21.
Non era stato difficile rintracciare Maceria.
Come ogni giorno da ormai quindici anni, quell’omuncolo da niente – ma oltremodo prevedibile – trascorreva i suoi interi pomeriggi in un angolo buio del Bar del Mengo, un locale sulla statale, fuori dalle mura di San Gimignano. Giocava alle macchinette. Videopoker. Era in quel vizio, che finiva tutto ciò che riusciva a racimolare facendo lo spione per conto degli sbirri. Forse anche per questo nessuno lo aveva ancora preso da parte per cantargliene quattro: si sapeva bene che, le macchinette mangiasoldi, erano di competenza di individui assai poco raccomandabili. Privarli di un cliente tanto remunerativo si sarebbe potuta rivelare una mossa parecchio rischiosa.
Appoggiando il gomito sinistro al bancone, la tazzina fumante nella mano destra, Vanni lo osservò, fingendosi interessato a un vecchio poster ingiallito appeso alla parete di fronte. Raffigurava una donna quasi nuda con le ginocchia affondate nella sabbia di una spiaggia, che sollevava due grosse angurie verdi e bagnate davanti al seno. Il Mengo non era mai stato famoso per il suo buon gusto.
«I camionisti si fermano più volentieri», era solito giustificarsi, quando notava lo sguardo di rimprovero dei vecchietti – ubriaconi, bestemmiatori, ma da quel punto di vista anche estremamente pudibondi e moralisti – che, la sera, si radunavano per giocare a carte.
Vanni bevve un sorso di caffè. I suoi occhi seguirono i gesti nervosi delle mani di Maceria. Aveva davanti a sé numerose monete da un euro, che infilava in maniera meccanica nella fessura, una dopo l’altra. Aveva l’aria di un ossesso. Sullo schermo lampeggiavano colori e dalle casse usciva una musichetta distorta. La bocchetta che avrebbe dovuto distribuire le vincite restava desolatamente silenziosa. Maceria sudava, con l’aria di essere sempre più nevrastenico, incapace di smettere.
Presto avrebbe terminato la sua riserva di monete.
A meno che qualcuno non lo foraggi, si disse Vanni.
In fondo, lui non era iscritto a nessuna lega contro il gioco d’azzardo o cose del genere. Se qualcuno voleva sprecare i soldi in quella maniera ridicola, era liberissimo di farlo. Non spettava certo a lui impedirlo. Né avrebbe potuto sentirsi in colpa se avesse incoraggiato qualcuno a buttare via altri soldi.
Anche se mi pare assurdo rovinarsi per una cosa del genere. Ma se hai i soldi, ubriacati come un cammello, dico io. O vai a puttane e scopa come un riccio. O tutte e due le cose insieme.
Però, quel vizietto di Maceria, a lui tornava molto comodo.
Finito di bere il caffè – il terzo della giornata – Vanni si staccò dal banco.
Quella mattina, mentre usciva dal bar in cui aveva bevuto il primo, aveva avuto un vero colpo di fortuna. Aveva visto Maceria in compagnia di Morone. Camminavano lungo una strada, e sembravano confabulare.
Qui gatta ci cova, e non c’è bisogno di essere un volpone per capire che, quei due, stanno tramando qualcosa, aveva riflettuto Vanni.
Con indifferenza, si era incamminato nella loro stessa direzione. Morone aveva poi proseguito per la caserma, mentre Maceria si era diretto verso Porta San Giovanni. Di certo, si stava recando al Bar del Mengo. Lo aveva lasciato andare. Avrebbe avuto più chance di interrogarlo nel pomeriggio, sorprendendolo con il cervello mezzo fuso dal gioco. Per quel che riguardava il luogotenente, Vanni non lo aveva nemmeno preso in considerazione: non aveva nessuna intenzione di parlare con Morone, a meno che la cosa non si fosse resa oltremodo necessaria.
Così, aveva finito col prendersela comoda. Visto che la zia era stata di manica larga, ne aveva approfittato. Per una volta, si era concesso un ottimo pranzo in trattoria: aveva iniziato con pappardelle al sugo di lepre, per passare poi a dell’ottimo prosciutto di cinghiale con contorno di patate arrosto aromatizzate al rosmarino e terminare con una doppia razione di panforte. Il tutto annaffiato da un’intera bottiglia di vernaccia. Con quella esagerava sempre. Ma che poteva farci? La vernaccia gli piaceva.
