene, ma petite» la rassicurò la nonna, abbracciandola di nuovo.
Dopo settimane, Fleur cominciò a credere che, forse, poteva davvero esserci un epilogo felice.
«Credo che Madame Maxime faccia il tifo per te» sussurrò Michelle, sorridendole complice.
Fleur scrollò le spalle, anche se era consapevole che la preside avesse un debole per lei.
«Sei una delle studentesse più brillanti della scuola, Fleur. Saresti perfetta come campionessa.»
Sono stufa di essere perfetta, avrebbe voluto gridare a Michelle, ai professori, a Madame Maxime.
Invece abbassò lo sguardo, tentando di ricomporre l’aura di perfezione a cui aveva lavorato per anni. Prese un profondo respiro e sorrise all’amica, augurandosi che le crepe che s’insinuavano nella sua anima continuassero a rimanere invisibili agli occhi.
*
La prima volta che incrociò lo sguardo di Cedric, pensò che fosse uno dei ragazzi più belli che avesse mai visto, ma non era per quello che avrebbe voluto andare con lui al Ballo del Ceppo. Era convinta che lui avesse un animo puro, che si sarebbe comportato da perfetto gentiluomo e non l’avrebbe mai fatta sentire vuota e inesperta come Jean-Luc. Per questo motivo non rimase del tutto stupita che lui si rivelasse immune al fascino Veela, uno come lui non avrebbe mai annullato i piani con la ragazza che amava – soprattutto per una ragazza che faceva del proprio meglio per mostrarsi inarrivabile con tutti i coetanei.
Si era data una gran pena per mostrarsi algida e scostante, non aveva alcuna intenzione di soffrire per amore – non più. Più i ragazzi la circondavano e la subissavano di attenzioni, e più lei si mostrava disinteressata e apatica; avrebbe voluto andare al Ballo da sola, visto che non aveva potuto andarci con Cedric. Madame Maxime però le fece notare che i campioni avrebbero dovuto aprire le danze e Fleur dovette sforzarsi per trovare qualcuno che potesse fare al caso suo.
Roger Davies era solito allenarsi da solo al mattino presto, anche se quell’anno il torneo di Quidditch era stato cancellato. Fleur amava vederlo librarsi nell’aria, con i capelli dorati scompigliati dal vento e l’espressione risoluta mentre inseguiva il Boccino fluttuante; aveva una grazia innata che gli invidiava e le faceva bramare di essere più brava a volare, perché avrebbe potuto fuggire lontana da lì.
Una mattina di fine novembre lui le sorrise e la salutò in francese, svelandole che era la terra natia della madre.
«Hai un accento meraviglioso» si complimentò.
«Grazie.»
Il silenzio che si protrasse tra loro non era imbarazzante, quanto invece piacevole e Fleur si ritrovò ad osservare il corpo muscoloso di Roger, fasciato dalla divisa blu-bronzo.
«Posso farti una domanda?»
Fleur annuì.
«Come mai ogni mattina vieni qui?»
«Per riuscire a respirare...»
Roger non indagò oltre, rivolgendole un sorriso tenero che le scaldò il cuore.
Il sorriso di Jean-Luc le faceva tremare le gambe, Fleur si sentiva in cima al mondo.
Sapeva di essere bella, eppure non aveva mai avuto un ragazzo.
Jean-Luc aveva modi affabili e baciava divinamente e Fleur credeva di potersi innamorare di lui.
Quando quella sera le diede appuntamento nel boschetto dietro al castello si preparò con cura, sperando di passare la notte a parlare, illuminati dalle stelle.
Una volta raggiunto il luogo prescelto però, trovò Jean-Luc chiaramente ubriaco e, quando lui la raggiunse, la strinse possessivamente, facendole risalire la bile fino alla bocca dello stomaco e l’inquietudine che l’accompagnava passo dopo passo.
Andare al Ballo con Roger avvenne in modo naturale, visto che ogni mattina si ritrovavano a parlare per ore, soli nel parco, e si rivelò la scelta perfetta per Fleur. Con lui si divertiva sempre, anche quando rimanevano in silenzio, perché il ragazzo era solito fare facce buffe solo per riuscire a farla sorridere, anche quando lei voleva rimanere seria.
Il loro primo bacio avvenne la sera del ballo e fu lei a mettersi sulle punte per posare le labbra su quelle di Roger, assaporando il cioccolato della torta che aveva mangiato a fine pasto.
«Grazie per la serata.»
«Grazie a te per avermi dato una chance...»
*
I corridoi della Gringott non erano certo il luogo in cui su era immaginata di innamorarsi follemente e inesorabilmente. Aveva notato Bill quando i loro sguardi si erano incrociati a Hogwarts, e si era chiesta se si sarebbero mai rivisti.
Lui le aveva sorriso sghembo, quando se l’era trovata davanti negli uffici della banca, e Fleur era arrossita fino alla radice dei capelli – incapace di trovare le parole più adatte da rivolgergli.
Erano diventati amici, uscendo in compagnia di qualche collega, e poi da soli, nonostante Bill si tenesse a debita distanza e non facesse mai un passo in più. Fleur si ritrovava a pensare a lui nei momenti meno opportuni, sentendo risvegliarsi un desiderio che temeva si fosse ormai sopito per sempre.
Una sera d’inverno, Bill la portò in un pub Babbano che era solito frequentare con dei vecchi compagni di scuola e Fleur si sentì protetta, quando la mano più grande e callosa strinse la sua guantata e minuta.
«Credo tu non sia mai stata in un posto così...» mormorò Bill, aprendo la porta.
«Ma questo non significa che non mi possa piacere...»
«Non ti avrei portata, se lo avessi pensato» le disse con sincerità.
Fleur annuì, sentendo il cuore martellarle nel petto in maniera inaspettatamente positiva.
«Non sono così delicata come credi.»
«Non penso che tu lo sia. Solo, credo che tu non debba trincerarti dietro a una facciata, non con me.»
Fleur batte le palpebre piano, annuendo lentamente.
«Non lo faccio.»
«Ogni tanto sì.»
«Mi spiace, è solo che...»
«Non mi devi alcuna spiegazione. Voglio solo dirti che puoi essere te stessa, in ogni momento.»
Fleur scelse di baciarlo con impeto, affidandogli il proprio cuore e sentendo la facciata che aveva accuratamente ricostruito riempirsi nuovamente di crepe e andare in pezzi – questa volta per sempre.
Questa storia è stata nella mia testa per anni, nelle ultime settimana ho finalmente avuto tempo da dedicarci e sono quasi soddisfatta di ciò che è venuto fuori… in realtà dovrebbe esserci una seconda parte, chissà quando, ma intanto sono contenta di aver postato di nuovo la mia Fleur.❤️