Sola in un bistrò
L’orologio alla parete di fronte segnava le due e cinquantasei quando Vittorio di colpo smise di gesticolare, abbassò le palpebre e ringhiò le sue ultime parole. Poi si alzò spostando indietro rumorosamente la poltroncina, si fece largo tra i tavoli senza fare caso alle occhiate che lo seguivano invadenti e raggiunse la cassa. Estrasse con un gesto nervoso il portafoglio e non ebbe bisogno di chiedere. Tirò fuori cinque euro di carta e il cassiere, che non osava alzare lo sguardo, allungò veloce qualche moneta di resto.
Vittorio le raccolse, con un altro gesto scomposto e nervoso, poi fece sparire la piccola maniglia d’ottone nel palmo della sua mano, tirò e uscì dalla porta a vetri che, nel chiudersi alle sue spalle, scampanellò con un trillo beffardo e definitivo.
Petra avrebbe voluto congelare quel momento in un’immobile eternità e così trattenne il respiro nel tentativo assurdo di ingannare lo scorrere del tempo. Invece quello andava avanti, maledetto, e, chissà come, era anche in grado di imporsi alla sua attenzione, rendendo chiaro e distinto ogni tlock della lancetta dei secondi dell’orologio appeso al muro. Tlock… tlock… tlock… E sì che in mezzo a tutta quella gente, in quella stanza così grande, vicino a quel bancone indaffarato, a mezzo metro dalla vetrina su cui la pioggia di febbraio insisteva con il suo scrosciare obliquo, non avrebbe dovuto essere così facile percepire con tale evidenza quel ticchettio. Con un riflesso automatico ma forse reso dalle circostanze più brusco del solito, Petra appoggiò il cucchiaio sul piattino del caffè e immediatamente quel gesto produsse un frastuono che la costrinse a portare i palmi alle orecchie prima che la vibrazione di acciaio e ceramica le risuonasse tra una tempia e l’altra facendole male.
Se ne era andato per sempre, Vittorio. Di sicuro non sarebbe tornato indietro: il disprezzo che le sue ultime parole le avevano rovesciato addosso non lasciava scampo. Era solitudine quella coltre che la soffocava all’improvviso in un bar stranamente affollato alle tre del pomeriggio? Lo sguardo guizzò intorno per poi tornare alla minuscola circonferenza del piano di marmo del tavolino. Dio, quanta gente. Che ci facevano lì quelle persone? Le aveva chiamate apposta Vittorio? Voleva il pubblico per la sua interpretazione dell’uomo esasperato dalla fidanzata insensibile e capricciosa? Benissimo: ecco servito lo spettacolo, un misero spettacolo al costo di un caffè macchiato. I signori laggiù vogliono lasciare una dichiarazione prima di uscire? Era del tutto inutile che fingessero di non guardarla, lei lo sapeva, li sentiva addosso i loro occhi curiosi, tempo qualche secondo e quegli occhi non l’avrebbero dimenticata più. L’avrebbero riconosciuta anche a passeggio sotto i portici, in coda allo sportello della banca lì fuori all’angolo, - quella, per inciso, nella quale sicuramente lavoravano tutti -, in un ristorante, in chiesa.
Forse sarebbe stato meglio cambiare pettinatura, forse era la volta buona per dare un taglio deciso e sbarazzino ai capelli, una cosa radicale, stile Isabella Rossellini. O Juliette Binoche ne Il danno. Raddrizzò il collo e percorse con il medio e l’indice la linea del naso approvando mentalmente il rilievo che avrebbe avuto nel suo nuovo profilo.
Il gruppetto dei bancari si avviò all’uscita formando un’unica immagine indistinta di uomini in completo scuro, una specie di quadro di Munch, quello con quei grigi borghesi sullo sfondo, marionette convinte di contare sullo struscio di una grande città. Uno di loro nel passare urtò la poltroncina che stava ancora come Vittorio l’aveva lasciata: scostata dal tavolo, con le impronte digitali di Vittorio sui braccioli che lui aveva usato come leva per togliersi da lì, per strapparsi via da lei. Che meschinità invitarla fuori, che piccolezza. Sarebbe stato meglio risolvere tutto in macchina. Per strada. Sarebbe stato più virile da parte di Vittorio.
All’uscita del gruppo dei bancari il locale si rivelò svuotato: come era possibile? Come aveva potuto sembrarle tanto affollato poco prima?