Dopo aver mandato giù tutto con un caffè, si era incamminato verso il Bar del Mengo. Camminare sotto i cocenti raggi solari del primo pomeriggio, lungo la strada polverosa e contornata da fossati da cui fuoriuscivano erbe rinsecchite, gli aveva favorito la digestione. Le cicale, nascoste in mezzo agli alberi, lo avevano accompagnato lungo il cammino senza smettere un solo istante di cantare.
Era parecchio sudato, quando era arrivato. Lo aveva accolto quel tipico odore dei bar-tabaccheria di provincia, un miscuglio gradevole di caffè e di tabacco, ma anche di vecchio sudore stantio e di vino da pochi soldi. Il bar, come sempre, era avvolto in una sorta di semioscurità, da cui emergevano tavolini e avventori, pochissimi, vista l’ora. Il vecchio e polveroso ventilatore appeso al soffitto faticava a smuovere l’aria. Dietro il banco di legno lucido – al di sotto del quale le vetrinette mettevano in mostra biscotti e brioche che parevano trovarsi lì da sempre, come se fossero state reliquie, anziché prodotti di pasticceria – gli scaffali ospitavano ogni possibile marca di tabacco. Vanni acquistò un paio di toscani e ordinò il terzo caffè. Individuò subito Maceria, e lo tenne d’occhio nei minuti successivi.
Lo vide nervoso. Molto nervoso. Stava perdendo peggio del solito. Questo, anziché indurlo a smettere e a conservare quel poco gli era rimasto in tasca per farci qualcosa di utile (Tipo invitare una baldracca a bere, meditò Vanni), lo spingeva a giocare ancora più forte. Era arrivato il momento di sovvenzionare il suo vizio.
«Si vince, eh?» disse Vanni, fermandosi alle spalle di Maceria.
L’uomo, per un istante, si irrigidì. Comprensibile. Il timore che qualcuno potesse finalmente fargli pagare cara la sua dedizione a Morone era costante. Si rilassò non appena lo ebbe riconosciuto. Vanni Fucci era uno dei pochissimi con cui Maceria non avesse carichi pendenti.
«Mica tanto», grugnì Maceria, infilando un altro euro nella fessura. «Ma manca poco... sento che il prossimo è quello giusto... è tutta una questione di riuscire a far uscire i numeri corretti...»
Restarono entrambi a guardare la donnina in topless che faceva girare numeri, frutti e monetine sullo schermo. Erano di tanti colori diversi. Uscì una sequenza di tre simboli differenti. Vanni non ne sapeva più di tanto, di quegli affari diabolici, ma intuì che Maceria avesse perso ancora. Se la musichetta triste che risuonò dall’apparecchio non fosse bastata, la mancata erogazione di denaro e il verso sconfortato di Maceria lo rafforzarono nella sua convinzione.
Se Dante vivesse al giorno d’oggi, sono certo che all’Inferno riserverebbe un girone a questi polli che si fanno fregare i soldi, condannandoli a giocare con queste stupidissime macchine per l’eternità, si disse Vanni. Indugiare sull’Alighieri e sulla sua opera gli sembrava sempre suo preciso dovere quotidiano.
La mano di Maceria cercò un altro euro. Era il momento di intervenire. Vanni lo bloccò, trattenendogli il polso.
«Aspetta», disse, secco. «So io perché perdi. E so come fare a farti vincere.»
Lo sguardo bovino di Maceria si spostò negli occhi astuti di Vanni.
«Ma prima che io ti insegni il trucchetto, che ne dici? Ci beviamo qualcosa?» domandò. E, senza attendere risposta, si voltò verso il banco e alzò la voce. «Ehi, Mengo! Prepara due Strega, qui abbiamo sete!»
Il barista, sprofondato in uno sgabello a leggere il giornale, alzò lo sguardo e lo fissò come se fosse stato un animale raro. Probabilmente, erano almeno dieci anni che nessuno gli chiedeva qualcosa di simile. La bottiglia impolverata che prese dallo scaffale doveva avere pressappoco quell’età. In ogni caso, il liquido color zafferano che versò in due piccoli calici parve ancora buono e commestibile.
