28. Sette secondi.
E passare da fare tutto a un tutto da rifare
Ma guardaci adesso che cosa siamo diventati
Da sconosciuti a innamorati
Poi da innamorati a sconosciuti
(Alfa – Il filo rosso)
Ma guardaci adesso che cosa siamo diventati
Da sconosciuti a innamorati
Poi da innamorati a sconosciuti
(Alfa – Il filo rosso)
La cerimonia del diploma era arrivata inaspettatamente.
Dalla vittoria contro la Shiratorizawa, Maria aveva avuto l’impressione che il tempo avesse improvvisamente accelerato, nonostante non fosse passata che una semplice settimana.
Era cominciato Dicembre, erano passati gli esami finali e l’anno scolastico era terminato.
Il distacco dalla palestra e dal club di pallavolo era stato doloroso.
Maria non l’avrebbe mai pensato possibile solamente sette mesi prima, quando la sua vita ruotava attorno ad un fatiscente club di musica e tra una fuga e l’altra per i corridoi della scuola, sperando di non essere notata dalle persone sbagliate.
La vita le si era totalmente stravolta da quando aveva messo piede in quella palestra.
L’esserino che le cresceva ancora nel ventre ne era una prova tangibile.
Ma era giunta la fine anche per quello. Maria si era ripromessa che la cerimonia del diploma sarebbe stata il termine massimo entro cui avrebbe portato avanti quella gravidanza.
Le settimane a disposizione stavano terminando, e quando Asahi sarebbe partito non avrebbe avuto ulteriori motivi per indugiare. Probabilmente, per lei, sarebbe stato decisamente più semplice fare quella cosa senza avere legami concreti a fermarla.
Avevano pianto tutti l’ultimo giorno di allenamento insieme, il distacco era stato forzato.
Maria ne aveva sofferto di meno, Daichi, Suga, Asahi e Shimizu erano stati inconsolabili.
Quel giorno, invece, avrebbero detto addio definitivamente.
La cerimonia si era protratta, Maria stringeva tra le mani quel rotolo di pergamena e si domandava come fosse arrivata a quel momento, quei tre anni erano stati un soffio di vento, una parentesi di vita che a distanza di anni le sarebbe sembrata effimera, mentre lei invece aveva avuto la sensazione di aver atteso a lungo, con l’orologio al contrario.
Regnava il caos nella scuola, vi erano parenti, persone che si dicevano addio, innamorati che si scambiavano il secondo bottone della divisa come pegno d’amore; Maria scivolò tra tutta quella gente come un fantasma, aveva una meta precisa e nessun parente da intrattenere.
La condizione del nonno era peggiorata e Fujio doveva restare con lui.
La palestra, tuttavia, non era vuota come si era aspettata di trovarla.
Qualcuno aveva avuto la sua stessa idea nostalgica, perdersi nei ricordi per un’ultima volta.
Asahi stringeva tra le mani una palla consumata, se ne stava al centro del campo, la rete non era montata, indossava il giubbotto pesante sopra la divisa e una sciarpa, il profilo del naso era arrossato e aveva un’espressione nostalgica tra le sopracciglia aggrottate.
Il rotolo della pergamena di diploma se ne stava abbandonato ai suoi piedi.
Maria provò le vertigini alla bocca dello stomaco, una violenta sensazione di pianto le montò nel petto, si sentì improvvisamente svuotata e spaventata da quello che il futuro le riservava.
Era finito qualcosa di importante nella sua vita e aveva paura dell’ignoto.
Avrebbe presto avuto una nuova realtà a cui doversi abituare, ma quella realtà era priva delle persone a cui si era aggrappata per tutti quei mesi.
La terrorizzava, e avere Asahi lì davanti a lei non era un aiuto.
Lui non ci sarebbe stato e nemmeno la creatura che cresceva ostinata nel suo grembo.
Dovette stringere il rotolo tra le mani con tutte le sue forze per non farsi cogliere dalla disperazione, per mantenere il controllo, per non rimangiarsi tutte le parole che aveva detto e pregarlo di non andarsene.
Persino il fagiolino nel suo grembo sembrò approvare quel desiderio, provocandole le vertigini. Stava cominciando a farsi vedere, un leggerissimo rigonfiamento …
Maria ringraziava che i maglioni della divisa scolastica fossero larghi e comodi.
Non era nulla che si vedesse chiaramente, ma per Maria, che conosceva il suo corpo, era una prova tangibile di quell’esistenza.
Asahi, che probabilmente aveva cominciato a sentirsi osservato, volse lentamente la testa nella sua direzione; parve inizialmente sorpreso, poi rilassò l’espressione.
Una maschera di cera che celava il tumulto di dolore che vi si nascondeva dietro.
Maria non era riuscita a scrollarsi dalla mente l’immagine dell’espressione disperata di Asahi in quello spogliatoio, quando credeva di essere solo, la sofferenza che aveva intravisto.
Lui aveva le nocche della mano ancora ferite, una crosta fresca e rossastra.
Asahi abbassò le braccia quando si accorse dello sguardo di Maria su quel punto del suo corpo. Distogliendo lo sguardo da lei, si avvicinò alla cesta da cui aveva preso il pallone, depositandolo nuovamente al suo luogo d’origine.
Maria si schiarì leggermente la voce, incrociando le mani dietro la schiena.
«É passato in fretta quest’ultimo anno, non pensi?».
Era una domanda sciocca, come parlare del tempo, ma non sapeva in che altro modo rompere quel ghiaccio imbarazzante che si era venuto a creare.
Era ovvio che nessuno dei due si fosse aspettato la presenza dell’altro.
Forse, in un tacito accordo, avevano deciso entrambi di non dirsi addio, di non pronunciare parole inutili, che avrebbero buttato solo altra benzina sul fuoco, che fosse meglio dimenticare come erano andate a finire le cose tra di loro.
Ovviamente, non sarebbe bastato nulla di tutto quello per andare avanti.
Solo la lontananza sarebbe stata in grado di far capire loro la gravità di quella separazione.
L’impossibilità di riparare quello che avevano rotto.
Asahi si pulì le mani sui pantaloni e annuì distrattamente.
La raggiunse, posizionandosi davanti a lei, ma ad almeno un metro di distanza.
Si guardavano davvero negli occhi per la prima volta da quel giorno nella neve.
«A me è sembrato durare una vita» commentò Asahi, senza una reale intonazione.
A Maria sembrava passata un’eternità da quando lui le aveva rivolto la parola in quel modo, senza sputare veleno, un po’ come se fossero tornati indietro ai primi giorni, impacciati perché non si conoscevano bene, ma senza tutto quel gelo che passava adesso tra loro.
Non puoi riparare il vaso una volta che l’hai rotto.
«Ci aspetta l’ignoto, adesso» continuò lei, stringeva forte le dita dietro la schiena.
Voleva avvicinarsi e abbracciarlo, farlo almeno per un’ultima volta, sentire il suo odore, il suo calore, non ne aveva avuto l’opportunità da quando era partito per l’Hokkaido.
Non ricordava nemmeno quando fosse stata l’ultima volta che l’aveva tenuto vicino.
«Prima credevo esattamente di sapere dove stessi andando. Ma ora …».
Si fissarono a lungo, quelle parole che risvegliavano in entrambi una marea di rimpianti.
Maria si sentiva pesante, persino il rotolo del diploma che aveva infilato nella cartella cominciava a pesare, tutto il suo corpo pesava, smaniando di correre da lui.
Ma come sempre, ebbe un ottimo controllo di sé stessa. Anni di esperienza.
«Asahi» Lo chiamò lei e non se ne vergognò, lo fece perché lui la guardasse, perché lui comprendesse la serietà e la sincerità delle parole che stava per pronunciare.
«Ti auguro davvero un futuro radioso e pieno di successi. Spero tu sia felice. Grazie … grazie per tutto quello che mi hai dato … che mi hai insegnato. Lo terrò nel cuore».
Ti amo. Ti amo davvero tanto e non rinnego nulla.
Asahi aveva immediatamente abbandonato la sua espressione apatica nel sentire quelle parole, Maria non aveva lacrime negli occhi, ma nel cuore. Era fiera, voleva che lui capisse che a quelle parole ci credeva davvero. Che a quelle parole ci si era aggrappata con violenza.
Non ti sto lasciando andare perché tu sia infelice.
«Spero tu possa incontrare una brava persona che ti ami come meriti».
Come io non ho saputo fare. Non ho potuto fare.
A Maria le si spezzò il cuore mentre pronunciava quelle parole con il sorriso sulle labbra.
Ma andava bene in quel modo, andava bene se quelle sarebbero state le ultime parole che si fossero scambiati, andava bene finché potevano cancellare quelle terribili di quella notte.
Asahi mosse un passo verso di lei, avrebbe voluto dirle qualcosa, non ne ebbe il tempo.
Le voci chiassose invasero la palestra, altri componenti della squadra avevano avuto la loro stessa idea, se l’avessero fatto con qualche minuto d’anticipo Maria non avrebbe avuto nemmeno quell’occasione, quella misera possibilità.
Erano Shimizu, Suga, Daichi, Ennoshita e Narita. Rimasero sorpresi quando li videro lì.
Kiyoko le rivolse immediatamente un’occhiata, forse speranzosa, Maria però aveva solamente modo di disilludere le sue aspettative. Aveva detto l’ulteriore addio, l’ultimo.
«Anche voi nostalgici?» domandò invece Daichi, sorridendo compostamente.
Doveva essere stato attratto anche lui dalla necessità di vedere quelle quattro mura per un’ultima volta, la partenza era segnata di lì a tre giorni, una data inesorabile ormai.
Lui, Asahi e Suga avevano di certo scelto un cammino complicato.
«Io sono qui invece per passare il mio testimone» annunciò solenne, voltandosi verso Ennoshita. Non era una cosa che si faceva ufficialmente, e non spettava di certo a lui quella decisione, ma era qualcosa che Daichi aveva immaginato sarebbe successa fin dall’inizio.
Appoggiò le mani sulle spalle del kohai, leggermente intimorito.
«Sei tu il capitano di questa squadra da adesso in poi, Ennoshita» dichiarò con fierezza.
E Maria ebbe un’ulteriore stretta alla bocca dello stomaco, altre lacrime da cacciare indietro.
Le sembrava un incredibile privilegio poter assistere a quel passaggio del testimone.
«Anche al prossimo match, portate avanti la squadra con fierezza. Non avete perso nulla, nessuna forza, nessun pilastro, perché siete forti e caparbi. Va bene?».
Ennoshita aveva gli occhi lucidi di lacrime quando annuì vigorosamente, al contrario di Narita che invece non era riuscito a trattenersi e si strofinava il viso vigorosamente.
Daichi rise, una risata matura, che nascondeva tuttavia la sua reale età.
Shimizu e Suga osservavano la scena inteneriti, si stavano tenendo per mano; d’altro canto anche a loro non restavano che pochi giorni da passare insieme, prima di affrontare quella che sarebbe stata di certo la prova più grande della loro giovane relazione.
Maria avrebbe pregato giorno e notte perché potessero affrontarla con successo entrambi.
Almeno lei e Shimizu non sarebbero state sole ad affrontare i futuri giorni difficili.
Maria pensò che fosse arrivato il momento giusto di dare quella notizia.
«Non sarò presente il giorno della partenza all’aeroporto» annunciò con voce serena, attirando in quel modo l’attenzione di Suga, Daichi e Asahi su di sé. Shimizu, che era già a conoscenza di quella sua decisione, non disse nulla a riguardo.
Tutti e tre avevano gli occhi leggermente sgranati, evidentemente sorpresi.
Avevano concordato con gli altri che li avrebbero salutati un’ultima volta nel momento esatto della partenza, all’aeroporto, senza anticipare le cose al giorno del diploma.
«Mio nonno è stato ricoverato in ospedale questa mattina» confessò, ed era la verità.
Maria notò immediatamente il sussulto che scosse le spalle di Asahi alla notizia.
Aveva voluto dirlo anche perché lui sapesse. Maria si era arrabbiata quando aveva saputo finalmente che la condizione di nonno Akio era grave, ormai irrecuperabile.
Era stato solamente un ulteriore macigno in quell’abisso di disperazione da cui non vedeva un’uscita di salvezza, una luce che potesse confortarla, anche effimera.
«Passerò spesso il mio tempo in ospedale per dare il cambio a mia nonna e mio padre».
Daichi fu il primo a riaversi da quella notizia inaspettata.
Tolse le mani dalle spalle di Ennoshita e si avvicinò a Maria, appoggiandole sulle sue.
Aveva uno sguardo fiero, la fissava come un fratello orgoglioso di una sorella minore.
«Capiamo, Maria. Grazie per quello che hai fatto per noi».
E la avvolse in un abbraccio stretto e confortante, rassicurante quasi e delicato.
Maria appoggiò la testa sulla spalla del suo capitano, la sua prima cotta sciocca da ragazzina. Era stata contenta di averlo idealizzato e di aver scoperto invece l’uomo imperfetto.
Daichi la lasciò andare in fretta, non era preparato a quell’addio precoce.
Maria si sentiva leggermente in colpa per quel suo atto di codardia, la verità era che non sarebbe stata capace di presentarsi all’aeroporto a fatti ormai totalmente compiuti.
Fu la volta di Sugawara, anche lui la avvolse in un abbraccio affettuoso, ma composto.
Maria si raccomandò con lui, Suga la ricambiò immediatamente.
Era sereno che ci fosse lei accanto a Shimizu, le disse, e sembrò sul punto di voler aggiungere anche qualcos’altro, ma poi si trattenne, rivolgendo uno sguardo ad Asahi fugace.
Maria non comprese, anche perché era arrivato il momento che non aveva aspettato.
Esitò quando si trattò di Asahi, voleva salutarlo con distacco, forse sarebbe stato meglio.
Fu lui a sorprenderla, fece un passo avanti e le avvolse un braccio attorno alle spalle.
Maria fu immediatamente investita dal suo odore familiare e da quel calore che aveva cercato invano nei giorni precedenti, stringendosi sotto le coperte fredde.
Vacillò, trattenne il fiato, si domandò se fosse giusto ricambiare quell’abbraccio.
Lo era, non stava peccando ricambiando quel saluto.
Sollevò le mani tremanti, sperò che gli altri non lo notassero, e le strinse sulla stoffa del giubbotto di Asahi, affondò la fronte nella sua spalla, si morse il labbro inferiore.
Il bambino nel suo grembo fece una capriola.
Asahi accostò le labbra al suo orecchio, l’alito caldo le sfiorò la pelle.
«Vedi di non cacciarti nei guai, Taniguchi» le sussurrò, e Maria tornò indietro nel tempo ad un pomeriggio qualunque agli inizi di giugno, una passeggiata nei corridoi con quei ragazzi che doveva ancora conoscere, Asahi, quell’omaccione buono che pronunciava parole simili.
Lo strinse ancora di più, sbiancando le nocche.
«Non prenderti l’abitudine di farmi da bodyguard Azumane».
Sussurrò con voce spezzata, ridendo brevemente alla fine della frase. Lui le sorrise.