Probabilmente non c’erano nemmeno dieci persone lì dentro quando lei e Vittorio erano entrati, si erano seduti, avevano dato spettacolo e poi si erano melodrammaticamente separati per sempre - per sempre -, eppure, dal momento in cui si era seduta, Petra aveva avvertito l’atmosfera opprimente, l’aria satura dei locali affollati nei pomeriggi d’inverno e aveva istintivamente cercato con gli occhi una finestra socchiusa, uno spiffero qualunque che ossigenasse l’aria. Odiava il chiuso dei locali d’inverno. Odiava la condensa sui vetri, cappotti e sciarpe che ciondolano sghembi dagli schienali, pavimenti appiccicosi strisciati di fango. Gente in piedi che incombe con un’invadenza fisica intollerabile su chi è seduto e persone sedute che, d’un tratto e quasi con violenza, si ritrovano in faccia, che so, la tasca di un cappotto di uno in piedi e sei costretto a vedere, in quella tasca, un guanto o un fazzoletto o uno scontrino appallottolato, ad annusare l’odore di armadio di una casa straniera mentre l’aria è ormai satura e ti accorgi che lo è, satura, perché i tuoi occhi si infossano e diventano piccoli, la condensa gocciola su un vetro laggiù e ti manca davvero il fiato e respiri con la bocca come un pesce in una boccia rotonda e vorresti solo alzarti e scaraventarti fuori a respirare aria, aria, aria.
Ma eccola, la verità: nessuno si era accalcato intorno al suo tavolo, non c’era folla in quel bar. Niente ressa, era solo un qualunque mercoledì di febbraio alle tre del pomeriggio. Le parole di Vittorio, troppo accese per non attirare l’attenzione, troppo ringhiate per non suscitare morboso interesse, troppo scandite per non essere sentite con chiarezza, erano finite dritte nelle orecchie di meno di dieci persone. Quei quattro, le due cameriere, il ragazzo alla cassa, la ragazza con il laptop al tavolo di fronte. Petra fece un sorriso di scherno a sé stessa.
Da quanto era uscito Vittorio? Tre minuti? Ora la tipa col laptop stava curva sulla sua borsa come se cercasse chissà cosa, ma, - Petra ne era certa -, quel gesto goffo e così impreciso nelle intenzioni aveva chiaramente l’unico scopo di sbirciare lei, - quella che viene lasciata in un bar -, e le sue reazioni dopo l’uscita di lui. Benissimo, quella tizia poteva sbirciare quanto voleva, poteva pure accavallare il suo polpaccio da combattimento, tutta fiera nel mettere in mostra i mocassini nuovi e il calzino perfettamente piegato appena sopra il malleolo. Tanto non avrebbe mai avuto il polpaccio sottile come il suo. Petra fece una smorfia di sufficienza e si raddrizzò sulla sedia allargando le spalle. Poteva anche cavarsi quegli occhiali cafoni e piantarle gli occhi in faccia, quella ragazzetta alla moda: lei non avrebbe abbassato lo sguardo.
La ragazza intanto estrasse dalla borsa una confezione di Moment e buttò giù una compressa chiudendo gli occhi con sollievo.
Petra la lasciò perdere e fissò le sue dita abbandonate sul ripiano del tavolino: vide la tazzina del caffè di Vittorio e la scia marrone al suo interno, una V rovesciata che dal fondo risaliva al punto in cui lui aveva appoggiato le labbra. L’ultimo caffè con Vittorio. Vittorio. Vittorio.
Le ultime parole di Vittorio per lei risuonavano in quella sala da tè che le era sembrata così chic quando erano entrati e che ora mostrava tutti i segni della decadenza dei locali storici. Il ronzare dei frigoriferi a torre, per esempio, era così dozzinale, così fuori luogo, vicino al bancone di legno di ciliegio e al suo ripiano di marmo verde scuro. Che accostamento offensivo, un ambiente con i suoi quasi due secoli di vita sporcato da frigoriferi col vetro gocciolante di condensa: uno zeppo di bottigliette di plastica da mezzo litro e l’altro, quello a ripiani, nel quale una infelice Saint Honoré sembrava implorare un cliente che se la portasse via. Ma nessun cliente si sarebbe presentato a prendere quella torta, nessuno entrando lì l’avrebbe nemmeno notata. E magari era pure buona, appena fatta, magari, ma nessuno l’avrebbe voluta, nessuno avrebbe posato il suo sguardo su di lei, su quei bignè glassati, su quei ciuffi di panna, su quelle caviglie sottili, su quei polpacci affusolati. Nessuno.
La cameriera le passò dietro le spalle e le chiese se poteva portar via le tazzine. Certo che poteva portar via le tazzine, poteva portar via tutto e anche pulire il tavolo con il suo straccetto. Poteva disinfettarlo quel tavolo, annientare con un colpo solo i residui della sua presenza e della presenza di Vittorio lì, in quel mercoledì di febbraio alle tre del pomeriggio. E di sicuro lei in quel caffè non avrebbe messo piede mai più, la vergogna di cui era stata coperta da Vittorio non meritava certo un revival, ma ora, ancora per qualche minuto sarebbe rimasta ferma ad assaporare il sapore tremendo dell’umiliazione. Scappare via sarebbe stato peggio.
Alla radio passarono una vecchia hit di Céline Dion. Gran voce, ma come si era ridotta male Céline Dion.
