Seconda parte
Mi chiamo Greta, ho quindici anni, sono fidanzata con Tobia. Mi piacciono le sue mani grandi, mi piace mettere le mie sulle sue, così che, quando piega le falangi, mi copre le unghie. L’altro giorno ho detto alla mia estetista che non voglio più lo smalto gel. Ci è rimasta male, ma non mi sento in colpa: le ho comunque fatto strappare i peli da ogni parte, compresi quelli in mezzo alle chiappe.
«Cazzo! Ma puoi? Ma puoi?».
L’estetista sapeva quanto le unghie lunghe mi piacciano, ma essere avvolta da Tobia mi piace di più. Mi farei mangiare, mi farei risucchiare da lui: dai suoi ricci biondi, dalle felpe nere e dai pantaloni larghi,
«Cristo Madonna! Che merda!».
da queste coperte grigie che sanno di borotalco.
Mi giro sul fianco e gli bacio la fronte, aggrottata sul joystick. Ci sono delle somiglianze tra il joystick e le dita di Tobia: smagliature e ammaccature, sedimenti causati dall’usura e dal nervosismo.
Domani sarà un mese che ci frequentiamo, un mese da quando ho perso la verginità. Oggi pomeriggio mamma mi accompagnerà al centro commerciale: Tobia e io non ne abbiamo parlato, ma voglio prendergli un regalo.
«Figlio di puttana!».
A tal proposito mamma mi anticipa la paghetta di due settimane, ma questo non mi spaventa: i soldi che mi dà a inizio mese per l’abbonamento ai mezzi non li uso mai. Alla fine sarò in pari con le spese.
Mi giro del tutto, abbraccio Tobia, mi arrampico sopra di lui. Tobia alza le braccia ma non distoglie lo sguardo dallo schermo. I fischi dei rigori, i commenti concitati dei telecronisti sono rumore di fondo, sovrastato dal borbottio e dalle bestemmie che Tobia tira fuori quando sbaglia. Gli bacio la guancia, aprendo leggermente il morso. Ci sono delle volte in cui sono io che voglio mangiarlo, avvolgerlo, risucchiarlo. Lo amo, lo voglio tutto mio, voglio adorarlo fino alla fine.
«Spostati un attimo amore, non vedo bene così».
Mi rotolo giù dall’altra parte del letto. Sono a poco spazio dal cadere per terra. Fisso le macchie nere e bianche delle mattonelle, cercando dei disegni nell’uno e nell’altro colore. Abbasso ancora di più la testa, il sangue mi scende al cervello. Sotto il letto di Tobia, a una piazza e mezza, ci sono dei grumi di polvere. Sotto l’altra parte, quella dove stavo prima, vedo la confezione quadrata del preservativo che abbiamo usato poco fa.
«Ti amo», sussurro, felice.
«Ti amo anche io», risponde. Lo sento chinarsi per darmi un bacio sulla nuca. Allunga la mano destra per palpeggiarmi il culo. Ha messo il gioco in pausa.
«Ti è piaciuto, prima?» chiedo. Ho molte insicurezze a riguardo. Tobia dura sempre un sacco di tempo. So che anche per me è lo stesso, che in tutte le volte che abbiamo avuto un rapporto completo non sono mai arrivata all’orgasmo. Saperlo mi fa stare ancora più male, mi fa sentire un’ipocrita.
«Certo», risponde lui, con un tono di voce acuto, estasiato. Mi sale sopra e spinge il pube contro il mio sedere. Un brivido mi attraversa, da lì fino alla cima della testa.
«Mi trovi bella?»
Vale mi ha raccontato che lei e Boccia non fanno l’amore per più di cinque minuti. Sono l’incontrario delle storie che vediamo nelle serie e che leggiamo su internet: lei è entusiasta, lui vorrebbe vivere più a lungo quei momenti. Compensano facendolo svariate volte al giorno. Vale dice, che Boccia le dice, che lei è troppo per lui, troppo bella, così bella da essere condannato a desiderarla in continuazione, a non resisterle. Tobia non mi ha mai detto nulla del genere.
«Hey? Sono bella, per te?»
Tobia è distratto dallo schermo, forse sta pensando a delle strategie per vincere la partita. Mi rendo conto che ha fatto pausa proprio in concomitanza col finire del primo tempo. Gli accarezzo la guancia, strofinando il medio su un ispido e solitario peletto.