La lasciò andare all’improvviso, si allontanò con educazione, come se non fosse successo nulla. Il loro era stato un abbraccio normale e tutto era durato solamente alcuni secondi.
Tutta la loro storia era durata solamente sette secondi.
«Sayonara» mormorò, guardando solamente Asahi negli occhi.
S-scusami! Tranquilla, non ti faccio niente io -
Allora?
Ehm io - Ho sentito uno strano rumore, pensavo fosse un animale ferito oppure-
Un animale ferito?! Stai paragonando la mia voce a quella di un animale agonizzante?! Ma come ti permetti!
Taniguchi-san, sei qui?
Sono qui, Azumane-san!
Stai tranquilla Taniguchi-san, ti tireremo fuori di lì!
Si, mi sento molto positiva! Ho anche scoperto che Daichi-san è del segno del capricorno! Sono andata a controllare le affinità tra i segni e ho visto che siamo fatti l’uno per l’altra!
L’oroscopo dice che l’uomo della mia vita è del segno del capricorno. È destino!
Non puoi amarmi tu? Non puoi amarmi almeno tu?
Amami almeno tu, anche solo per stasera, Asahi.
Non ti ho mai detto di doverti prendere alcun tipo di responsabilità nei miei confronti Azumane! Non l’ho fatto perché eri tu, non l’ho fatto perché volevo qualcosa da te. Sarebbe stato lo stesso se con me ci fosse stato qualcun altro. Alla fine non ci hai solo guadagnato, pensandoci bene? Sei solo stato fortunato a trovarti lì in quel momento, no?
Come ti permetti di paragonarmi ad una bestia?! Ma tu come ti permetti di dire queste cose su di me? Tu che cosa ne sai di cosa ho provato io con te ieri sera? Pensi davvero che sia una cosa di poco conto? Forse per te lo sarà stato, ok, ma per me non è stato così Maria! Stupido io che ho perso la testa per una come te!
Ti ho fatto molto male?
Anche quella volta hai detto la stessa cosa.
Quella volta? Detto?
Allora sarebbe stato per sempre. Diceva così il cartellone, no?
Era la canzone che mio padre dedicava a mamma.
É italiana.
Lo è. Modì di Vinicio Capossela. Mia madre la ascoltava sempre quando erano a Livorno. Non ne capiva una sola parola, ma la amava. É diventata la loro canzone e una ninna nanna per me e Hotaru quando siamo nati. L’ho imparata a memoria senza nemmeno rendermene conto.
Me la canti di nuovo?
Solo se dormi Maria.
Scene che scorrevano come un film tra i loro sguardi e quelle parole.
«Sayonara»
Sussurrò Asahi di rimando.
Fu l’ultima parola che le rivolse.
Fu l’ultima volta che si videro.
***
Nevicava sulla pista d’atterraggio al di là della grande vetrata.
Non era una neve pesante, stava lentamente diventando fine, si scioglieva quando toccava terra, ma il cielo grigio che si stendeva alle spalle, maestoso, era uno spettacolo sublime.
L’aeroporto era addobbato per Natale, luci colorate ovunque, rosso che spiccava e un albero dalle dimensioni notevoli al centro della struttura che rendeva l’atmosfera confortante.
Era triste non poter passare le festività in famiglia quell’anno, a Daichi sarebbe sicuramente mancata l’atmosfera, o la camminata serale la vigilia di Capodanno al tempio, pregare per l’anno nuovo, ma almeno, avrebbe avuto sempre Suga e Asahi al suo fianco quel giorno.
Avrebbe mentito a sé stesso se avesse detto di non essere spaventato.
Non aveva la minima idea di che cosa aspettarsi da quell’esperienza e da quel futuro.
Andare in un posto lontano anni luce da casa, con abitudini diverse, una cultura diversa e una lingua che non era quasi nemmeno in grado di leggere, se non con molto esercizio.
A Belo Horizonte avrebbero alloggiato presso una comunità giapponese, studiato in una facoltà giappo-brasiliana, imparato sicuramente il brasiliano e fatto moltissime esperienze nuove, continuato con la pallavolo, con il sogno di una vita.
Ma ci sarebbero sicuramente stati quei momenti di forte smarrimento, dove avrebbe avuto la sensazione si essere solo nel mondo, di essersi perso, di stare per morire di solitudine.
Momenti in cui si sarebbe pentito di quella scelta, avrebbe pianto e sbandato, si sarebbe pentito di quello che si era lasciato alle spalle, domandandosi se la sua fosse stata una scelta giusta. Daichi non era preparato a tutto quello, anche se se lo era aspettato, e vacillava.
Avevano fatto il check-in e i bagagli pesanti erano stati caricati nella stiva, Daichi aveva la mano guantata stretta attorno al manico della valigia a mano.
Diciannove ore di volo per mettere tutta quella distanza tra sé e la sua vita.
Asahi gli stava accanto, ma sua madre Kaori non faceva altro che aggiustargli il colletto del giubbotto pesante, la sciarpa, accarezzargli il viso e fargli mille raccomandazioni.
Aveva il viso arrossato e gli occhi lucidi dallo sforzo di trattenere le lacrime, ma ci sarebbe riuscita ancora solamente per poco tempo. Asahi però la lasciava fare, accarezzandole ogni tanto le mani screpolate dal freddo e dal lavoro a cui erano sottoposte.
Hotaru invece era decisamente serena, come se il fratello stesse partendo solamente per andare dietro l’angolo, e che l’avrebbe rivisto presto, il prima possibile.
Lei era fatta in quel modo e, probabilmente, si sarebbe lasciata trascinare dal pianto solamente una volta tornata a casa, davanti l’evidenza della stanza vuota di suo fratello.
Asahi avrebbe voluto dire mille cose a sua madre, ringraziarla, baciarla e piangere sul suo grembo come un bambino, dirle che gli dispiaceva di allontanarsi in quel modo e darle un ulteriore peso inutile, dirle che non doveva preoccuparsi per lui perché sarebbe stato bene, anche se in realtà aveva una paura tremenda.
Avrebbe voluto dirle che con i soldi risparmiati doveva pensare a Hotaru, alla sua cura e a sé stessa, a comprarsi qualche vestito nuovo e a farsi bella, come piaceva ad Hajime.
Voleva dirle che gli dispiaceva di averle risposto male quando gli aveva chiesto di Maria, di averle mentito quando le aveva detto che era stato lui a lasciarla perché desiderava troppo seguire la sua strada. Dirle che in cuor suo desiderava o sperava ancora che lei venisse.
Che il suo era solamente un pensiero sciocco, che doveva invece rassegnarsi.
Ma tutte quelle cose non le diceva e non le aveva dette nemmeno nei giorni precedenti.
Kaori le aveva semplicemente percepite, guardando il figlio negli occhi, quando la sera precedente, con le valigie pronte accanto alla porta di casa, gli aveva chiesto di appoggiarsi con la testa sul suo grembo e l’aveva cullato tutta la notte, addormentandosi abbracciati.
Asahi era sempre il suo bambino, quello che aveva cresciuto dentro di sé con amore.
Koushi invece aveva le mani che tremavano, ma non per il freddo.
Le sue preoccupazioni non erano diverse da quelle di Daichi e da quelle di Asahi.
Ne avevano parlato, tutti e tre insieme, ed era rassicurante saperli lì, accanto a lui.
Ma aveva paura di non farcela, aveva paura di non essere all’altezza delle aspettative o della promessa che si era scambiato con Shimizu, di non trovarla al suo ritorno.
Aveva paura che lei avrebbe trovato qualcun’altro, che si sarebbe resa conto di quanto fosse insicuro e debole e indegno di lei, di quanto avrebbe potuto avere altro, di meglio.
Era per quel motivo che continuava a tenerle stretta la mano, con vigore, carico d’ansia.
I suoi genitori lo avevano accompagnato, era figlio unico, ma l’avevano presa bene.
Erano venuti tutti a salutare, tutti tranne chi aveva detto di non esserci.
Si erano abbracciati, Tanaka e Nishinoya continuavano a tirare su con il naso, Hinata e Kageyama se ne stavano vicini, imbronciati, mentre Tsukishima e Yamaguchi, anche lui con il naso colante, erano come al solito in disparte, il primo non sembrava particolarmente colpito dalla situazione, ma da come aveva salutato la senpai Maria quell’ultima volta in palestra, tutti sapevano che in realtà anche lui stava soffrendo del distacco come gli altri.
L’ora della partenza era vicina, dovevano salire su quell’aereo in breve tempo.
Daichi sentì sua madre avvicinarsi, era arrivata da sola, suo padre aveva da lavorare e per quanto riguardava Sachi, era stato lo stesso Daichi a chiederle di non affaticarsi, voleva vedere il suo nuovo nipotino nascere sano, si aspettava di ricevere molte foto prima che tornasse a casa per una visita.
Aveva salutato la sorella e i suoi nipotini strillanti la sera precedente, Sachi lo aveva rimproverato, lo aveva ripreso e quando si era calmata lo aveva tenuto stretto, dicendogli che poteva chiamarla se stava male.
A Daichi era girata la testa per tutto quell’affetto inaspettato.
Takahiro invece era stato formale, come suo solito, si era solamente raccomandato che chiamasse ogni tanto, se avesse avuto bisogno di qualcosa o di soldi, gli aveva detto di non mettersi a fare lavori part-time, ma di pensare solamente a studiare.
Daichi aveva sottolineato che aveva accettato quella borsa di studio per giocare a pallavolo.
Era stato un distacco formale, ma sostanzialmente sereno e tranquillo.
Sua madre lo baciò sulla fronte, aveva anche lei gli occhi lucidi come Kaori, e probabilmente le due donne avrebbero pianto una volta rimaste da sole, ma sorrideva, orgogliosa di lui.
Nel frattempo, Nishinoya aveva preso Asahi da parte, dicendogli qualcosa con una pacca sulla spalla, stavano parlando probabilmente di Hotaru, di Kaori, Asahi gliele affidava.
E di Maria, anche se ne avevano già discusso e avevano litigato, un litigio che era terminato con le scuse di Asahi, non solo per avergli mentito, ma ancora una volta per non avergli detto tutta la verità sulla faccenda. Asahi supponeva che ne avrebbe dovuto parlare anche con Koushi una volta da soli in Brasile, magari, senza che Daichi lo venisse a sapere però.
Anche se ormai quello era un capitolo chiuso, nonostante ancora alzasse il collo per vedere tra la folla, nel caso Maria avesse cambiato idea all’ultimo secondo.
L’ora era vicina, e Daichi decise di guardare per l’ultima volta lo schermo del cellulare, nessun messaggio. Non ne era sorpreso, non ci era nemmeno rimasto male.
Aveva mandato un messaggio a Yui la sera precedente, un tentativo estremo prima della fine.
Non era arrivata nessuna risposta e di Yui non si era vista nemmeno l’ombra, ma lui non ci era rimasto male. Le aveva detto addio, sia a parole che nel suo cuore, ma non voleva partire senza averci provato fino alla fine, nonostante tutto quello che lei gli aveva detto.
Daichi si posò una mano sul petto, sul taschino del giubbotto dove conservava il talismano e quel bottone strappato a una divisa femminile che aveva trovato il giorno del diploma nel suo rotolo di pergamena, come ci fosse finito non ne aveva la minima idea.
Non era nemmeno sicuro appartenesse a Yui, ma gli era diventato caro.
«È ora» Annunciò il coach Ukai, era andato anche lui fino all’aeroporto per salutarli.
Asahi, Daichi e Koushi raccolsero i loro bagagli a mano e si avviarono accompagnati da tutta la folla verso il gate segnato sui loro biglietti aerei.
La gente in fila stava passando, mostrando passaporti, visti e carte di identità varie, avevano indugiato davvero fino all’ultimo secondo.
«Mi raccomando, Daichi, qualsiasi cosa telefona a casa» raccomandò Kaede un’ultima volta baciando il figlio sulla fronte, gli diede un colpetto affettuoso con le mani sulle spalle e poi lo lasciò andare, affiancandosi a Kaori, che al suo fianco aveva fatto la stessa cosa.
Hotaru invece agitava la mano in aria salutando con enfasi, Yuu gli si era messo affianco.
Asahi li trovò divertenti, lei alta come una pertica e lui che non le arrivava nemmeno alla spalla, avrebbe voluto avere la capacità di conservare quell’immagine nella testa, come una fotografia in un cassetto che avrebbe potuto aprire in qualsiasi momento.
Koushi invece aveva messo un braccio attorno alle spalle di Kiyoko e si era allontanato di qualche passo, le aveva sussurrato qualcosa nell’orecchio, lei gli aveva accarezzato il profilo della mascella e dato un bacio leggero sulla guancia, all’altezza del mento.
Indugiarono tutti e tre ancora un istante prima di varcare quella linea.
A Daichi tremavano le mani mentre porgeva i suoi documenti e il biglietto aereo.
Decise di non voltarsi indietro oltre e Suga lo seguì, imitandolo.
Asahi fu l’ultimo, e quando volse lo sguardo indietro, vide che gli altri si stavano ancora sbracciando, nessuno se n’era ancora andato, anche se Daichi e Koushi erano già spariti dal loro campo visivo e presto lo avrebbe fatto anche lui.
Probabilmente, se davvero aveva imparato a conoscerli in quei brevi anni insieme, sarebbero rimasti tutti in aeroporto fino a quando l’aereo non fosse decollato.
Tra quelle facce che amava, l’unica che avrebbe voluto vedere per un’ultima volta non c’era.
Era arrivato il tempo di lasciare andare davvero quei sette mesi che erano stati sette secondi.
Voltò il viso e oltrepassò il gate, lo fece guardando solamente avanti.
Kiyoko rimase seduta su quella panchina in aeroporto per ore.
Lo fece anche quando gli altri cominciarono ad andarsene, qualcuno insistette per rimanere a farle compagnia, ma lei addusse una scusa sciocca e rimase ben presto sola.
Avrebbe avuto ancora modo di rivedersi con gli altri, per le festività e altre ricorrenze.
Si era accomodata su una di quelle panchine circolari, quelle che ospitavano un cilindro alto qualche metro al centro e su cui scorrevano pubblicità, per lo più offerte di voli o di viaggi.
Era sola, ma non le faceva paura. Al contrario, ne aveva bisogno.
Aveva bisogno di calmare il suo cuore e quella sensazione di vuoto che provava da qualche parte nel petto. Una volta aveva letto che quando si perdeva un arto si continuasse a sentirne la presenza anche nel corso degli anni, doveva essere una sensazione simile quella che stava provando in quel preciso momento.
Sospirò e si portò una mano sul cuore, accarezzando distrattamente la stoffa.
Sentiva già una tremenda mancanza e nostalgia, anche se l’aereo era partito solamente da una ventina di minuti. Si sentiva una sciocca, ma anche profondamente fiduciosa.
Aveva deciso di cominciare un lavoro part-time, mettere i soldi da parte per andare a trovare Koushi anche solo una volta nel corso di quei lunghi tre anni, era risoluta.
Avere quello scopo l’aveva aiutata a non versare nemmeno una lacrima.
