Mi svegliai con un peso addosso che non era solo dolore fisico. Il mio corpo si rifiutava di collaborare: ogni fibra sembrava più leggera, più piccola. Il pigiama mi stava largo, le maniche mi coprivano le mani come quando avevo quindici anni e rubavo i maglioni troppo grandi di mia madre per starci dentro come in un bozzolo.
Non c’era più alcun dubbio. Non era un sogno.
Mi mossi lentamente, stringendo il braccio destro fasciato alla meno peggio con un misto di nastro adesivo e pezzette di fortuna. La ferita non pulsava più con la stessa intensità, segno che l’adrenalina della notte si era ritirata lasciando spazio al dolore sordo e alla lucidità. Appoggiai i piedi nudi sul pavimento di legno. Freddo. Reale.
Fuori dalla finestra, la luce del mattino filtrava attraverso le tende, colorando la stanza di un chiarore lattiginoso. La casa della nonna era silenziosa, ma sapevo che lei era già sveglia. Lo era sempre, anche nei giorni in cui non ne aveva motivo. Il profumo di camomilla e corteccia d’abete aleggiava nell’aria, portando con sé una strana nostalgia, come se la notte non avesse mai avuto luogo. Ma l’occhiata che diedi allo specchio bastò a smentirlo.
La ragazza che mi guardava aveva il volto familiare della me stessa di vent’anni fa. Occhi un po’ più grandi, zigomi meno scolpiti, le trecce che avevo fatto la sera prima, ora un po’ sfatte. Avevo sedici anni. Di nuovo.
Scesi le scale lentamente, il legno scricchiolava sotto il mio peso troppo leggero. Trovai Misae seduta al tavolo della cucina, intenta a intrecciare un fascio di erbe con movimenti metodici, quasi rituali. Le sue mani nodose sembravano danzare sopra il rosmarino e la menta come se stessero componendo un incantesimo.
Non sollevò subito lo sguardo.
«Mi aspettavo una mutaforma... non un cucciolo smarrito.»
Inarcare le sopracciglia era sempre stato uno dei suoi superpoteri. Riusciva a dire tutto con quello sguardo, e non serviva nemmeno il resto.
«Buongiorno anche a te, nonna.» Cercai di sorridere, ma venne fuori una smorfia storta.
Finalmente mi guardò davvero. Nessuno stupore, nessun panico. Solo un lungo silenzio carico di pensieri. Misae aveva sempre avuto la capacità di guardarti oltre la pelle, oltre le parole.
«Hai sognato qualcosa, stanotte?» chiese infine, tornando a intrecciare le erbe con fare lento.
«No. Non dormivo. O forse sì. Non lo so.» Sospirai, sedendomi con cautela sulla sedia accanto alla sua. «È successo qualcosa. Un’anomalia. Sono finita... altrove. In una scuola. C’era un ragazzo con un’ascia. E Chase. E altri... non so nemmeno chi fossero. Nicholas era con noi. È stato ferito. Anch’io, al braccio. Era reale, nonna. Tutto quanto.»
«E sei tornata con diciott’anni in meno.»
«Venti, a esser precisi.»
Guardai il mio braccio, cercando di ignorare il cerotto storto e il gonfiore. «Non so come risoleverla. È come se... tutto fosse sbagliato.»
«Nulla è mai davvero sbagliato», disse lei con calma. «E sono sicura che riuscirete a trovare una soluzione.»
La guardai mentre si alzava per prendere una ciotola di legno da un pensile. All’interno, un impasto scuro e profumato.
«È un unguento. Per il dolore e per la ferita. Lo usavo per tua madre, quando cadeva dagli alberi. E per tuo zio, quando combatteva con gli altri ragazzi nella radura.»
«E per te, quando correvi via nella foresta.»
Lei mi guardò. Per un attimo, vidi la donna che era stata: giovane, fiera, selvaggia. Il silenzio che seguì fu denso come la resina. Poi prese il mio braccio con delicatezza e iniziò a rimuovere la fasciatura improvvisata.
«Potevi svegliarmi, stanotte.»
«E dirti cosa? Che la tua nipote trentaseienne si è svegliata in piena notte nel corpo della versione adolescente di se stessa, con un taglio d’ascia nel braccio e un licantropo come testimone?»
«Ne ho sentite di peggiori, sai?»
Sbuffai una risata. Lei spalmò l’unguento sulla pelle con gesti precisi, come se ogni movimento portasse via un frammento del caos. Bruciava un po’, ma non protestai. Non ne avevo la forza.
«Chase ha detto che ci sono state altre anomalie. E anche il Concordato ha iniziato a muoversi.» Dissi, mentre lei terminava il bendaggio nuovo. «Ci vediamo al T.S. Center. William vuole darmi un’occhiata, e... probabilmente parleremo di quello che è successo.»
Misae annuì, poi si fermò un momento. Posò una mano sulla mia testa, proprio come faceva quando ero bambina e avevo gli incubi. Nessuna parola. Solo quel gesto.
Quando entrai nell’infermeria del Centro, William stava già preparando alcune bende e infusi. Mi accolse con un’occhiata rapida alla ferita, poi mi fece cenno di seguirlo nella sala riunioni.
«L’aspetto è buono. Ma voglio dare comunque un’occhiata più approfondita. Intanto, parliamo con gli altri.»
Nella sala c’erano già Joanne, in piedi accanto a una lavagna magnetica; Christian, che come sempre trafficava su un tablet con efficienza quasi militare; ed Elinor, seduta con il suo solito blocco appunti.
Tutti mi guardarono appena entrai. Nessuno fece commenti sull’aspetto più giovane, anche se era chiaro che lo avevano notato.