Petra si pulì le labbra con un inutile tovagliolino plasticato assolutamente inadatto ad assorbire alcunché, figuriamoci il sapore della sconfitta pubblica. Era un bel posto in cui essere lasciati? No, in assoluto non era un bel posto. Non era un café parigino, non era un caffè di via Condotti o di piazza San Marco e nemmeno era un caffè all’aperto sulla rambla. Era un caffè di un paesotto rurale padano, - un paesotto che si crede cittadina -, un mercoledì pomeriggio alle tre. Un bel caffè, ma niente di straordinario. Ruotò il busto verso destra e si vide nello specchio: una bella donna, ma, – doveva ammetterlo -, niente di straordinario. Vittorio era un bell’uomo, ma niente di straordinario. Quel cappottino che non si era nemmeno tolto lo strizzava troppo: era un finto magro, Vittorio. Inutile che mettesse quegli abiti striminziti: accentuavano la circonferenza delle braccia e il busto importante e il giro coscia, non proprio snello. Certo erano capi di qualità, alla moda si sarebbe potuto persino dire, ma rendevano Vittorio banalmente frivolo.
Le parole di Vittorio volteggiavano nell’aria insieme all’odore di toast e pizzette riscaldate in un fornetto con le griglie incrostate di nero. Era il finale che la loro storia meritava, un finale al gusto di pizzette e prosciutto sintetico bruciacchiato, in un caffè finto elegante. Spettatori quattro impiegati, una venticinquenne dal polpaccio forte e dalla borsa griffata che finalmente avrebbe avuto qualcosa da raccontare all’aperitivo della sera e una cameriera strizzata in una elegante divisa pantaloni, con tanto di cravatta e gilet, ma, ahimè, truccata come una cubista. C’era sempre qualcosa di stonato, ovunque. L’eleganza assoluta dove si trova? Di certo non nelle parole di Vittorio. Non nel portaombrelli di finto ottone che si intravedeva all’ingresso, vicino a quel logoro zerbino, non in quell’orrendo porta tovagliolini di carta plastificata, un piccolo sarcofago di metallo che le toglieva persino la voglia di piangere dal momento che poi pulirsi con quegli affari avrebbe reso anche le lacrime qualcosa di grottesco. Ma poi piangere per che cosa, di preciso? Sarebbe stato più sensato piangere per la guerra israelo-palestinese che per Vittorio e per il suo cappottino che svolazzava fuori da quel bar di parvenus. Non doveva preoccuparsi, il caro Vittorio: avrebbe raccolto lei i cocci della sfavillante figura che le aveva fatto fare davanti a quelle spettatrici scelte, si sarebbe congedata lei da quel posto falso come lui, da quel caffè che non l’avrebbe rivista più come non l’avrebbe più rivista nemmeno lui.
E no, non sarebbe rimasta lì a rimuginare sui bei momenti, non avrebbe ricordato quando le loro ginocchia si cercavano sotto i tavolini del bar della stazione, avrebbe accuratamente evitato di pensare alle mani di Vittorio, alle dita specialmente, che all’improvviso le sembrarono la cosa più elegante che mai si fosse vista e si sarebbe vista in quel caffè e comunque non c’era possibilità che quelle dita la sfiorassero ancora, quindi tanto valeva indossare la giacca e uscire. Si alzò e poi con cura rimise la poltroncina esattamente dove l’aveva trovata al suo arrivo. Lo stesso fece con quella di Vittorio. Come se non fosse mai successo, come se quel tavolino non fosse testimone di un bel niente, come se tutto dovesse ancora succedere, come se Vittorio dovesse ancora arrivare. Come se lei non fosse mai esistita.
Sapeva benissimo che le due cameriere stavano sussurrando mentre la osservavano uscire, sapeva che il cassiere le aveva fulminate e aveva fatto segno di aspettare almeno che lei fosse sul marciapiede, sapeva che una volta che sarebbe stata fuori, tutti avrebbero commentato a voce alta. Avrebbero riso di lei, probabilmente. Ma a lei non importava niente. La voce di Vittorio era ancora nella sua memoria uditiva, come un’impronta su un vetro che si sta appannando. Aveva una voce pazzesca, Vittorio. Le mani e la voce di Vittorio erano macarons e pasticcini di Marie Antoinette, altro che toast e pizzette. Era così profonda la voce di Vittorio, possedeva tante sfumature di calore e lei le aveva provate tutte, a un sospiro dal suo orecchio, dalla sua pelle che sempre si accapponava un po’ quando lui le parlava così. Alle tre del pomeriggio di un insulso mercoledì, invece, Vittorio le aveva regalato la sua voce on the rocks. Si avviò alla porta a schiena dritta. Li sentiva addosso gli occhi di quelle due, la tipa con il laptop e la cameriera, mentre guadagnava l’uscita con solenne dignità, mentre tutto il mondo girava, si chiudeva, finiva, mentre le parole di Vittorio prendevano di nuovo vita e la spingevano fuori:
“No, non dovevi. Come hai potuto essere così stronza? Al funerale di mia madre, Petra!”