Kiyoko osservava le persone camminare frenetiche con occhi distratti, famiglie tornare da viaggi all’estero, alcune persone erano perfino abbronzate, altre si separavano in lacrime.
Gli aeroporti erano luoghi strani, contenevano lacrime di gioia e di dolore in egual modo.
Stava osservando una bambina che correva in direzione del padre per abbracciarlo quando qualcosa di familiare entrò nel suo campo visivo, qualcuno che si guardava attorno frenetico.
Riconobbe la chioma scura lasciata libera sulle spalle, ondulata sulle punte, il montgomery rosso allacciato male e la sciarpa a riquadri, l’espressione smarrita.
Maria si stava guardando attorno freneticamente, probabilmente alla ricerca del gate corretto.
Sembrava smarrita in mezzo a tutta quella gente che invece sapeva esattamente dove andare.
Aveva l’affanno, sciocca com’era doveva anche essersi messa a correre.
Fu solamente per puro caso che i loro occhi si incrociarono, Maria si fermò immediatamente.
Shimizu pensò che fosse stata sciocca a cambiare idea all’ultimo minuto.
Si sarebbe risparmiata un ulteriore dolore se fosse stata fedele alle sue decisioni.
Se ne rimase seduta su quella strana panchina, da sola, a guardare la sua migliore amica.
«Sono arrivata tardi, vero?» Maria gridò per farsi sentire in mezzo alla folla.
Non stava piangendo e Shimizu ammirò la sua forza anche in quell’occasione, nonostante tutto. Nonostante la debolezza che aveva dimostrato nell’essere lì in quel momento.
«Sono partiti una mezz’ora fa» non era sicura che la sua risposta fosse udibile per l’altra, non riusciva davvero ad alzare la voce, era come strozzata in gola, da qualche parte.
Maria tuttavia annuì, traendo un respiro, aveva fatto la strada dall’ospedale quasi di corsa.
Sciocca, non sei riuscita nemmeno ad arrivare in tempo per vederlo partire.
Aveva le mani ghiacciate e non si sentiva nemmeno le dita dei piedi.
Si mise seduta accanto a Kiyoko, le prese distrattamente una mano.
Se ne rimasero entrambe per ore sedute su quella panchina, senza dire nulla.
Shimizu, ad un certo punto nel baccano, appoggiò la testa sulla sua spalla, Maria fece altrettanto. Era il loro modo di consolarsi, il loro modo di affrontare insieme quella perdita, sebbene per entrambe avesse dei significati profondamente diversi.
Sarebbero state colpite lentamente dalla mancanza, sentendosi soffocare in certi momenti.
Ma in quel momento avevano solamente bisogno l’uno dell’altra.
La realizzazione avrebbe trovato spazio con il tempo.
Yui aveva ancora il rumore del decollo dell’aereo nelle orecchie quando sorse il sole.
Era stesa su un fianco nel suo letto, lo sguardo assente puntato verso i raggi di luce che penetravano lentamente attraverso le tapparelle; non aveva chiuso occhio tutta la notte.
La batteria del cellulare produsse una serie di bip rumorosi, era ormai al cinque per cento.
Yui sbatté le palpebre secche un paio di volte, faceva fatica a sollevare la testa.
Osservò un’ultima volta il messaggio che aveva continuato a leggere tutta la notte.
“Ti aspetterò per un’ultima volta se vorrai. Non è ancora troppo tardi” - 23:37.
Non aveva dato nessuna risposta.
É troppo tardi invece. Non si può davvero tornare indietro ormai.
Yui si tirò faticosamente in piedi, sentiva tutto il corpo pesante come un macigno.
Infilò le pantofole e lo sfregamento della stoffa del pigiama sulla pelle le provocò dolore.
Sollevò distrattamente il pantalone di seta fino al ginocchio e osservò con occhi vuoti l’escoriazione che si era procurata il pomeriggio precedente, mentre correva freneticamente nell’aeroporto per raggiungere il luogo d’incontro che Daichi le aveva inviato in allegato.
Era andata a sbattere contro un passante precipitando rumorosamente a terra.
L’escoriazione era rossa e infetta perché non si era presa la briga di medicarla.
Non lo fece nemmeno quella mattina, riabbassò velocemente la stoffa e uscì dalla stanza.
Sperava sarebbe rimasta la cicatrice, come monito di che cosa aveva fatto per procurarsela.
Aveva intrapreso una corsa disperata, ma almeno era arrivata in orario per vederlo partire, sebbene nascosta dietro una colonna di cemento, con il ginocchio che le bruciava tremendamente e gli occhi appannati dalle lacrime.
Le voci dei suoi genitori, provenienti dalla cucina, la raggiunsero dalla rampa di scale.
Stavano chiacchierando sereni come facevano spesso, la voce di sua madre tuttavia era come al solito quella che prevaleva, Ayaka era sempre stata logorroica e sorprendentemente vivace.
Yui si resse alla ringhiera delle scale, si sentiva frastornata, con la testa che pulsava e aveva paura che se avesse lasciato la presa avrebbe ruzzolato lungo tutti i gradini di marmo.
Fece un passo alla volta, stanca, e le parole dei suoi genitori si fecero più chiare.
«- una notizia bellissima!» Stava dicendo Ayaka, versando qualcosa nella tazza di suo marito. Yui si sporse leggermente, senza tuttavia farsi vedere.
Kijuro era pronto per andare allo studio, vestito come al solito di tutto punto; era ancora un bell’uomo e nessuno avrebbe detto fosse ormai vicino alla sessantina.
Ayaka invece era ancora avvolta nella sua costosa vestaglia di seta, ma curata come suo solito.
Gli orecchini di perla che indossava luccicavano in concomitanza con il bianco asettico e luminoso dei mobili di quella cucina eccessivamente grande e lussuosa.
Suo padre aveva sofferto la fame quando era bambino, aveva lavorato fino a spaccarsi le ossa e raggiungere la posizione in cui si trovava gli era costato fatica, sudore, sangue e tantissimi sacrifici, a cominciare talvolta dal mettere da parte la sua stessa dignità.
Kijuro aveva ripetuto spesso a sua figlia che si sarebbe lasciato morire prima di vedere lei in una situazione simile, Yui doveva vivere bene ed essere felice, erano le sue uniche due condizioni.
«Kaede mi ha comunicato che Sachi-san aspetta un bambino!» continuava imperterrita Ayaka, avvicinandosi al forno per tirar fuori una teglia di biscotti caldi e fumanti. L’odore era invitante, tanto che anche lo stomaco chiuso di Yui fece qualche capriccio.
Kijuro sembrò indifferente alla notizia della moglie, come per ogni cosa che riguardava il suo vecchio amico Takahiro e la sua famiglia, ma Yui, che conosceva suo padre, riuscì a scorgere sul viso dell’uomo un accenno di sorpresa e compiacimento.
Ayaka sistemò con classe i biscotti ancora caldi su un piatto riccamente decorato.
Aveva lo sguardo puntato sul marito tuttavia, e sorrideva bonariamente, dolce.
Yui era stata un miracolo per entrambi, quel dono che non aspettavano più.
Un frammento di stella staccato dal cielo, caduto tra le loro mani.
Ci erano voluti quasi vent’anni di matrimonio per poterla stringere tra le braccia, quando, ormai stanchi, avevano cominciato a prendere in considerazione l’adozione.
Sachi, la primogenita di Takahiro, era stata come una figlia per Kijuro quando non ne aveva ancora una e sembrava non l’avrebbe mai avuta.
Quella bambina introversa e triste era stata molto a cuore a Kijuro, la cui scelta di allontanarsi da Takahiro doveva essere stata molto più complicata di quanto avesse fatto credere.
Era quello il motivo per cui Ayaka continuava ostinatamente a dare notizie su di lei, perché anche se Kijuro non rispondeva o lo faceva semplicemente con versi e grugniti, in realtà era contento di sapere tutte quelle cose e che la sua figlioccia acquisita stesse bene.
«Potresti andare a trovarla uno di questi giorni. Sai che a lei farebbe molto piacere».
Ayaka sistemò l’ultimo biscotto sulla pila perfetta che aveva creato e si diresse con il suo passo leggero e aggraziato verso la dispensa, alla ricerca dello zucchero a velo.
Kijuro mugugnò qualcosa di incomprensibile, che non sembrava né un assenso né un dissenso. Osservava la sua tazza di tè ormai vuota, con il fondo di erbe depositate.
Ayaka tornò accanto al marito e prese a versare lo zucchero a velo sui biscotti, aiutandosi con un colino di piccole dimensioni per distribuire la polverina in maniera equa.
«Kaede mi ha anche detto che ieri Daichi-san è partito».
La conversazione cambiò bruscamente.
Kijuro sollevò lo sguardo contrariato e lo posò sulla moglie, quello non gli interessava.
«Era in lacrime, povera donna. Ma consapevole che fosse il meglio per il futuro di suo figlio. Certo, andarsene in un posto lontano come il Brasile, dall’altra parte del mondo …».
Ayaka scosse la testa, portandosi un dito sporco di zucchero a velo alle labbra.
Kijuro invece allungò una mano e afferrò uno dei biscotti ancora caldi, rovinando in quel modo la piramide perfetta appena costruita con cura da sua moglie.
«Meglio che se ne sia andato per tutti quanti» borbottò senza cura, addentando il dolce.
Ayaka asciugò le mani appena lavate su uno strofinaccio e sollevò gli occhi al cielo.
Yui, che nel frattempo si era seduta sull’ultimo gradino delle scale, provò un senso di inquietudine, improvvisamente non voleva starsene più a sentirli parlare.
La realtà della partenza di Daichi, che non l’aveva ancora colpita del tutto, la colse di sorpresa in quel momento, violenta, alla bocca dello stomaco.
«Avrei voluto che venisse a salutarci almeno un’ultima volta …» continuò invece Ayaka, imperterrita come suo solito quando si trattava di parlare di Daichi, come se l’ira o la noncuranza del marito non l’avessero mai interessata «Se l’avessi saputo quella volta che era fuori casa con Yui … l’avrei costretto a restare, quel benedetto ragazzo!» e scosse la testa contrariata, schiaffeggiando la mano del marito quando tentò di rubare un altro biscotto partendo dalla base per far cadere tutta la struttura.
Kijuro la guardò male, ma Ayaka non si scompose nemmeno di un millimetro.
«Per il bene di tua figlia è meglio che se ne sia andato!» continuò lui, rigido.
Ayaka incrociò le braccia sul bancone, affrontando il marito viso a viso.
Avevano sempre fatto in quel modo loro due, preso le situazioni di petto.
«Per il bene di tua figlia sarebbe stato meglio farci gli affari nostri invece, dal principio!».
Kijuro sospirò, scuotendo violentemente la testa.
Si alzò in piedi con un movimento brusco, mettendo la tazza sporca nel lavabo insaponato.
«Dove pensi che sia corsa ieri pomeriggio tua fi-».
«Buongiorno».
Qualsiasi cosa Kijuro stesse dicendo venne bruscamente interrotto da Yui.
Era entrata in cucina fingendo uno sbadiglio.
La conversazione era andata troppo oltre perché potesse restarsene ad ascoltare.
Kijuro e Ayaka si rivolsero uno sguardo, domandandosi silenziosamente se non avesse sentito qualcosa, ma Yui fece finta di nulla, prendendo la sua tazza rosa dalla dispensa per versarsi del tè ancora caldo. Non amava fare la colazione salata, come suo padre.
Afferrò anche lei uno dei biscotti appena sfornati, mentre si metteva seduta fingendo di non avere lo sguardo indagatore di entrambi i suoi genitori puntato addosso.
«Yui cara, non hai dormito stanotte? Hai la pelle tirata e gli occhi gonfi» commentò Ayaka incrociando le braccia al petto sotto il seno, aveva un’espressione grave, eccessivamente preoccupata; Yui fece spallucce, sorseggiando il suo tè.
«No, ho dormito perfettamente. Anzi, credo di non aver dormito così bene da mesi».
Il suo tono di voce non suggeriva nulla delle menzogne che stava dicendo.
Ovviamente, Yui era consapevole che ci sarebbe voluto ben altro per ingannare la donna che l’aveva messa al mondo, ma finché si mostrava consapevole delle sue stesse parole, Ayaka non avrebbe potuto avere da ridire.
Si schiarì la voce e appoggiò la tazza sul ripiano di marmo.
«La settimana prossima farò i test d’ingresso per l’Università X» annunciò. Una decisione definitiva maturata nel corso di quella lunga notte in bianco.
Yui ricordava ancora il giorno in cui aveva parlato con Reira nella galleria d’arte organizzata da sua madre, non era passato nemmeno tanto tempo; la sorella secondogenita di Daichi le aveva suggerito di seguire i suoi sogni, ma Yui non ricordava quella conversazione perché Reira era stata particolarmente brava a leggere i suoi desideri, ma per le parole che aveva pronunciato, spingendola inesorabilmente verso una fine che aveva solamente evitato.
L’Università che aveva nominato era la stessa che un tempo aveva frequentato suo padre.
Kijuro e Ayaka avevano compreso benissimo cosa significassero le sue parole.
Quale decisione comportassero di conseguenza.
Non era stata una scelta facile, non quando si era trovata ad un passo dal seguire il consiglio di Reira, quello di fare esattamente ciò che desiderava, ma una decisione presa per necessità, per sopravvivenza. Sperava che i suoi genitori non lo capissero.
«Ma … è una notizia fantastica Yui. Sono contento tu ti sia decisa!».
Kijuro interruppe il breve silenzio che si era creato, le appoggiò una mano sulla spalla massaggiandogliela dolcemente; Yui sorrise timidamente in direzione di suo padre, sapeva di averlo fatto contento con la sua decisione di intraprendere gli studi in legge, sapeva di averlo appena reso estremamente orgoglioso di lei.
Lo sapeva, ma non riusciva ugualmente ad esserne felice.
Ayaka, invece, non aveva sorriso e non aveva mostrato nemmeno un briciolo dell’entusiasmo di Kijuro, guardava Yui in silenzio, con le labbra chiuse in una linea sottile contrariata.
«Sei sicura, Yui?» intervenne immediatamente, apprensiva «Non mi sembrava tu fossi predisposta ad uno studio impegnativo come questo. Credevo che -».
«Sciocchezze!» la interruppe Kijuro, aveva ancora il sorriso sulle labbra «Yui è in grado di fare qualsiasi cosa voglia. Diverrà un ottimo avvocato, d’altronde è mia figlia».
Kijuro le fece l’occhiolino e ancora una volta Yui fece solamente un accenno di sorriso, non riusciva del tutto ad ignorare l’occhiata nervosa e contrariata di sua madre.
Ayaka conosceva meglio di chiunque altro l’amore della figlia per l’arte, di qualsiasi forma.
Era normale che fosse preoccupata per il suo futuro.
«Sendai è una città sistemata» stava nel frattempo dicendo Kijuro «Ti troverai sicuramente bene. Dovremmo andare a vedere un appartamento e -».
«Non mi servirà un appartamento, papà» lo interruppe Yui.
