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Autore: EmmaJTurner    03/05/2025    2 recensioni
Una nobildonna con un segreto in fuga da un matrimonio combinato; un soldato che ha giurato di dare la vita per proteggerla.
Un low fantasy mystery romance in un piccolo ducato tra i colli assolati del 1700.
Genere: Hurt/Comfort, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 19 - Seba

Seba rimase a lungo paralizzato a fissare il punto in cui Beatrice era sparita. La consapevolezza di quanto era accaduto gli pesava addosso come nubi temporalesche.

Com’era possibile che avesse gestito così male la situazione? Perché aveva detto quelle precise parole, invece di starsene zitto? E pensare che fino al giorno prima gli era sembrato di vivere un idillio. Invece il suo ottimismo speranzoso gli si era rivoltato contro, come un cane rabbioso che morde la mano al padrone. Erano forse le Celesti che lo punivano per la sua arroganza? 

Si asciugò le guance umide con la manica della camicia. Una volta sbollita la rabbia, Beatrice sarebbe tornata, e allora lui avrebbe fatto ogni cosa in suo potere per trovare una soluzione che la facesse sentire al sicuro.

Attese. 

Attese per tutto il giorno, divorato dal desiderio di partire al galoppo per cercarla ma sapendo che restare al suo posto era la cosa più logica da fare. Qualora lei fosse tornata. Qualora avesse deciso di perdonarlo.

Attese, ma Beatrice non riapparve, né in forma umana né in forma di rondine.

Quando il sole calò all’orizzonte, Seba si arrese all’evidenza: non sarebbe tornata. Si prodigò allora in una ricerca infruttuosa, ricavandone in cambio solo maggiore angoscia. Perché non tornava? Si era persa? Le era successo qualcosa? Pur sapendo che era una battaglia persa in partenza, la cercò con la forza della disperazione, chiamandola come un pazzo nel bosco immerso nell’oscurità. Andò verso nord, poi tornò indietro, poi si ritrovò a girare inutilmente tra gli alberi maledendo il frinire ossessivo dei grilli. Camminò per tutta la notte, con le ultime parole di Beatrice che gli rimbombavano nella testa.

“Ti amo” aveva detto. E lui aveva risposto con la prontezza di uno stoccafisso. L’aveva insultata, e poi l’aveva lasciata andare. L’aveva persa. 

I primi raggi del mattino lo trovarono con la testa tra le mani e le guance rigate di sale.

Dormì forse due ore, poi riprese a cercare.

Fu quando le scorte di cibo cominciarono a scarseggiare, due giorni dopo, che la realtà dei fatti lo colpì come una freccia in mezzo agli occhi. Doveva prendere una decisione: restare nei paraggi nella cieca speranza di ritrovare Beatrice o rientrare a Benaco e convivere con la vergogna bruciante di quanto aveva fatto. Ma cos’altro poteva fare? Avrebbe potuto, forse, inviare una squadra di soldati alla sua ricerca? E come, senza rivelare verità scomode e, di fatto, autodenunciarsi?

Inoltre non aveva mentito a Beatrice quando aveva specificato che il suo salario da soldato era necessario per la sopravvivenza della sua famiglia. Non poteva rinunciarci. Che volesse o no, cuore spezzato o no, doveva tornare in città e riprendere il suo posto tra le file dei Falchi. Anche se, ora, la sua protetta non c’era più.

Con il cuore pesante, il cervello annebbiato e i passi trascinati, si ritrovò a caricare il cavallo dei bagagli e a fare rotta di nuovo verso nord.

Il viaggio di ritorno fu costellato di pensieri angosciosi sulla sorte di Beatrice. Dov’era in quel momento? Aveva trovato un posto sicuro dove stare? Era successo qualcosa di brutto? Qualcosa di irreparabile? Non ci voleva nemmeno pensare. 

Quasi non mangiò né si fermò a dormire fino a che non vide all’orizzonte le due torri della città, tremolanti sotto il torrido sole di agosto.

Superò le grandi porte con un cenno alle guardie all’ingresso. 

La città era sempre uguale a sé stessa, con i palazzi alti sulle vie acciottolate, le finestre strette, le fontane agli incroci e in mezzo alle piazze. Le bancarelle del mercato occupavano due piccole piazze adiacenti, brulicanti di vita al pari di un formicaio.

Le attraversò governando il cavallo tra le vie affollate. Gli odori intensi di pesce e bestie macellate gli riempirono la testa, mentre i rumori gli arrivavano ovattati, come attutiti da una coltre di cotone. Le persone erano solo ombre di fumo ai lati del suo campo visivo. Era accaldato, sudato e sporco.

Superò le botteghe dei carpentieri, i fornai e i ciabattini; attraversò un ponte di un canale artificiale dove un mulino girava rapido e avvistò, infine, le mura di cinta attorno a Palazzo del Vento.