«Eh? Certo, sei bellissima», si affretta a rispondere. Mi prende la mano e la bacia. Un’ondata d’amore mi travolge ma non sommerge il mio senso di ansia, anzi, sembra portarlo a galla come una tavola da surf.
«E cosa ti piace di me?»
Tengo il dorso della mano sulle sue labbra calde.
«I tuoi capelli», risponde, afferrandone una ciocca tra le dita. I miei capelli sono lunghi, sottili, biondo scuro. Di rimando metto la mano tra i suoi spessi ricci.
«Sono più belli i tuoi».
Fa una risatina adorabile. «Grazie», risponde, si porta alla testa anche la sua mano e accarezza il dorso della mia. Gli sfrego il pollice sulla fronte. Restiamo così, in silenzio, a goderci la coccola.
«Quali altre ragazze trovi belle?» chiedo di getto.
Tobia ridacchia di nuovo. «È una domanda trabocchetto?»
«No», rispondo, ma mi rendo conto di star mentendo. «Sto solo cercando di capire i tuoi gusti».
Tobia toglie la mano dal nostro intreccio e allunga braccia e gambe sul letto. Si distende come una stella marina.
«Mah. Quali altri ragazzi trovi belli?»
«Ho chiesto prima io», protesto. Immagini flebili mi fiammeggiano di fronte: il figlio dei vicini di casa; Giorgio Murri il mio compagno delle elementari; l’amico del protagonista di The Knife; Harry Styles. «Dai, un nome. Che ti costa.»
Tobia fissa il soffitto. Le sue labbra sono increspate in un sorriso, ma il suo sguardo è indecifrabile. «Non saprei»
«Il primo che ti viene in mente, uno a caso. Davvero. È per farmi un’idea». Nemmeno io capisco perché sto insistendo tanto. In realtà mi piace che Tobia non risponda. Immagino che davanti a lui ci siano fiammelle indefinite come le mie, contorni grigi che si spengono alla mia luce. Mi inorgoglisco, mi piacerebbe davvero, ma so che non è così.
«Beh…Hay Ley, tipo. Sì. Lei è davvero figa».
Un malessere intenso mi ghiaccia sul posto. Non ho mai sentito Tobia utilizzare questa parola, sembra uscito dalla bocca di uno qualsiasi dei nostri compagni di classe, non dalla sua.
«Hay…Lee?» La bocca mi si è seccata, mi tiro su, mi ritraggo contro la testiera del letto. Tobia resta immobile, così come il sorriso sotto il suo naso. «In che classe sta?»
«Non è della scuola», si affretta Tobia, «Hay Ley. Ha due o tre anni in più di noi. Non l’ho mai vista di persona»
«È un’attrice?» chiedo con urgenza. So che dovrei sentirmi sollevata, ma non è così. Scommetto che questa Hay Ley è molto più bella di me. Anche Tobia si ritrae contro la testiera, si spinge indietro solo con i piedi, non alza la schiena. Lo guardo negli occhi. È sorpreso.
«Non la conosci?»
Mi inclino con il braccio alla ricerca del mio cellulare. Vorrei non vedesse che ho bisogno di cercarla. Lui si alza di colpo, sembra allarmato.
«Lascia stare. Non importa» dice. Si sta guardando anche lui attorno. I nostri sguardi si incrociano sul pavimento, poco lontano dal quadrato del preservativo. Il mio telefono è per terra, metà sotto il comodino. Con mio stupore, Tobia è più veloce a prenderlo: lo afferra e se lo porta dietro la schiena.
«Cosa?»
«Dimenticati il nome, non cercarla. È una cavolata, non so nemmeno perché te l’ho detto.»
Mi alzo in piedi, gli giro attorno, gli strappo il cellulare dalle mani, spaventata all’idea che possa fare resistenza. Tobia me lo lascia prendere, mi guarda con occhi supplicanti.
«Ma cosa ti prende?», gli chiedo.
Quando vede che ho sbloccato il telefono, sbuffa e si siede di nuovo sul letto. Col joystick sblocca il gioco in pausa. Riprende la sua partita.
Il cuore mi batte forte nel petto. Con le mani tremanti, digito il nome “Hay Ley”. Una ragazza bionda, bellissima, provocante. Mi è familiare. È una star del porno.