Come si era aspettata, sia Ayaka che Kijuro la fissarono interdetti, come avesse parlato un’altra lingua a loro totalmente sconosciuta. Yui temeva quella parte di confessione.
Temeva che suo padre e sua madre avrebbero immediatamente compreso la reale ragione che si celava dietro la sua scelta; temeva che suo padre ne sarebbe rimasto tremendamente deluso e che invece sua madre non l’avrebbe mai lasciata andare.
Kijuro aveva raffreddato l’entusiasmo, le labbra congelate nel fantasma di un sorriso.
«O almeno, non mi servirà qui in Giappone se mi classifico tra i primi cinque».
Yui pronunciò quelle parole fissando il padre negli occhi, perché le comprendesse per bene, mentre continuava a farsi scivolare la tazza ormai vuota da una mano all’altra.
Kijuro si rabbuiò immediatamente e incrociò le braccia al petto.
«Che cosa significa questo, Yui?».
Il suo tono di voce era minaccioso, come se volesse sfidarla a dire una sola parola sbagliata.
Yui avrebbe voluto rassicurare le sue paure.
Non sto tentando di scapparmene in Brasile, papà.
Avrebbe voluto dirgli, ma ovviamente non lo fece e furono altre le sue parole.
«I primi cinque in graduatoria hanno l’opportunità di studiare a Londra, in Inghilterra».
La sua fu una spiegazione lenta, detta con cautela, voleva far sembrare la sua una scelta ragionata, ferma, presa con convinzione e forse in parte lo era.
Non poteva dire ai suoi genitori che era stato solamente quel dettaglio a convincerla ad entrare in quell’Università e non la passione per la legge o la voglia di far contento suo padre.
Non poteva dire loro che l’aveva fatto per scappare da tutto quello che le ricordava Daichi.
Che non avrebbe sopportato di camminare per quelle strade familiari o andare da qualsiasi altra parte sapendo che lui non sarebbe stato lì sotto il suo stesso cielo.
Che voleva mettere chilometri e chilometri di distanza sul suo cuore.
«È uno stage quinquennale. Non posso rinunciarvi».
Ayaka e Kijuro rimasero in silenzio per un tempo che parve interminabile.
La donna aveva una mano premuta sulle labbra e fissava la figlia come se stesse tentando di esaminarla nei minimi dettagli, fino ad arrivare ai nervi, ai tessuti e alle cellule stesse.
Era uno sguardo soffocante a cui Yui non poteva sottrarsi se voleva essere convincente.
Ma quando arrivò il momento di intervenire fu Kijuro a parlare, e non Ayaka.
«Non è necessario che tu vada a Londra per studiare legge» decretò, categorico «Se l’Università di Sendai non ti piace, ne troveremo una a Tokyo che -».
«No».
Yui non urlò e non alzò la voce, ma fu talmente categorica che Kijuro tacque.
«Se posso avere questa opportunità allora non tenterò nient’altro».
Kijuro comprese immediatamente che non ci sarebbe stata battaglia contro sua figlia che avrebbe potuto vincere quella mattina, inoltre, l’orologio diceva chiaramente che doveva affrettarsi se voleva arrivare a lavoro in orario.
«Ne riparleremo con calma stasera, ma se è quello che vuoi …».
Non concluse la frase, sospirando pesantemente, Ayaka ancora non parlava.
Yui smise di giocare distrattamente con la tazza e non aggiunse altro.
Rimase seduta anche quando Kijuro salutò velocemente Ayaka con un bacio sulla guancia, le rivolse un’ultima occhiata e uscì dalla cucina per andare a lavorare.
Sapeva che non era ancora finita, che aveva ancora una persona da convincere.
Non sarebbe stato facile come per suo padre, che avrebbe accettato qualsiasi cosa fin tanto che lei avesse studiato legge, come aveva sempre sognato sua figlia facesse.
Ayaka era sua madre e la conosceva nei minimi dettagli della sua anima.
«La tua è una decisione affrettata Yui. Non dovresti scappare in questo modo».
Yui saltò immediatamente in piedi, come se non riuscisse a sentirla parlare.
Si avvicinò al lavabo e iniziò a lavare le stoviglie che vi erano dentro, insieme alla sua tazza rosa della colazione, quella che le aveva regalato Kaede quando era solamente una bambina.
Ne era affezionata al punto tale che, quando si era spaccato il manico durante un lavaggio, aveva passato ore a cercare i frammenti nell’acqua e sul fondo del lavabo per poterla riassemblare; aveva pianto per ore intere quando era successo, ed era stato Daichi ad aiutarla a rimettere insieme tutti quei pezzi, sporcandosi le dita di colla che non si era tolta per giorni.
Era per i ricordi che Yui amava quella tazza.
Ecco fatto Yui, è come nuova. Vedi?
Hai le mani tutte incollate, Daichi.
Ops. Eh eh.
Sei uno sciocchino.
Ma tu hai smesso di piangere, no?
L’avrebbe lasciata lì una volta partita.
«Sono ancora convinta che tu abbia scelto senza riflettere. Cosa mi dici dell’arte?».
Ayaka non aveva smesso di parlare o lamentarsi, era solamente Yui che si era persa momentaneamente nei ricordi, l’unica fonte di sollievo da quando l’aereo era decollato.
Avrebbe voluto tapparsi le orecchie e chiedere alla madre di smetterla di blaterare.
Ma se avesse fatto una cosa simile non avrebbe mai ottenuto la sua comprensione.
«Mamma» la zittì «Non è una decisione che ho preso alla leggera».
Yui lasciò andare finalmente la tazza rosa della sua infanzia e cominciò a strofinare con vigore le altre stoviglie lasciate in ammollo; Ayaka la guardava con una tale ostinazione da non rendersi nemmeno conto di che cosa stesse facendo la figlia.
«E che cosa mi dici di Hayato, allora?» disse severa la donna e Yui si bloccò.
Aveva parlato con i suoi genitori della sua storia con Hayato, Kijuro ne era stato felicissimo.
In quel momento se ne pentiva amaramente.
Non avrebbe dovuto farlo, nemmeno per tranquillizzare suo padre che con Daichi non c’era niente e mai ci sarebbe stato.
«Ci hai detto che è una cosa seria questa volta».
Ayaka era severa per una buona ragione e Yui lo capiva, ma avrebbe preferito che non tirasse fuori quell’argomento e proprio in quel momento, quando stava combattendo contro sé stessa per non mostrare nemmeno un briciolo di dubbio o insicurezza.
«Hayato vuole studiare ingegneria, come suo padre» disse, noncurante «Se siamo destinati a stare insieme allora troveremo un modo. Altrimenti non ne morirò».
Stava lavando la stessa tazza da qualche minuto ormai, quella di suo padre.
Le sue stesse parole le erano risultate fasulle e insincere, era chiaro che non le importasse nulla di che fine avrebbe fatto la sua storia con Hayato, ma che volesse solo scappare.
Si morse il labbro inferiore.
«Tu vorresti solamente seguirlo, non è vero? Lui non è qui e non riesci più a sentirlo, non senti più niente nei luoghi in cui lo collochi e che ti sono familiari. Quindi vuoi scappare».
La voce di Ayaka si era fatta nuovamente dolce, sorprendentemente triste.
Yui faceva fatica a trattenere le lacrime ormai e qualsiasi cosa avrebbe detto non sarebbe servita a persuadere sua madre, che aveva compreso le sue ragioni una per una.
La donna le afferrò dolcemente i polsi e le tolse le mani dall’acqua.
Il sapone era rimasto con le sue bianche bollicine un po’ dappertutto sulla sua pelle, l’acqua gocciolava sul pavimento immacolato, finendo anche sulla punta delle loro ciabatte.
Erano viso a viso le due donne, madre e figlia.
«Ti lascerò fare quello che desideri, va bene» Ayaka aveva le lacrime agli occhi, si torturava continuamente le labbra «Se stare qui ti fa soffrire. Se vuoi andare a Londra perché non riesci a sopportare la sua assenza. Se può aiutarti ad andare avanti».
Yui aveva invece smesso di trattenere le sue, di lacrime.
«Ma non far soffrire altre persone insieme a te. É l’unica cosa che, come una madre che ha fallito, io ti chiedo. Ti prego, figlia mia».
Yui sciolse le mani dalla stretta debole di sua madre per avvolgerle le braccia attorno al collo.
Ayaka profumava di mamma, di sicurezza, di conforto, di protezione.
Le stava solamente domandando di vivere la sua vita diversamente.
E di avere considerazione di Hayato, ma Yui non poteva sapere che cosa sarebbe successo tra di loro, come sarebbero andate le cose da quel momento.
«Grazie, mamma» si limitò solamente a bisbigliare, senza dirle che aveva ragione.
Senza dirle che era esattamente quello che provava, tutto quello che sentiva.
Anche se non era riuscita ad ingannarla come voleva, anche se non poteva essere sincera con lei fino alla fine e scoppiare a piangerle in grembo, Ayaka aveva compreso e aveva accettato.
Yui non aveva idea di dove l’avrebbe portata il futuro.
Sapeva solamente di aver lasciato il suo cuore, da qualche parte in Brasile.
E di non volerlo riavere indietro.
Le dava l’illusione che, forse, un giorno lontano diciassettemilatrecentosessanta chilometri, sarebbe stato il destino a riportarglielo indietro: sano, rattoppato e custodito con cura.
Maria era rientrata in casa quella sera infreddolita e dolorante.
Il silenzio che l’accolse contrastava violentemente con il vociare che sentiva ancora nella testa.
Avevano aspettato che si facesse sera, lei e Kiyoko, prima di tornarsene a casa.
Maria aveva sentito un vuoto incredibile nel cuore lungo tutto il tragitto.
Come se le avessero strappato qualcosa lasciandola senza respiro, senza un futuro.
Aveva tentato di capire come potesse fare a colmarlo, a farlo passare il prima possibile, ovviamente non aveva trovato alcuna risposta e alla fine si era arresa alla necessità del tempo.
La casa era fredda e silenziosa, segno che non vi era stato nessuno per tutta la giornata.
Maria avrebbe voluto telefonare alla nonna e sapere se andava tutto bene, se aveva bisogno che le portasse qualcosa in ospedale, se suo padre necessitasse di un cambio per quella notte.
Ma invece di mandare quel messaggio a Mariko, ne inviò uno a Nanako-san.
Voleva un appuntamento per la mattina seguente, voleva farlo il prima possibile.
Aveva indugiato anche troppo, ma Asahi era partito e lei non aveva motivo di esitare oltre.
Nanako le rispose quasi subito, mentre stava salendo le scale per raggiungere camera sua senza cenare, voleva solamente chiudere gli occhi e risvegliarsi mesi, anni, secoli dopo.
“Ti do appuntamento domani mattina alle 10:30. Ho ricevuto il documento approvato da tuo padre e possiamo proseguire. Andrà tutto bene, riposa stanotte. Domani sarò io lì con te” 22:16.
Maria si lasciò cadere sul proprio letto senza nemmeno togliersi il cappotto di dosso.
La sciarpa, avvolta malamente attorno al collo, cadde a terra avvolgendosi su sé stessa.
Non aveva nemmeno acceso la luce, ma non ce n’era bisogno, starsene al buio era quello che voleva. Con gli occhi fissi da qualche parte, senza davvero riflettere su nulla.
Aveva pianificato di alzarsi con calma una volta che il cuore avesse smesso di far male.
Farsi una doccia calda, una camomilla che la tranquillizzasse e preparare una borsa per domani, qualcosa che potesse servirle a seguito dell’intervento, ne aveva parlato con Nanako.
Voleva avvisare Kiyoko perché l’accompagnasse, aveva paura di andarci da sola.
Inoltre, avrebbe dovuto far sì che suo padre non lo venisse a sapere in alcun modo, almeno non prima che avesse completato l’intervento, alle conseguenze ci avrebbe pensato solamente successivamente se fosse stato necessario.
Aveva il cambio con la nonna a ora di pranzo e sperava di poter fare in fretta.
Invece si addormentò, scivolando in un sonno agitato e inquieto senza accorgersene.
Camminava su una strada completamente bianca, ma solida.
Non aveva la sensazione di precipitare o di appoggiarsi sul nulla.
Non sapeva dove stesse andando, che direzione stesse prendendo, se ci fosse una fine a tutto quel bianco incondizionato, ma non era agitata, non si sentiva spaventata né insicura.
Il primo oggetto in cui si imbatté fu un ciuccio di caucciù, era scuro, Maria si chinò e lo raccolse, continuando a camminare serenamente.
Fu la volta di un bavaglino, aveva il bordo ricamato d’azzurro e sulla tovaglietta bianca era cucita un’apetta umanizzata, con un ciuccio a coprirle metà della faccia.
Maria raccolse anche quello, sospirando, e proseguì.
Lungo il percorso si imbatté in un biberon, un sonaglino, un pannolino pulito, delle scarpette, una macchinina, un seggiolone vuoto, un cucchiaino per bambini, una salopette …
Qualcosa lo lasciò lungo la strada, altre cose le portò con sé.
Aveva le braccia piene quando raggiunse finalmente la panchina, era così stanca …
Si mise seduta, quando lo fece aveva nuovamente le mani libere, gli oggetti erano spariti e non era sola. Accanto le era seduto un uomo, capelli lunghi sulle spalle avvolti in una crocchia morbida e scombinata alla base della nuca, barba incolta di giorni sul viso spigoloso.
Indossava una canotta nera attillata, dei jeans stracciati sporchi di cemento e polvere bianca e scarponi giallo ocra macchiati di fango e incrostati di qualcos’altro.
Aveva un sorriso gentile e familiare, Maria seppe immediatamente chi fosse quell’uomo.
Hai fatto tanta strada per arrivare fin qui, sarai stanca!
L’uomo le sorrise, aveva la voce roca, era vestito esattamente come nella foto che Asahi aveva sulla scrivania della sua stanza, quella che Maria aveva visto solamente una volta.
Che cosa ci fa qui, Hajime-san?
Domandò serena, osservando il profilo familiare dell’uomo.
Non assomigliava totalmente ad Asahi, ma quello sguardo gentile e la voce … erano uguali.
Mi sto prendendo cura del mio bambino.
L’uomo era sereno e indicò con una mano grande e callosa davanti a sé.
Maria seguì la direzione da lui indicata e si accorse per la prima volta della creaturina seduta a terra a pochi istanti da loro; era di schiena, ma era minuto e paffutello.
Aveva una matassa di capelli scuri, sottili come seta e morbidi, del profilo si intravedeva una guancia paffutella e un nasino minuscolo, leggermente all’insù.
Giocava con delle costruzioni, anche se doveva avere all’incirca un anno e non ne era in grado.
Maria stava guardando Asahi da bambino, avrebbe voluto alzarsi e prenderlo in braccio, ma non ci riusciva, era come incollata a quella panchina e sentiva il corpo pesare come una roccia.
Non è bellissimo? Continuò Hajime, aveva incrociato le braccia al petto, orgoglioso.
Il bimbo sollevò lo sguardo su di loro, un istante, con i suoi profondi occhi castani.
Erano indubbiamente gli occhi di Asahi quelli, eppure … Maria aveva una strana sensazione.