Vanni recuperò i calicini dal banco e tornò verso l’angolo delle slot-machine. Ne porse uno a Maceria e tenne l’altro per sé.
«Alla tua vittoria», brindò.
Bevve un goccio. Come previsto, Maceria vuotò il suo bicchiere in un solo sorso. Aveva una gran fretta di scoprire che cosa avesse in serbo per lui Vanni.
Quest’ultimo non si fece attendere. Appoggiato il calice quasi intatto sopra un tavolino vicino, portò la mano alla tasca interna della sua giacca mimetica e ne estrasse un portafogli. Lo aprì proprio sotto il naso di Maceria, facendo in maniera che notasse tutto il denaro di cui era ricolmo.
«Ehi, Vanni, hai fatto i soldi?!» lo apostrofò l’omuncolo, incantato da quella vista.
Vanni si strinse nelle spalle. Finse indifferenza.
«Qualche buon affare ultimamente... le cose, a volte, girano meglio del solito...» Interruppe la frase. Che Maceria intuisse e intendesse ciò che più desiderava.
Tolse dal portafogli una banconota da cento euro. Un bel verdone risplendente.
«Eccolo il segreto, amico mio», disse. «È tutto in quello che ti giochi. Finché ti limiti a inserire monete da un euro, le tue probabilità di vittoria sono in pratica nulle. Ma, se infili in quella fessurina una banconota come questa, le possibilità aumentano in maniera esponenziale. In pratica, per dirla in termini tecnici, fotti l’algoritmo che gestisce questi affari, che certo non si aspetta questa tua mossa, e ti porti a casa un bel malloppo.»
La bocca di Maceria si riempì di saliva. Cercò di deglutire, ma un sottile filo di bava gli colò lungo il mento. Vanni cercò di reprimere un moto di disgusto.
«Parli sul serio?» farfugliò il ludopatico.
«Certo!» confermò Vanni, deciso. «Provare per credere! Munisciti di un bel po’ di quelle banconote e vedrai che, dopo averne infilate lì dentro soltanto cinque o sei, ti porti a casa un bel centone! I tentativi necessari per arrivare alla vittoria saranno pochissimi!»
Il cervello di Maceria non era celebre per essere tra i più brillanti di San Gimignano. E nemmeno della provincia di Siena. Non intuì la presa in giro di Vanni. Anzi, da come gli si illuminò lo sguardo, sembrò essere un vero e proprio miracolato, a cui era appena stata fatta una rivelazione importantissima e segreta.
«Grazie, Vanni! Grazie, dico davvero! Sei un vero amico!»
Il suo entusiasmo, così come era comparso, scemò all’improvviso.
«Solo che...» Si morse il labbro.
Vanni cercò di non sogghignare. Prendere il topo in trappola era stato più facile del previsto.
Non ho nemmeno avuto bisogno di trasformarmi in ragno per tessergli attorno una grande maglia, rifletté. Sono proprio un bravo gatto.
«Qualcosa non va?» domandò.
Maceria fece un gesto sconfortato. Mostrò le poche monete da un euro che aveva davanti. Cinque o sei in tutto.
«Purtroppo, mi è rimasto solo questo», si lagnò. «Questa mattina, quell’avaraccio di Morone mi ha dato solo cinquanta euro. Mi ha detto che il resto me lo darà a cose fatte. Vecchio tirchio che non è altro!»
Vanni avvicinò la banconota da cento euro a Maceria.
«Potrei anticiparti io qualcosa...» sussurrò.
Maceria lo guardò con tanto d’occhi.
«Davvero lo faresti?!» sbottò.
«Per un amico questo e altro...» continuò Vanni. La banconota sfiorò le dita di Maceria. La presa di Fucci, però, non si allentò. «Ma cosa dicevi di Morone? Quali cose, vanno fatte?»
Per un solo e brevissimo istante, Maceria parve colto alla sprovvista. Qualche dubbio dovette farsi largo dentro la sua mente. Forse persino lui intuì di essere stato preso in trappola. Ma l’odore del denaro fu troppo forte per resistere. La prospettiva di giocare ancora, a oltranza, si fece allettante, e vinse su qualsiasi altro scrupolo.
La bocca di Maceria si aprì e la banconota cambiò infine di proprietario, un istante prima di essere incamerata dal famelico serbatoio della slot-machine.