«Ciao Kimama. Accomodati,» disse Joanne con il suo tono calmo, professionale. «Stavamo analizzando i vostri rapporti.»
«E quello di Chase ci ha offerto qualche spunto in più,» aggiunse Christian, tamburellando sul tablet. «Ha identificato l’aggressore come Eugene Parker. Scomparso nel ’91. Il nome compariva in alcune segnalazioni scolastiche. Un ragazzo emarginato, vittima di bullismo. Il fatto che faccia parte dell’anomalia è… inquietante.»
«E anche significativo,» disse Elinor, incrociando le braccia. «Chase suggerisce che le anomalie non mostrino solo eventi del passato, ma visioni di ciò che sarebbe potuto accadere. Una sorta di “ecco cosa è stato evitato”. Ma chi, o cosa, ce le sta mostrando?»
Mi passai una mano tra i capelli, ancora scossa. «Eugene sembrava convinto che fosse tutta una giustificazione. Come se volesse dimostrare che le sue azioni erano inevitabili. Come se volesse riscrivere la storia.»
«O come se fosse manipolato,» intervenne William. «Ciò che colpisce è che nessuno di voi è tornato normale. Né tu, né Chase, né Artur. La mutazione fisica si mantiene anche dopo l’evento. Questo è nuovo.»
«Anche Lucas e Nicholas sono ancora adolescenti,» confermò Joanne, indicando una nota sul pannello. «E a quanto pare, la trasformazione si è mantenuta anche nei giorni successivi. Sta succedendo qualcosa a livello profondo, non solo illusorio.»
«E le Heligo Mountain» aggiunse Christian, «sembrano essere un punto chiave. Abbiamo trovato quella grotta… creata magicamente. Dentro c’erano tessuti azzurri e strani simboli. In base alle analisi fatte dalle Streghe, tutto riconducibile a un certo nome: Diane Warren.»
Annuii. «Era stato trovato il suo distintivo, mi pare.»
«Sì» confermò Elinor. «Lo stanno analizzando le Hex. Non appena sarà possibile, tu e Keme dovreste fare una visione. E vorremmo anche tenervi sott'occhio, se doveste ringiovanire ulteriormente..»
William si chinò verso di me, osservando la ferita. «Tua nonna ha fatto un ottimo lavoro. Ma il tuo corpo è cambiato. Le reazioni alle erbe sono diverse?»
«Leggermente… più rapide, direi. E più intense.»
«Normale, per un corpo più giovane. Ma ci serve un monitoraggio costante. Se la trasformazione fosse progressiva, dovremmo intervenire.»
«E per ora, nessuno è tornato alla propria età?» chiesi, anche se conoscevo già la risposta.
Scosse la testa. «No. E nessuno ha trovato il modo di farlo.»
Silenzio. Un peso si posò sulla stanza, come se tutti stessimo realizzando quanto fosse diventata profonda questa voragine chiamata Croatoan.
«Io non so se quella fosse una visione, una realtà alternativa o un’illusione mentale,» dissi infine. «Ma era reale abbastanza da farmi ancora male il braccio. E da farci sanguinare.»
Joanne annuì, seria. «Dobbiamo procedere con ordine. La visione sul distintivo sarà fondamentale. E anche tornare sulla montagna. Keme sarà disponibile nei prossimi giorni. Nel frattempo, ci servono aggiornamenti costanti. E se doveste vedere ancora quei lampi blu: stategli lontano.»
«Ci proverò.. ma giuro, non sono corsa incontro a nulla. Mi ci sono trovata dentro, in un battito di ciglia.» affermai con tono basso.
William mi porse un piccolo flacone ambrato. «Unguento a base di verbena e achillea. Rinfrescante, lenitivo e cicatrizzante. Due volte al giorno.»
Lo presi, stringendolo con la mano sinistra. «Grazie.»
«Sarà meglio tenere gli occhi aperti.. Sono abbastanza sicura che non abbiamo ancora visto il peggio.», mormorò Elinor.
Scivolò su di me come un’ombra densa, senza colore. Senza tempo.
E quando chiusi gli occhi, non sognai. Vidi.
Una distesa bianca. Neve, forse. Ma qualcosa non tornava.
Non cadeva dal cielo: era ovunque, sospesa, congelata come il tempo stesso.
Sul manto candido, una singola impronta: troppo grande, troppo distante dalla successiva.
Non era umana. Eppure, qualcosa in quella traccia parlava di familiarità. Di pericolo.
Poi, il silenzio venne spezzato.
Un lampo improvviso, una lama insanguinata.
Il colpo netto. Il rotolare sordo di una testa femminile. Non ne vidi il volto, ma lo sentii urlare.
Il sangue scorreva lento, formando una spirale rossa sul pavimento di linoleum.
In sottofondo, una voce flebile mormorava qualcosa…
Parole che non riuscivo a capire, ma che sembravano conoscermi.
Un suono metallico rompe l’immagine: Un walkman.
La cassetta gira, gracchiando una musica disturbata, quasi liquida.
Poi una voce registrata:
«Nessuno è davvero scomparso. Stanno solo aspettando…»
Un click secco.
La bobina si spezza. Silenzio.
Una radura in fiamme.
Il fuoco disegna un cerchio perfetto sull’erba scura.
Mi svegliai di colpo, col cuore che martellava nel petto come se cercasse una via d’uscita. La stanza era buia. Silenziosa. La nonna dormiva nella camera accanto, ignara. Ma l’aria… l’aria sembrava ancora intrisa di qualcosa.
Un sogno, forse.
O forse, no.