Hai fatto un ottimo lavoro, Maria-chan! Hajime le appoggiò una mano sulla gamba.
Lei distolse lo sguardo dal bambino per un secondo, apprensiva senza sapere perché, e fissò l’uomo che non conosceva – ma che conosceva invece dentro di sé, che le sorrideva bonario.
Ma io non ho fatto nulla, Hajime-san. Al contrario, ho fatto solamente soffrire Asahi!
Hajime scoppiò a ridere e le aggiustò una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio, in un gesto paterno affettuoso che a Maria, aveva la sensazione di essere tornata bambina, scaldò il cuore.
Ma guarda invece Asahi com’è felice!
Maria aggrottò le sopracciglia, ma ancora una volta tornò ad osservare il bambino.
Non era solo. Asahi era inginocchiato davanti a lui e lo stava prendendo in braccio.
Se lo tenne leggermente sollevato davanti al viso, baciandolo sul nasino minuscolo.
Aveva un sorriso radioso e il bambino rideva, una risata cristallina e innocente, accarezzando la guancia di, Maria ormai ne era certa, quello che era suo padre.
Sentì qualcosa capovolgersi nel suo corpo, forse lo stomaco e qualche altro organo.
Era quella la sensazione strana che aveva provato, vedere sé stessa in quel bambino.
Si portò immediatamente le mani sul grembo, le dita convulsamente chiuse attorno alla maglietta, aveva come la sensazione che le avessero strappato qualcosa da dentro e si sentiva soffocare al solo pensiero …
Voleva alzarsi da quella panchina e stringere anche lei quel bambino tra le braccia.
Non riesco ad alzami Hajime-san. Disse con voce strozzata, terrorizzata.
Ma Hajime le sorrise, mentre Asahi e suo figlio continuavano a ridere e farsi coccole.
Stai perdendo una parte di te stessa, è per quello.
Le spiegò pazientemente l’uomo, improvvisamente, indossava un abito da matrimonio ed aveva decisamente qualche anno in meno, i capelli tagliati corti e curati, profumava.
E stai perdendo anche una parte di Asahi. Anche se lo hai già perso.
Maria tentò nuovamente di alzarsi, ma inutilmente, provava quella strana sensazione di quando voleva gridare durante un incubo ma non ci riusciva.
Ma quello che stava vivendo non era un incubo, no, lei voleva solamente alzarsi da quella panchina per andare a stringere il suo fagiolino tra le braccia, perché ne sentiva il bisogno.
Vuoi tenere il tuo bambino tra le braccia, Maria-chan?
Si, lo voleva. Voleva vedere i suoi occhi e toccare le sue manine e sentire il suo odore.
Lo aveva voluto per settimane, ma non aveva potuto ammetterlo a sé stessa.
Voglio che Asahi abbia qualcuno, quando tornerà indietro.
Non seppe da dove le vennero quelle parole, era solamente quello che sentiva.
Voleva che Asahi avesse qualcuno, qualcosa di lei, una volta che avesse realizzato tutti i suoi sogni senza alcun rimpianto e fosse tornato indietro soddisfatto e felice.
Se non posso essere io, che almeno sia lui.
Hajime rise, una risata roca ma piena e contenta, come quella di un adulto ancora bambino.
Le allungò una mano, tra le dita stringeva un braccialetto ricamato rosso, familiare.
Il braccialetto che le aveva regalato Asahi al tempio, la notte del suo compleanno.
Dallo al tuo bambino. Glielo avvolse delicatamente attorno al polso.
In quel momento, il piccolo si produsse in una risata fragorosa, Asahi lo aveva fatto volare di qualche centimetro sopra la sua testa; stavano giocando a fare l’aereo.
Ah, quanto sono belli i miei bambini.
Il commento di Hajime era orgoglioso, si passò una mano dietro la nuca, un gesto familiare. Una luce nel mondo.
Bisbigliò, sorridendole un’ultima volta.
Nella scena successiva Maria era da sola su quella panchina, accanto a lei c’era Asahi.
Era allarmata, si guardava attorno spaventata, dov’era andato il fagiolino?
Lo aveva perso da qualche parte?
Ho paura, Asahi. Dov’è andato?
Si guardava attorno, frenetica, Asahi non diede la risposta che si aspettava.
Una luce nel mondo.
Maria si svegliò di soprassalto, con il respiro strozzato in gola.
La stanza era ancora buia come quando aveva chiuso gli occhi, ma c’era qualcosa di diverso: la luce che filtrava attraverso le tapparelle semichiuse della finestra.
Si mise a sedere lentamente, osservando con espressione confusa lo schermo del cellulare lasciato acceso durante la notte, che segnava le otto e quarantatré minuti.
Era mattina.
Fece per alzarsi con impeto, ma qualcosa la bloccò e rimase seduta sul suo letto, immobile.
Sentiva qualcosa di strano, una sensazione di bagnato tra le gambe …
Si tolse velocemente il giubbotto e prima ancora di slacciarsi i pantaloni, lo vide.
Allungò le dita tremanti toccando la stoffa spessa dei jeans e quando ritrasse la mano i polpastrelli erano inevitabilmente macchiati di rosso: sangue vivo.
Fu colta immediatamente dal panico, stava andando in iperventilazione.
Prese a respirare con fatica, portandosi una mano alla gola, che cosa era successo?
Aveva corso per andare in aeroporto la sera precedente, aveva corso senza la minima cura, ecco che cosa era successo.
Si era addormentata con dei dolori forti, come delle contrazioni e …
Ripensò a tutte le volte che aveva desiderato succedesse una cosa simile.
Si odiò per averlo fatto. Si odiò con tutta sé stessa.
Afferrò il cellulare con il cuore in gola e corse immediatamente nel bagno, mise il viva-voce perché le tremavano le dita e non riusciva a tenere l’oggetto in mano senza farlo cadere.
Kiyoko rispose al secondo squillo.
“Maria-chan, so che hai scritto alla mamma, ogg-”.
«Kiyoko-san, non lo sento più!».
Maria si abbassò velocemente i pantaloni per controllare la situazione, le si fermò il respiro in gola, sembrava avesse avuto una vera e proprio emorragia nel corso della notte.
Vedeva tantissimo sangue e le girava la testa, presa dal panico.
Shimizu tacque alcuni secondi, doveva aver metabolizzato le sue parole, poste in un contesto.
«C’è sangue! C’è sangue … dappertutto! Non- non lo sento!».
Dovevano aver cominciato a scendere anche le lacrime, ma Maria non se ne rese conto.
Era la sua punizione, lo sapeva. Non avrebbe mai visto quella creatura.
Vuoi tenere il tuo bambino tra le braccia, Maria-chan?
La dolce voce di Hajime le tornò in mente senza preavviso in quel momento disperato.
Si! Voglio tenerlo, voglio vederlo! Coraggio, resta con la mamma! Coraggio!
«Kiyoko-san non voglio, aiutami!».
Shimizu trasse un respiro profondo dall’altra parte del telefono e quando parlò la sua voce risuonò immediatamente risoluta e ferma, come sempre calmante.
“Sto arrivando, Maria-chan. Andiamo immediatamente da mia madre. Andrà tutto bene, non agitarti e andrà tutto bene. Arrivo, tu respira, respira”.
Maria respirò, respirò come le aveva detto l’amica, anche se non poteva respirare liberamente.
Si lavò con mani tremanti, controllando che non uscisse altro sangue. Il flusso parve essersi arrestato.
Si massaggiava il ventre, non sentiva davvero nulla.
Come se non ci fosse mai stato nulla.
Kiyoko impiegò esattamente quindici minuti per arrivare.
Maria la stava aspettando nell’ingresso seduta sul gradino di rialzo, indossava lo stesso giubbotto che non aveva tolto durante la notte, ma dei vestiti puliti.
Le mani erano incastrate tra le cosce chiuse, oscillava avanti e indietro in preda all’ansia.
Aveva provato a pensare ad altro, ma tutto il suo essere era inevitabilmente concentrato su una sola parte del suo corpo, in attesa di percepire qualcos’altro, altre perdite.
Si alzò con impeto e aprì la porta disperatamente, abbracciando Kiyoko in lacrime.
Non ricordò molto della strada che la condusse da Nanako, tornò presente a sé stessa solamente quando la donna la fece stendere sul lettino e cominciò a visitarla.
Maria aveva il cuore in gola quando la donna si apprestò a farle l’ecografia.
Se la prima volta che si era ritrovata in quella stanza aveva fatto di tutto per non guardare quello schermo nero e bianco, in quel momento non riusciva a distogliere lo sguardo.
La stanza era anche la stessa di quella volta, lo stesso poster sulla parete, le stesse tende, la stessa disposizione dei mobili … era lei ad essere completamente cambiata.
Nanako aveva l’espressione corrucciata mentre la visitava, le aveva fatto tantissime domande a cui Maria aveva risposto a monosillabi, con voce tremante di paura e angoscia.
Le lacrime le appannavano la vista, le mani erano premute sulle labbra, le unghie rovinate.
E come se all’improvviso un nodo nello stomaco si fosse sciolto, il cuoricino del suo bambino prese a battere vigorosamente attraverso l’apparecchio, un suono ritmato e persistente, rassicurante.
Maria distolse lo sguardo dallo schermo e si lasciò cadere con la testa sul cuscino, rilassandosi. Le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento le rigarono le tempie, sciogliendosi.
Nanako si lasciò andare ad un sorriso, le indicò lo schermo, la figurina a forma di fagiolino.
Era stata pronta a fare tutt’altro quella mattina, ma non aveva immaginato di ritrovarsi invece a dover rassicurare quella creatura, che aveva visto crescere insieme a sua figlia, sul fatto che il suo bambino stesse bene e non l’avesse perso.
Era un cambio di cuore in cui non aveva sperato e che l’aveva sorpresa positivamente.
«Il feto sta bene Maria-chan» la tranquillizzò a voce, coprendole ulteriormente le gambe.
Maria annuì distrattamente, aveva ripreso a respirare decentemente e aveva spostato una mano ancora tremante, timidamente e inconsapevolmente, sul ventre, sotto l'ombelico.
«Tuttavia, sei stata fortunata. Ma uno sforzo fisico come quello …».
La donna non terminò la frase, non ce n’era bisogno per comprenderne la fine.
Maria si limitò ad annuire, mordendosi il labbro inferiore, Nanako sospirò e incrociò le braccia sotto il seno, avvicinandosi con la sedia al lettino, le prese una mano con affetto.
«La tua reazione a quest’episodio mi ha fatto comprendere delle cose Maria-chan, ma … ma devo domandartelo comunque, l’intervento è fissato tra dieci minuti, vuoi ancora farlo?».
Maria osservò il soffitto di quella stanza asettica, la sua mano accarezzava il ventre con maggior sicurezza, era la prima carezza che faceva al suo bambino con consapevolezza, senza vergognarsene e senza angoscia. Lo portava dentro di sé da una decina di settimane, ma era la prima volta che sentiva davvero una strana serenità nel pensare a lui … o a lei.
«Quando ho visto tutto quel sangue ho pensato di voler morire, Nanako-san».
La sua voce era un sussurro, era roca, nonostante non avesse aperto bocca per minuti interi.
Non guardava la donna negli occhi, né sentiva la presenza di Kiyoko alle sue spalle.
Maria stava pronunciando quelle parole per la prima volta, lo faceva con fatica.
«Mi sentivo soffocare ogni volta che ci pensavo. Ogni volta che pensavo di volerlo fare … sentivo il cuore strapparsi» Aveva un nodo alla gola «Ma sapevo di non poterlo tenere. Volevo convincermene. E ci sarebbero davvero tantissime motivazioni per non averlo …».
Si affollavano continuamente nella sua testa, erano annidate nei suoi pensieri, la privavano del sonno la notte, ancora prima che potesse percepire veramente di avere una creatura nel suo grembo.
«E ho paura, Nanako-san, ho una paura tremenda. Mi sento inadeguata, immatura. Non ho un lavoro, ho a mala pena finito di studiare e ho mandato via il padre di questa creatura perché potesse vivere una vita felice» Maria si tormentava le mani, dalle pellicine era uscita qualche goccia di sangue, ma nemmeno se ne era accorta, Nanako le strinse la mano più forte.
«Mi sono convinta che se non l’avesse mai saputo non ne avrebbe sofferto. E che nemmeno io ne avrei sofferto. Me lo sarei dimenticata, sicuramente, con il tempo … ma non è vero».
Maria trovò finalmente il coraggio di spostare lo sguardo sul volto della donna.
Nanako aveva l’accenno di un sorriso sulle labbra, la ascoltava con fare materno.
Maria invece era bagnata di lacrime, ma aveva smesso di lasciarle scendere ormai.
«Non è vero, perché la verità è che ho amato questa creatura dal primo istante. E non ho potuto farne a meno, no, non ho potuto …».
Kiyoko si era spostata silenziosamente mentre Maria parlava, le si era avvicinata e, come fosse stato un riflesso incondizionato, Maria le aveva stretto una mano, mentre l’amica le asciugava una lacrima ormai vecchia che stava lentamente scivolando sulla tempia.
«Ci ho provato … ma amo il padre del mio bambino, è questo il problema. Quindi, anche se mi odierà quando tornerà indietro, anche se non vorrà vedermi quando lo verrà a sapere, anche se non capirà le mie scelte … va bene, ci sarà questo bambino ad aspettarlo».
Maria tacque per alcuni istanti, la voce aveva cominciato a tremarle leggermente.
Fece un respiro profondo e continuò a guardare Nanako negli occhi, risoluta.
«Voglio tenerlo, Nanako-san».
Fu la sua decisione definitiva. Sarebbe stata l’ultima.
Nanako si lasciò andare ad un respiro profondo, come se avesse trattenuto il fiato per tutto il tempo che se n’era stata buona e paziente ad ascoltare.
Si lasciò andare con la schiena sul bordo della sedia, lasciando andare la mano di Maria che aveva stretto fino a quel momento, Kiyoko invece non smise di farlo.
«Va bene, Maria-chan» le disse, sorrideva rincuorata «Allora devo dirti delle cose, dobbiamo parlare di quello che è successo, di quello che devi e non devi fare. La prossima volta magari potresti portare anche Fujio-san, quando gli avrai comunicato di aver cambiato idea …» Nanako continuò a parlare, Maria la ascoltò solo distrattamente.
Suo padre.
Avrebbe dovuto parlare davvero con suo padre.
Si sarebbe arrabbiato per il timbro di famiglia rubato, per i soldi presi in prestito senza permesso … Maria non voleva nemmeno immaginare quanto si sarebbe arrabbiato.
Ma stranamente, mentre Nanako parlava, sentiva di non aver tanta paura.
Improvvisamente, sentiva di aver acquisito una forza tutta nuova.
Voleva proteggere quel bambino, il suo bambino e sarebbe diventata ancora più forte se fosse stato necessario.
Sarebbe diventata forte per lui, per vedere il suo viso alla fine di tutta quella storia.
La reazione di Fujio non fu inaspettata.
Maria era tornata a casa di sera, aveva passato la giornata con Shimizu, erano andate in farmacia e avevano preso le vitamine che le aveva prescritto Nanako, avevano passeggiato, ma senza che lei si stancasse eccessivamente.
Era tornata a casa e, inaspettatamente, aveva trovato sia la nonna che suo padre.
Se ne stavano entrambi in silenzio, lei cucinava qualcosa, suo padre guardava la televisione, ma il volume era decisamente troppo basso perché vi stesse prestando davvero attenzione.
Erano stanchi, e Maria sapeva che non sarebbe stato giusto dirlo in quel momento.
Non quando il nonno era in ospedale, non quando la sua mancanza tra quelle pareti si faceva sentire prepotentemente, come se dovessero cominciare ad abituarsi alla sua assenza, anche se non se n’era ancora davvero andato da nessuna parte.
Tuttavia lo fece lo stesso, lo fece perché sapeva che non avrebbe avuto nuovamente quel coraggio, che non ci sarebbe stato tempo se avesse rimandato ancora.
Si era messa seduta di fronte a suo padre, li aveva salutati entrambi e nonna Mariko l’aveva baciata sulla fronte; Fujio non l’aveva guardata, non era una novità per lei che fosse distratto.
Maria aveva tirato fuori dalla borsa l’ecografia che le aveva dato Nanako, senza dire nulla.
Aveva spinto la cartellina verso il padre che, solamente allora, quando la carta ruvida
l’aveva toccato sull’avambraccio, aveva abbassato lo sguardo distratto sulla figlia.
Maria non aveva detto una parola nemmeno in quell’occasione, nonna Mariko dava le spalle ad entrambi, era provata e sentiva la mancanza di suo marito.
Fujio non le domandò che cosa fosse, era raro che Maria gli facesse vedere qualcosa ad ogni modo, nemmeno quando era bambina e prendeva ottimi voti ad un compito aveva avuto l’abitudine di correre da lui per mostrargli il suo lavoro e Fujio, da parte sua, non ci aveva mai fatto caso.
L'ecografia nella cartellina non lasciava dubbi su che cosa significassero quelle immagini.
Maria poteva vedere il fagiolino anche se se ne stava capovolto in quel modo sul tavolo.
Fujio non cambiò espressione, sollevò solamente il viso per guardare sua figlia, confuso.
«Aspetto un bambino, papà» aveva detto Maria a quel punto «Sono incinta».
Era stato come spezzare un incantesimo.
Mariko aveva fatto cadere il mestolo a terra, mentre si voltava a guardare la nipote.
Il rumore metallico era rimbalzato sulle pareti come lo scoppio di una bomba.
Fujio trasalì, aveva l’espressione mutata, improvvisamente trasfigurata.
Gli sembrava di vedere sua figlia davvero per la prima volta, era lì, davanti a lui, la stessa bambina che aveva cresciuto distrattamente e con fatica.
No, non era corretto, la vedeva, ma sua figlia non era affatto una bambina.
Sua figlia era una donna, una donna cresciuta sotto il suo naso e lui non si era nemmeno preso la briga di rendersene conto, non si era mai interessato più del necessario alla sua vita e …
E adesso sua figlia gli diceva di aspettare un bambino.
Fu come ricevere una violenza per Fujio, fu come se gli avessero improvvisamente tirato via il terreno da sotto i piedi. Le certezze di cui era sempre stato sicuro.
Non aveva idea che Maria avesse un fidanzato, era la prima cosa che gli fosse passata per la mente ma … non aveva idea se invece fosse successo dell’altro a cui lui non aveva prestato attenzione … non prestava mai attenzione quando si trattava di sua figlia.
Era sempre distratto, bloccato nel suo passato con Simona, fermo a quel punto.
E adesso quella bambina era cresciuta e lo guardava senza battere ciglio e gli diceva di essere diventata una donna e che un’altra vita stava crescendo dentro di lei …
Fujio sentì di impazzire, sbatté con violenza i pugni sul tavolo e sia Maria che Mariko trasalirono violentemente; lo sguardo della ragazza tuttavia non mutò affatto.
«Che cosa è successo, Maria?!». Aveva gridato e Fujio non gridava quasi mai.
Mariko non si era avvicinata al tavolo, in un’altra occasione forse l’avrebbe fatto.
L’ecografia sul tavolo si era leggermente spostata quando Fujio aveva dato quel pugno.
Maria non rispose.
«Non è il momento di restare in silenzio» sbraitò l’uomo, livido «Che cos’è questa roba eh? Che cosa è successo! Com’è possibile una cosa del genere, eh?!».
Fujio si tirò violentemente in piedi e la sedia su cui era seduto cadde a terra, facendo rumore.
Maria trasalì anche in quel caso, ma non si scompose, non era nulla a cui non era preparata.
Sapeva che cosa stava pensando suo padre e non poteva dargli torto.
Fujio non aveva mai saputo dell’esistenza di Asahi, Maria aveva chiesto ai nonni di non dirglielo e inoltre non aveva ritenuto che fosse necessario, almeno non in quel momento.
Fujio era un uomo distratto, ma probabilmente, se avesse saputo che la figlia aveva una relazione, non avrebbe accolto la notizia con serenità.
Sarebbe stato diverso se fosse stato ad un’altra età, se suo padre avesse avuto l’opportunità di incontrare Asahi con tranquillità.
Ma le cose erano andate completamente a catafascio ormai.
E quella era una realtà che non poteva più realizzarsi in nessun modo possibile.
«Non urlare» Furono le prime parole che Maria pronunciò, non furono una buona idea.
Fujio la guardò come se volesse intimarla a non scherzare, a non pensarci nemmeno.
E Maria seppe di non poter tirare ulteriormente la corda.
«Non sono stata aggredita, se è quello che stai pensando».
Lei non stava affatto gridando e non sembrava nemmeno tesa; alle spalle di Fujio, Mariko si mosse impercettibilmente, portandosi una mano sulla bocca, doveva essersi resa conto del reale significato delle parole di Maria, in quella stanza lei era l’unica a poterle comprendere.
Fujio fece un’espressione anche peggiore di quella che aveva avuto fino a quel momento.
Si fissarono a lungo, l’uomo aveva l’impressione di non conoscere affatto sua figlia.
Fece un respiro profondo, appoggiò prima le mani sui fianchi, come se stesse buttando fuori tutto il fiato che aveva in corpo e con esso la rabbia, la sorpresa, la delusione; successivamente raccolse la sedia che aveva fatto cadere e si rimise seduto di fronte a sua figlia.
Aveva avuto una reazione esagerata, mentre la sua creatura era rimasta composta e silenziosa.
Fujio aveva cominciato ad immaginare che dovesse essere spaventata anche se non lo dava a vedere, aveva cominciato a ricordarsi che quella stessa paura l’aveva provata anche lui, aveva cominciato a pensare che dovesse essersi arrabbiato principalmente per quella ragione.
Perché sua figlia aveva solamente diciotto anni e stava commettendo il suo stesso errore.
Perché aveva rivisto sé stesso, perché aveva immediatamente pensato fosse colpa sua.
Non le era stato abbastanza vicino; se avesse insistito, se si fosse fatto coinvolgere maggiormente dalla vita di Maria, se non avesse accampato mille scuse, se fosse stato meno distratto come qualsiasi altro genitore, non sarebbe mai capitata una cosa simile.
Senza contare che Maria non aveva una madre a cui potersi rivolgere per quelle cose.
«Va bene» commentò, ritrovando un tono di voce calmo «Va bene, Maria. Andrà tutto bene, stai tranquilla» le prese con difficoltà una mano, ma non la guardava negli occhi.
Se l’avesse fatto si sarebbe reso conto che Maria non sarebbe mai venuta a compromessi con quello che stava per chiederle, perché Fujio non poteva sapere che ci era già passata.
«Parleremo con … con Nanako-san. É una ginecologa mi pare, vero? … Sì, parleremo con lei e prenderemo un appuntamento. Io – io ti accompagnerò e -».
«Voglio tenerlo».
Fujio si interruppe immediatamente, fissando il vuoto di fronte a sé.
La calma che aveva cercato in sé stesso per tranquillizzare la figlia era nuovamente sparita, le lasciò andare immediatamente la mano, ma prese a guardarla con espressione rabbiosa, senza tuttavia alzarsi in piedi e cominciare a sbraitare come aveva fatto precedentemente.
Non sarebbe servito a nulla fare una cosa del genere con quella testarda.
Strinse i pugni delle mani Fujio, scostò l’ecografia malamente, il foglio cadde a terra.
A Maria sembrò che suo padre avesse gettato via suo figlio con quel gesto.
«Non importa che cosa tu voglia, Maria. Non puoi tenerlo».
Il tono di voce era basso, ma categorico come non lo era mai stato con lei.
Fujio stava cominciando ad odiare la parte del padre cattivo.
«Sono stata da Nanako-san per fare quell’ecografia» si limitò a dire lei, poi si sporse oltre la sedia e raccolse il foglio che era caduto a terra, lo pulì prima di schiaffarlo con non molta gentilezza davanti al padre «Sono all’undicesima settimana» raccontò con un tono di voce duro, nonostante le lacrime stessero cominciando a renderle lucidi gli occhi «Ho rischiato uno stacco di placenta e Nanako-san mi ha detto che devo riposare, perché potrei esserne soggetta con l’avanzare della gravidanza».
Maria tacque, fissando in cagnesco un punto impreciso della superficie del tavolo.
Mariko si era avvicinata lentamente al tavolo, forse stava mettendo da parte lo shock.
«Ho parlato con Nanako-san, papà, ma non sono riuscita a farlo. Non voglio».
Fujio l’aveva ascoltata, ma la sua espressione non era mutata nemmeno di una virgola.
Sembrava che nessuna delle parole pronunciate da sua figlia avessero avuto effetto.
«Tu non hai voce in capitolo in questa storia, forse non ti è chiaro Maria!».
Mariko appoggiò una mano esitante sulla spalla del figlio, ma Fujio non le prestò la minima attenzione, come se non l’avesse affatto sentita. Stava vivendo il suo incubo personale.
Era tornato indietro nel tempo e non riusciva ad uscirne fuori in alcun modo.
Fujio se la stava cavando piuttosto bene per essere un padre che non si era mai imposto in alcun modo sulle decisioni di sua figlia; farlo in quell’occasione non gli faceva piacere però.
«È il mio corpo! Il mio bambino!» replicò Maria, gli occhi sempre più lucidi.
Mariko la guardava preoccupata, le sopracciglia aggrottate, eppure non diceva una parola.
Era ovvio che voleva la risolvessero tra di loro, non poteva aiutarla, era chiaro.
«Vuoi diventare madre a quest’età?!» Fujio era irremovibile.
«E poi che fine ha fatto il disgraziato che ti ha messo in queste condizioni?! Perché non si sta prendendo le sue responsabilità? Voglio nome e cognome, Maria, e ti assicuro che non ti alzerai da questo tavolo se non avrò entrambe le cose!».
Avevano uno sguardo simile padre e figlia mentre combattevano quella battaglia.
Non ne sarebbe uscito nessun vincitore.
«Tu devi studiare, non devi fare altro! E soprattutto non devi mettere al mondo un figlio adesso! Hai appena diciotto anni maledizione!».
Fujio si morse violentemente il labbro inferiore, stringendo i pugni delle mani.
Anche se Maria gli aveva gettato l’ecografia sotto il naso con violenza, l’uomo non aveva dato uno sguardo a suo nipote nemmeno per un solo secondo; non riusciva a vedere nient’altro che sé stesso nella figlia, una storia che si ripeteva inesorabilmente, annientandolo.
Lei, Maria, che cosa desiderasse, che cosa volesse davvero, non lo vedeva affatto.
«Tu che cosa hai fatto quando sono nata io, eh?!».
Maria non avrebbe voluto tirar fuori quella storia, ma se n’era sentita costretta quasi.
Le lacrime le bagnavano ormai il viso, ma erano fieri i suoi occhi, fiera la sua espressione.
«Non paragonare la cosa, non ne sai nulla! Io avevo ventiquattro anni, stavo cominciando a lavorare e avevo anche una famiglia alle spalle!».
Fujio si rese conto, probabilmente troppo tardi, delle parole che aveva utilizzato.
Stava deliberatamente dicendo a sua figlia che non lo avrebbe avuto dalla sua parte.
«Fujio …» mormorò Mariko stringendogli una spalla con forza.
L’uomo non ritrattò quelle parole.
«Vuoi dire che io non ho la mia famiglia a sostenermi?».
Mariko fece immediatamente per aprire la bocca, ma Fujio, che conosceva la madre, fece in modo di parlare ben prima che potesse dire qualsiasi cosa.
«Se vuoi rovinarti la vita io non sarò tuo complice. Pensavo che l’esempio mio e di tua madre fosse stato una lezione sufficiente perché tu imparassi … ma mi sbagliavo, vero?».
Maria sentì qualcosa spezzarsi da qualche parte dentro di lei.
Si portò una mano sul ventre e prese ad accarezzarselo delicatamente.
Almeno ho te. Almeno ho ancora te.
«Allora avresti dovuto lasciare che Simona mi abortisse. Quanto a me, questo bambino non mi rovinerà la vita, lo farà ancora di meno se dimostrerà di avere anche solo metà del cuore di suo padre … quello che sicuramente non hai tu!».
Lo schiaffo arrivò inaspettato, violento e Maria sentì immediatamente bruciare il viso.
Mariko strillò il nome del figlio indignata.
E di fatto, Fujio non aveva mai tirato un ceffone a sua figlia, mai, era la primissima volta.
Sentiva la mano bruciargli, il cuore improvvisamente pesante.
Quelle parole se le era meritate, ne era consapevole, ma Maria non poteva sapere come si sentisse in quel momento, i ricordi che quella confessione aveva riportato alla memoria, il modo in cui aveva scoperto che l’avrebbe avuta …
Scosse la testa, non era il momento di pensarci, altrimenti avrebbe ceduto.
«Terrò questo bambino» la replica di Maria, a voce tremante, fu definitiva.
Fujio strinse i pugni, si morse il labbro inferiore.
«Allora non contare su di me».
Maria si alzò in piedi lasciando velocemente la cucina, Mariko la seguì.
Fujio rimase da solo nel silenzio che era seguito, sembrava quasi del tutto innaturale.
Lo sguardo gli cadde distrattamente sull’ecografia che aveva ignorato fino a quel momento.
Provò un profondissimo senso di angoscia nel pensare che quella creatura stesse crescendo dentro sua figlia; Maria era giovane, agiva spinta da un amore giovanile che sarebbe passato.
Fujio riusciva quasi a vederla, a pentirsene di lì a qualche anno.
Prese a tormentarsi le mani, non aveva nemmeno idea di chi fosse il padre di quella creatura.
Chiuse gli occhi stancamente e appoggiò la fronte sulle mani.
Non aveva mai pensato che sarebbe arrivato un momento del genere nella sua vita.
Akio non era più in grado di camminare, né di alzarsi dal letto di ospedale.
La situazione era precipitata quella notte stessa.
Maria aveva pianto disperatamente nella sua stanza tra le braccia di nonna Mariko, ferita da suo padre, dal suo stesso sangue, spaventata come non lo era mai stata prima di allora.
Si era coricata con la testa sul ventre caldo della nonna e aveva parlato, aveva parlato per ore.
Le aveva raccontato di come aveva scoperto della gravidanza, della decisione di non tenere quel bambino, di non dire nulla ad Asahi, la partenza per il Brasile, le visite da Nanako ….
Lo fece senza riuscire a frenarsi e, alla fine di tutto, nonostante non avesse risolto nulla, nonostante le angosce e le parole di suo padre fossero ancora lì, incastrate tra il cuore e la mente, Maria sentì un enorme peso in meno sulle spalle.
Nonna Mariko non aveva parlato subito, aveva aspettato che si tranquillizzasse, che il suo cuore la smettesse di battere in quel modo frenetico, accarezzandole dolcemente i capelli.
E quando le lacrime erano rimaste incastrate tra le ciglia come perle, senza scorrere oltre, si era chinata e le aveva dato un bacio sulla fronte.
Le aveva detto che andava bene, che qualsiasi decisione avesse preso ci sarebbe stata lei.
Non si era arrabbiata, non l’aveva rimproverata, non le aveva nemmeno fatto uno di quei discorsi sullo stare attenti, sul fatto che non fosse sposata … Mariko aveva messo da parte tutte quelle parole e l’aveva fatto per amore di quella nipote che era come una figlia.
La chiamata dell’ospedale era arrivata l’istante successivo a quel bacio.
Mariko e Maria avevano deciso di andare insieme in ospedale per passare la notte con Akio.
L’avevano trovato sveglio, litigava con una povera infermiera, lamentandosi dell’ago cannula che non trovava appiglio nella vena troppo fragile di quella mano callosa, livida.
Aveva la solita voce roca e burbera Akio, ma non riusciva più a stare in piedi sulle sue gambe.
L’infermiera li aveva lasciati presto, esasperata dalla forza di quel vecchio testardo.
Maria era stata la prima ad accostarsi al letto, aveva rimboccato le coperte al nonno, si era messa a parlare con lui mentre, per nascondere le lacrime che l’avevano colta di sorpresa, nonna Mariko dava le spalle ad entrambi fingendo di sistemare cambi e tovaglie e vestiti.
Akio era stato al gioco, lasciandosi amorevolmente accudire da quella nipote ribelle.
Aveva passato cinquant’anni della sua vita con Mariko e non voleva avere la presunzione di dirle che versare quelle lacrime non sarebbe servito a nulla, la verità era che non sapevano più come si facesse a vivere l’uno senza l’altro, e Akio doveva ammetterlo, non avrebbe voluto lasciarla sola così presto. Solo che non era uno sciocco.
Maria si era messa seduta sulla poltrona accanto al suo letto, rannicchiata.
Aveva gli occhi gonfi, Akio l’aveva notato immediatamente, erano chiari dopotutto.
I lunghi capelli neri erano raccolti in una treccia senza codino, scomposta; doveva essere stata opera di Mariko, che aveva l’abitudine di acconciare i capelli della nipote in quel modo ogni qualvolta avesse un problema. Gli sembrava di vederle, Maria stesa sulle gambe magre di Mariko e quest’ultima che le acconciava distrattamente i capelli.
Sorrideva quella nipote ribelle che aveva cresciuto come una figlia, sorrideva come se non avesse pianto, come se non fosse successo nulla, come se andasse tutto bene.
Akio avrebbe voluto avere la forza di sollevare quella stessa mano dolorante e darle un pugno in testa, leggero certo, lo stesso che le dava anche quando era bambina per rimproverarla.
Avrebbe voluto chiederle se avesse pianto solamente per la chiamata ricevuta dall’ospedale, perché era chiaro che da quella battaglia ne sarebbe uscito sconfitto, o perché fosse successo dell’altro … ma aveva come la sensazione di non dover chiedere, non quella sera.
Maria distese finalmente le gambe e avvicinò la poltrona al letto, gli prese una mano.
«Nonno, la settimana prossima ho gli esami d’accesso all’Università di musica, sai?».
La voce di Maria era roca, ma gli aveva dato quella notizia come se stesse parlando con lui seduta attorno al tavolo della cucina, di ritorno da una giornata a scuola, come era abitudine.
Akio gliene fu immensamente grato.
«Sei diventata una donna eh?» domandò burbero.
Alle loro spalle Mariko tirava leggermente su con il naso, ancora fintamente affaccendata, entrambi fecero finta di non averla sentita, lasciandole il suo tempo.
Maria fece spallucce, continuando a stringere la mano del nonno tra le sue.
«Sei tu che ti sei distratto lungo la strada» gli rispose lei, facendogli una linguaccia.
Akio si produsse in una risata molto simile ad una tosse roca, che lo scosse tutto.
Era steso in quel letto, privo di forze, ma la malattia non aveva debilitato il suo fisico robusto.
Anni e anni di lavoro a spaccarsi la schiena erano diventati la sua corazza, la sua dignità contro quel mostro che l’aveva aggredito all’improvviso, provandolo dolorosamente.
Akio aveva ancora dignità nel suo corpo.
«Che insolente questa mocciosa!» replicò negli ultimi eccessi di tosse.
La guardava e ricordava il giorno in cui Fujio, vergognoso, gli aveva comunicato della sua esistenza. La guardava e rivedeva la neonata che aveva preso tra le braccia per primo, fuori dalla sala parto, il pianto vigoroso di quei polmoni minuscoli, era stata da subito sé stessa.
La guardava e ripensava alla bambina con il vestitino rosa che si sbucciava le ginocchia.
La guardava e vedeva invece la donna che stava diventando e che non avrebbe mai visto sbocciare del tutto.
Akio sentiva di avere tantissimi rimpianti in quel momento, forse avrebbe voluto piangere.
«E che mi dici di quel tuo delinquente? Sta diventando una promessa della yakuza?».
Gli occhi chiari di sua nipote si rattristarono immediatamente a quelle domande, due specchi d’acqua cristallina lucida e smossa da un sassolino tirato senza cattiveria sulla superficie.
Ma nonostante quella tristezza Maria sorrise, anzi, rise, una risata leggera.
«Non è un delinquente, nonno!» lo rimproverò bonariamente.
Akio decise di stare ancora un po’ al gioco, voleva che fosse Maria a parlare di quella tristezza.
«Lo è! Non è venuto a trovarmi nemmeno una volta!» Sbottò, per nulla indulgente.
Maria continuò a sorridere e a tenergli stretta la mano, era fragile tra la sua stretta leggera.
Tentò di non pensare a come fosse diventata piccola quella mano che l’aveva sempre protetta.
«Sono sicura che avrebbe voluto farlo. Ma immagino di non avergliene dato la possibilità».
Vi era amarezza nella voce di Maria, eppure continuava a sorridergli.
Akio continuò ad osservarla con quel cipiglio burbero e scontroso, il respiro in affanno.
La vide mentre si portava una mano sul ventre con distrazione, senza tuttavia lasciarlo.
«Dov’è Asahi?» le domandò, non con cattiveria, con moderazione, quasi con dolcezza.
Gli occhi di Maria si riempirono nuovamente di lacrime, ma non una sola ne scese.
«É in Brasile» confessò «Ha vinto una borsa di studio».
Akio continuò ad osservarla con quel cipiglio burbero e scontroso, ma la stretta della sua mano si fece leggermente più forte, in un guizzo di qualche secondo.
Maria aveva ancora gli occhi lucidi, ma non aveva versato nemmeno una singola lacrima.
Era chiaro ad Akio che non l’avrebbe fatto, non quella sera, non con lui.
«Una borsa di studio? Chi l’avrebbe detto che fosse uno yakuza secchione».
Maria rise al commento scontroso dell’uomo, nonno Akio rimase comunque con quel cipiglio tra le sopracciglia, ma un sorriso rude gli sollevò sgraziatamente gli angoli delle labbra.
Aveva compreso la tristezza di Maria, in parte l’aveva compresa.
«Sei stata molto coraggiosa, nipote mia» le disse, dandole un buffetto affettuoso sulla mano.
Maria fece fatica a trattenere ancora le lacrime a quelle parole, ma ne aveva versate talmente tante quella stessa sera che doveva averne avuto abbastanza per quel giorno.
Non aveva detto al nonno nemmeno una parola, eppure lui doveva aver capito qualcosa.
Forse, aveva capito che era stata lei a lasciarlo andare, che l’aveva fatto per il suo bene.
Maria si passò ancora una volta distrattamente una mano sul ventre, massaggiandoselo.
Era magra, cominciava a sentire qualcosa sotto mano, ma ancora non si vedeva nulla.
Akio la osservò attentamente, con quegli occhi che avevano visto sempre un po’ più di tutti gli altri in quell’anima inquieta e ribelle, contraddittoria ed impulsiva.
«Mi sembra di aver vissuto una scena molto simile, diciotto anni fa».
Commentò il vecchio con un tono di voce casuale, strappando la nipote ai suoi pensieri.
Maria lo guardò, continuando distrattamente ad accarezzarsi il ventre. Mariko, che aveva dimenticato di asciugare le lacrime, volse lentamente la testa, fissando il marito.
Si guardarono per un istante Akio e Mariko, capendosi senza bisogno di parlare.
Maria impiegò solamente qualche secondo per comprendere a cosa si riferisse il nonno.
Doveva essere successo qualcosa di simile diciotto anni fa con Simona e Fujio …
Mariko nel frattempo si avvicinò alla poltrona dov’era seduta la nipote, le mise una mano sulla testa, accarezzandola delicatamente, seguendo la linea della sua treccia sciolta.
Maria non smise di accarezzarsi il ventre, il suo bambino doveva essersi spaventato moltissimo quel giorno, per tutte le emozioni attraverso cui era passato; lo accarezzava per farlo sentire al sicuro, per cullarlo, per farlo addormentare sereno e fargli sentire che non aveva nulla di cui aver paura, non più oramai.
«Nonno» richiamò allora l’uomo, Akio la stava già osservando con quegli occhi scuri.
Maria gliel’avrebbe detto non perché lui non l’avesse compreso da sé, ma perché al nonno aveva detto sempre tutto e lui stava aspettando «Sono incinta».
E non fu come era stato con Fujio, non provò minimamente la stessa angoscia.
Akio sollevò gli occhi sul soffitto e sospirò pesantemente, come se stesse ingoiando un rospo.
«Che peccato» commentò poi «Non credo di riuscire a vederlo … o vederla».
Mariko si portò una mano sulla bocca, soffocando altre lacrime e altri singhiozzi.
Maria si morse il labbro inferiore, cercando di sorridere.
Akio la osservò e le fece cenno di avvicinarsi al letto, Maria si alzò e con un colpetto il nonno le fece cenno di mettersi seduta lì; Maria lo accontentò, aspettando che la mano esile e callosa del nonno si appoggiasse sul suo ventre piatto con fare burbero.
Akio sembrava aver ingoiato qualsiasi disapprovazione per tutta quella storia, come sua nonna. Forse perché ci erano già passati una volta, forse perché si erano già arrabbiati allora, forse perché non c’era molto tempo, forse perché aveva compreso che lei lo voleva.
Se non fosse stato malato e in quel letto, probabilmente Akio ci avrebbe messo molto più tempo ad accettare che la sua unica nipote stava diventando una donna per davvero.
Ad accettare tutte le cose che quella notizia comportava, ma Akio in quel letto ci stava ormai da giorni e non si sarebbe alzato, lo sapeva bene. Non aveva altro tempo a disposizione.
E non era l’unico a saperlo in quella stanza.
«Fai il bravo bambino!» commentò rudemente, continuando ad accarezzarle goffamente la pancia «Non far esasperare tua madre e non assomigliare troppo a tuo padre!».
Maria lo lasciò parlare, osservandolo sorpresa, con ancora le lacrime incastrate come perle traslucide nelle ciglia scure, non aveva detto al nonno che era figlio di Asahi, non gli aveva detto che era stata lei a mandarlo in Brasile senza dirgli nemmeno che quel bambino esisteva, non aveva detto nemmeno una parola, eppure suo nonno aveva compreso lo stesso.
«E vedi di non assomigliare nemmeno a tuo nonno, per carità!» continuò, parlando con quel bambino non ancora venuto alla luce.
Maria e Mariko sorrisero, la seconda tra i singhiozzi.
Akio smise di accarezzarla e fece cenno a Maria di avvicinarsi a lui, come se volesse sussurrarle qualcosa nell’orecchio, un segreto tra di loro, lei lo accontentò immediatamente.
«È un dono Maria, una luce nella tua vita. Ci parlo io con tuo padre, tranquilla» le sussurrò, poi le fece l’occhiolino, battendola affettuosamente sulla gamba.
Maria fece davvero fatica in fine a trattenere quelle lacrime e non ce la fece, anche se non ne aveva più a disposizione da cacciare, appoggiò la testa sul petto del nonno e lasciò che lui le accarezzasse la testa, ingoiando tutto quello che doveva ingoiare.
Akio e Mariko si guardarono, uno sguardo silenzioso ma ricco di parole.
Non la lascerò mai sola, mi prenderò io cura di lei.
Era quello che gli stava dicendo lei, fiera e bella ai suoi occhi come quando aveva quindici anni e lui faceva i chilometri su quella bicicletta malandata al tramonto, stanco da ore infinite di lavoro al cantiere, solamente per osservarla mentre rammendava qualcosa fuori al giardino.
Veglierò su di lei in qualche modo.
Era invece quello che le stava dicendo lui, con lo stesso sguardo fiero di quando aveva diciotto anni e lei allungava appositamente la strada quando andava a fare qualche compera per passare davanti al cantiere dove lavorava, lasciandogli qualche pagnotta di pane.
Avevano avuto una bella vita insieme, dovevano ammetterlo entrambi.
Le difficoltà erano state tante, il matrimonio senza soldi, i vari licenziamenti, la casa piccola e malandata, la gravidanza quando non c’era nulla da mangiare, il parto difficile e l’esportazione di entrambe le tube, la consapevolezza che non avrebbero avuto altri figli, e la gioia di quell’unico bambino nonostante non potessero dargli tutto quello che volevano …
Si, era stata una vita felice.
Erano sembrati solo cinque minuti, ma che cosa erano stati quei cinque minuti!
Maria e quel bambino che portava nel grembo erano la conseguenza di tutto quell’amore, e di tutti quei sacrifici e di tutte le cose incomprensibili e comprensibili che erano successe.
Akio continuò ad accarezzare Maria fin quando non si addormentò, lì accanto a lui, come quando era bambina e si metteva sulle sue gambe a giocare mentre lui leggeva il giornale, fingendo di non starla a sentire o fingendosi infastidito da quel suo comportamento.
Ma, di fatto, non l’aveva mai né rimproverata e né spostata malamente.
Mariko rimase sveglia al suo fianco, si guardarono per lunghe ore durante la notte, parlarono ogni tanto a voce bassa, erano preoccupati, Maria l’aveva fatta grossa, se lo dissero, non riuscirono a farne a meno almeno una volta, erano di altri tempi, erano nati negli anni quaranta con la guerra.
Ma se lo dissero tra di loro e poi lasciarono perdere, i tempi erano cambiati.
Maria dormì senza sognare quelle poche ore che passò accanto al nonno.
Dormì senza preoccupazione alcuna, forse per la prima volta, come non aveva creduto avrebbe potuto fare adesso che Asahi era lontano da lei ore e chilometri.
Si sentiva protetta da quella mano debole sulla testa, le parole di Fujio la lasciarono in pace per qualche tempo, poteva fingere di essere serena se il nonno e la nonna erano lì con lei a supportarla e sopportarla, come quando era solamente una bambina.
É una luce nella tua vita.
Erano le ultime parole pronunciate dal nonno che avrebbe ricordato.
Fujio aveva passato una notte in bianco a rigirarsi tra le lenzuola del futon.
Non si era accorto della telefonata, né che Maria e Mariko avessero lasciato casa.
Era stato solamente all’alba, quando aveva deciso fosse inutile ormai starsene ancora steso, che aveva registrato il silenzio che regnava sovrano nell’appartamento.
Non l’avrebbe trovato strano se in casa ci fosse stata solamente Maria, ancora addormentata.
Ma a quell’ora sua madre era già in piedi a preparare la colazione o a rassettare la casa.
Aveva controllato allora la camera di Maria, titubante, ma l’aveva trovata vuota e l’essersi armato di coraggio per affrontare ancora una volta il volto di sua figlia non era servito a nulla.
Chiamare Mariko era stato il passo successivo, era così che aveva saputo del peggioramento di suo padre. Si era preso un permesso da lavoro per quel giorno ed era corso in ospedale.
Aveva trovato Akio addormentato, Maria non c’era invece, aveva lasciato l’edificio solamente qualche minuto prima per raggiungere Kiyoko da qualche parte, così si era risparmiato ancora una volta un incontro che ancora non era pronto ad affrontare.
Ci aveva messo tempo per convincere sua madre a tornare a casa a riposarsi.
Alla fine ci era riuscito e si era ritrovato da solo in quella stanza d’ospedale che stava cominciando ad odiare; si era messo seduto sulla poltrona ad osservare insistentemente il petto di suo padre che si alzava ed abbassava ad una lentezza estenuante, il bip rumoroso delle macchine a cui era collegato gli aveva dato sui nervi molto presto, non aveva resistito.
Si era alzato da quella poltrona con uno scatto nervoso e aveva trovato pace solamente guardando fuori da quella finestra, sul parco interno dell’ospedale, dove numerosi pazienti e malati prendevano l’aria o passeggiavano attaccati al braccio di qualche infermiera o familiare. Lo sguardo gli cadde su una donna incinta, seduta su una panchina.
Distolse immediatamente gli occhi, scostando nervosamente la tenda.
Era come se la sua mente si rifiutasse ostinatamente di affrontare quel problema, la realtà, come se si fosse ostinatamente chiuso dietro una cortina fatta di passato e di dolore.
Fujio non riusciva a pensare alla sua bambina incinta, e non sapeva nemmeno di chi.
Era uno scherzo di pessimo gusto che la vita gli stava rifilando, o forse una punizione.
Solamente sollevando lo sguardo si accorse di essere stato osservato, per quanto tempo non lo sapeva. Akio, ormai sveglio, lo stava infatti osservando da quel letto, severo come sempre.
«Ma guarda qui chi c’è!» gracidò tossicchiando «Non devi vivere in ufficio tu?».
Fujio sospirò pesantemente e alzò gli occhi al cielo.
Suo padre l’aveva sempre rimproverato per quella sua ostinata, come la chiamava il vecchio, dedizione al suo lavoro, era stato un terreno di scontro innumerevoli volte.
Fujio non era mai riuscito a spiegare a suo padre, o forse non ci aveva mai provato, che il lavoro era un posto dove poter fuggire, dove poter mettere da parte le preoccupazioni e far finta di non avere a casa una bambina da crescere, di non avere una vita sentimentale incasinata …
Akio invece l’aveva sempre rimproverato per quelle sue fughe al lavoro.
«Guarda che io sto bene! Non ho ancora intenzione di morire!» continuò burbero il vecchio e Fujio sospirò pesantemente, allontanandosi dalla finestra.
Non aveva intenzione di rispondere e darla vinta a suo padre, inoltre, era stanco.
Tornò sulla poltrona e vi si mise seduto nuovamente, aveva ancora le braccia incrociate al petto e il rumore delle macchine nelle orecchie e le grida sue e di Maria della sera precedente.
Akio notò solamente in quel momento le occhiaie e i segni della mancanza di sonno sul viso cesellato ed elegante del figlio; era un bell’uomo Fujio, ma era sempre stato un carattere difficile, chiuso, si difendeva davanti ai sentimenti come se fossero testate nucleari.
Akio si era spesso domandato in quei lunghi quarantadue anni se fosse stata colpa sua …
«Perché non riposi invece di fare il vecchio bisbetico per una volta?» commentò con voce atona e spossata Fujio, senza metterci nemmeno un briciolo della solita arroganza o testardaggine con cui affrontava il padre in altre occasioni.
Aveva le spalle basse Fujio, come se portassero un peso, e anche se non voleva che Akio se ne accorgesse, e non voleva che litigassero, non riusciva proprio a sollevarle.
«Sei preoccupato per Maria?» arrivò infine la domanda di Akio.
Fujio guardò il padre con quei due occhi scuri neri d’ossidiana e si rese conto che quella notte Maria doveva avergli raccontato tutto, o se non proprio tutto qualcosa.
Akio era venuto sicuramente a conoscenza della gravidanza della nipote e probabilmente anche della sua reazione, di come era uscito fuori dai gangheri, o forse l’aveva immaginato …
Sospirò.
«Quando … quando diciotto anni fa ti ho rivelato di Maria, tu come ti sei sentito?».
Fujio provò una certa fatica a formulare quella frase, ma lo fece guardandolo negli occhi.
«Ho sempre voluto chiedertelo, sai?» concluse, incrociando le mani tra di loro.
Akio tossì rumorosamente prima di rispondere, aveva male dappertutto ormai.
Ma voleva proprio rispondere a quel figlio a cui sentiva di avere ancora tantissime cose da insegnare, Fujio sarebbe stato un altro dei suoi rimpianti, forse non era stato un buon padre.
Dopotutto, lui non ne aveva mai nemmeno avuto uno.
Era anche uno dei motivi per cui Fujio era arrivato solamente qualche anno dopo il matrimonio, e non subito come Mariko avrebbe desiderato.
«Ero arrabbiato Fujio» gli confidò i suoi veri sentimenti, quelli che non aveva mostrato in quel momento decisivo, quando suo figlio e Simona si erano inginocchiati davanti a lui per confessare che aspettavano Maria. Akio non aveva gridato quella volta, inaspettatamente.
«Non volevo che tu diventassi padre a quell’età. Avevi ventiquattro anni e stavi appena cominciando a lavorare».
Era strano sentirsi dire quelle cose con diciotto anni di ritardo.
Anche se Fujio le aveva comunque immaginate tutte.
«Non eri nemmeno sposato e lei era straniera. Capivo che non ci teneva a te. Vedevo solamente il tuo radioso futuro rovinato per sempre ed ero furioso, incazzato nero!».
Akio alzò leggermente la voce, come se fosse tornato indietro nel tempo e avesse deciso di dare sfogo alle corde vocali come non aveva fatto in quell’occasione, ma poi tossì e il petto gli fece dannatamente male e Fujio si sporse verso di lui preoccupato, non lo sopportò.
Decise allora di calmarsi e abbassare i toni di voce.
«Ma dovevo davvero dirti queste cose? E poi, Maria è stata una gioia immensa per me» confessò e Fujio, che si era sporto verso di lui afferrandogli una mano, sussultò.
Fissò suo padre negli occhi, non era uomo da confessioni appassionate, né da carezze, anche se doveva averne ricevute quando era bambino, perché amava immensamente quell’uomo.
«Maria è valsa tutta la rabbia che ho provato. Mi hai fatto un regalo importante, Fujio».
Akio sollevò la mano libera e la appoggiò su quella del figlio, era difficile per un uomo come lui dire quelle cose, ma di fronte allo scadere del tempo diventava necessario pronunciare tutte quelle parole e fare quelle confessioni che non si era mai pensato di dover fare.
«Sai che tua madre ha avuto un problema in seguito alla tua nascita. Le hanno tolto le tube, poi è toccato all’utero. Non potevamo avere altri figli e Maria è stata una seconda possibilità per noi. E avevamo comunque te, che eri tutto per noi. Il nostro tesoro più grande».
Fujio sentiva il cuore battere all’impazzata nel petto, un pizzicore fastidioso agli occhi.
Erano anni interi che non versava una lacrima, si domandava perché dovesse farlo proprio in quel momento, ad un passo dall’addio a suo padre che proprio non riusciva ad accettare.
Ma non lo fece alla fine, no. Si trattenne.
«Io me ne vado contento» affermò il vecchio, poi strinse la mano del figlio.
Lui non era riuscito a pronunciare nemmeno una sola parola.
«L’unico rammarico che ho, è che tu abbia dovuto sacrificare la tua vita per crescere questa ragazza, forse proprio perché quel giorno non ti ho detto niente».
Fujio si affrettò immediatamente a scuotere la testa.
Era arrabbiato con sua figlia, era vero, era arrabbiato con lei perché aveva preso la sua stessa strada, perché stava rinunciando alla sua vita esattamente come aveva fatto lui, era arrabbiato solamente perché avrebbe voluto qualcosa di meglio per lei, qualcosa di diverso.
Ma no, non si era mai pentito di averla avuta e di averla amata.
«Io sono fiero di averla avuta, papà» confessò allora, dicendolo ad alta voce.
Ed era sicuro che anche Maria, nonostante le parole della sera precedente, lo sapesse.
«So che dovrei essere comprensivo con lei, stare dalla sua parte e aiutarla. Dirle magari che le starò accanto … lo farò a modo mio, ma sono preoccupato» Torse la mano libera.
Si, anche se aveva detto a Maria che non avrebbe avuto il suo appoggio in quella storia, Fujio non l’avrebbe mai davvero lasciata sola ad affrontare quella situazione.
Ma non poteva fare a meno di rodersi l’anima e di sperare che fosse solamente un incubo.
«Non ha voluto nemmeno dirmi chi è il padre, come si chiama …».
Non sapevo nemmeno che avesse un fidanzato. Che fosse una donna fatta e finita.
Non ha nemmeno avuto una madre che le insegnasse come comportarsi, cosa fare.
Quelle cose non le disse al padre, era troppo per entrambi affrontare quel discorso.
Ed era solamente colpa dell’assenza di Simona, di quell’assenza volontaria.
Akio strinse ulteriormente la mano del figlio e lo invitò in quel modo a guardarlo di nuovo.
Aveva la solita espressione burbera ma, Fujio si rese conto, di chi sapeva esattamente quello che invece lui aveva totalmente ignorato. Akio sapeva chi era il padre di quel bambino.
Fujio glielo lesse in faccia, ad occhi sgranati.
«Non hai nulla da temere Fujio, conosco quel moccioso» confermò, burbero.
Fujio non seppe che reazione avere, se arrabbiarsi e gridare o fidarsi, nel dubbio, rimase zitto.
Akio tossì ancora prima di parlare, aveva l’affanno ed era diventato lento nelle parole.
«Tua figlia l’ha fatto uscire dalla sua vita, ma sono sicuro che non finirà qui» tossì di nuovo, il petto sconquassato dal dolore e dal fastidio «Te lo presenterà un giorno. E ti renderai conto di quanto sia buono e sciocco quel delinquente mancato!».
Akio proruppe in un altro eccesso di tosse misto ad una risata canina e roca.
«Quando avrai a che fare con lui lo capirai!» concluse, con un filo di voce roca.
Fujio avrebbe voluto dire davvero tante cose, ma non lo fece, non riusciva a fidarsi e non riusciva a capire che cosa quelle parole significassero, ma comunque non parlò.
Rimase in silenzio per qualche minuto, Akio respirava ormai affannosamente e Fujio continuava a tenergli saldamente la mano, ripensando al giorno in cui aveva scoperto che Simona aspettava Maria. Al modo in cui l’aveva scoperto.
Il sangue, lei seduta a terra a gambe divaricate con quell’aggeggio tra le mani …
Era stato un trauma per lui e la sera precedente lo aveva in parte rivissuto.
«Ti prometto che le starò accanto papà. Anche se sono arrabbiato. Non le mancherà nulla, te lo prometto, né a lei, né al suo bambino» mormorò in fine, venendo a patti almeno con quel compromesso, andava bene fin quando restava tra lui e suo padre, come un piccolo segreto.
Akio non ebbe la forza per rispondergli, ma l’occhiata burbera che gli rivolse fece sollevare gli angoli delle labbra di Fujio, era un po’ come se gli stesse dicendo: “Voglio ben vedere, moccioso che non sei altro!”, ma non aprì bocca, era stanco e non riusciva a tenere gli occhi aperti, lo stava facendo solamente per ostinazione ormai.
Fujio allora tacque, continuando a tenere la mano del padre tra le sue.
Lo osservò mentre chiudeva gli occhi in un sonno profondo, ma sereno, mentre la stretta di quella mano che aveva tenuto con forza quando era bambino diventava improvvisamente leggera e il respiro si acquietava in una pace mai provata prima.
Era mattina e non aveva nevicato ancora, c’era il sole in cielo quel giorno.
Dalla finestra, entrava ancora il chiacchiericcio dei bambini nel giardino.
Salve a tutti!
Si torna ad aggiornare dopo un bel po' di tempo, abbiamo rallentato tuttavia sia per impegni personali che per motivi logistici (abbiamo capitoli scritti fino al 33, il 34 è in fase di lavorazione). Siamo state però davvero contente di ricevere finalmente un feedback esterno all'ultimo capitolo, e complice anche questo week end di festa, si è deciso di postare. Ci sembra però giusto avvisarvi che la pubblicazione di questi ultimi capitoli restanti (che NON sono quelli finali) non sarà costante. Tanto il prossimo capitolo potrebbe arrivare a novembre, tanto a dicembre o i mesi che seguiranno. Poi ovviamente ci regoleremo anche in base ai feedback e alle recensioni che riceveremo, perché se notiamo che la storia è attesa, con i capitoli pronti mettiamo il turbo volentieri (per quelli ancora in cantiere invece dovrete aspettare per forza di cose).
Ma passiamo velocemente al commento del capitolo. Le scene qui sono abbastanza intense, a cominciare dall'addio dei ragazzi, alla decisione finale di Maria riguardo alla gravidanza e ai momenti in compagnia di nonno Akio. I capitoli che seguiranno saranno molto meno spensierati, ma vedrete, le nubi non resteranno per sempre ;)
Ringraziamo tutti coloro che stanno dando una chance alla storia, la stanno apprezzando e seguendo nonostante gli intoppi. Non sapete quanto dall'altra parte venga apprezzato <3
Flying_lotus95 & effe_95