Si fermò davanti al cancello piantonato da due guardie in divisa. Al di là delle sbarre in ferro battuto si apriva il viale fiancheggiato da due filari di rose sfiorite; in fondo a esso, tra gli alberi, si intravedeva la facciata sontuosa del palazzo. Il cancello fu aperto con un cigolio.

Tutto gli ricordava lei. Lo scricchiolio della ghiaia sotto gli zoccoli. Le fronde ombrose dei platani. Le rose sfiorite ai lati del viale. Aveva ancora il suo viso disperato davanti agli occhi, e sulle labbra gli era rimasto il sapore salato delle lacrime.

Scese da cavallo.

“Seb!”.

La voce lo fece tornare al presente. Si voltò lentamente. Ogni movimento gli costava una fatica immensa, come se fosse immerso nel fango. 

“Ciao, Ruth”.

La soldatessa in divisa marciò fino a torreggiare su di lui. “Dove sei stato, per le Dee?”.

Esausto, Seba scosse la testa. Doveva dormire. Doveva mangiare qualcosa e riflettere sul terribile, terribile senso di colpa che gli mordeva il cuore.

Ruth intuì che qualcosa non andava. Lo squadrò dalla testa ai piedi e sembrò ricavarne un’informazione decisiva. Ingoiò il resto del veleno che aveva in serbo per lui e afferrò le briglie del cavallo. “Andiamo. Hai bisogno di un bagno e di qualcosa da mangiare. Poi parleremo”.

Non fu difficile ottenere un piatto di zuppa dalle cucine. Fresco di bagno e seduto alla scrivania della camera assegnata alla collega, Seba rimestò con il cucchiaio i pezzetti di carota nel brodo unto di grasso.

“Meglio?”.

Annuì. I capelli ancora umidi gli gocciolavano sulle spalle.

“Avanti allora. Mi devi uno straccio di spiegazione. Sei sparito nel nulla per giorni e quell’altra matta mi ha detto che dovevo coprirti. Sai che rogna è stata dover giustificare la tua assenza per tutto questo tempo? Sei un Alato adesso, non puoi fare i tuoi comodi fregandotene dell’etichetta".

Supponendo che quell’altra matta fosse Margaret, Seba quasi si mise a ridere come un isterico. Era tutto così ridicolo. Un Alato che aveva perso la sua protetta. Era mai successo prima?

“Senza contare che qui la situazione è un disastro” aggiunse l’altra con sprezzo.

Seba si riscosse. “Cosa è successo?”.

Ruth gli lanciò un’occhiataccia. “Nessuna risposta e solo domande, eh?”. Inspirò. “Va bene. La figlia del duca è stata ritrovata il giorno stesso delle nozze e rinchiusa nel mastio. Non esce da allora, vittima di un malanno sconosciuto”.

Il cucchiaio cadde nel piatto schizzando brodo su tutto il mogano laccato. Seba tossì un pezzo di cipolla che gli si era incastrato in gola. “Che cosa?”.

“Oh. Una reazione, finalmente”.

Con due ultimi colpi di tosse Seba riprese il possesso della sua trachea. “Non può essere vero”.

“Non è vero, infatti. La ragazza è introvabile. Quello che ti ho detto è la versione edulcorata dei fatti a cui i soldati della guardia devono attenersi. Ordini del duca”.

Davanti all’espressione basita di Seba, Ruth incrociò le braccia al petto.

“Lo so che è una stronzata e una pessima idea. Non guardarmi così”.

Seba sbatté gli occhi e cercò di quietare il ruggito che sentiva dentro.

“A che scopo? Qual è il piano?” mormorò. Sentiva strisciargli dentro una rabbia bruciante.

“Non c’è un piano. La ragazza non si trova da nessuna parte. Stanno solo prendendo tempo”.

Seba la fissò senza vederla. Era solo un artificio, una bugia. Anche da assente, Beatrice continuava a essere usata come una pedina. La considerazione gli chiuse lo stomaco. Asciugò i danni sulla scrivania con la manica e cercò di organizzare una risposta.

Ruth non gliene lasciò il tempo. “E ora dimmi come fai a sapere che non è vero”.

Se gli avesse inflitto una stoccata al cuore gli avrebbe fatto meno male. Aveva già dei sospetti su di lui e Beatrice, dunque.

Cambiò argomento. “Cosa hai detto della mia assenza?”.

“Che tua madre era in punto di morte a causa di un calcio di un cavallo, e che ti avrebbe fatto maledire dalle Celesti se avesse dovuto andarsene da questo mondo senza aver visto la tua brutta faccia per un’ultima volta”.

“Legittimo. E Ghilroi se l’è bevuta?”.

“Per tua fortuna Ghirloi è impelagato con la signorina scomparsa quindi mi ha ascoltato solo con mezzo orecchio”.

“Bene”.

“Non mi sorprenderebbe comunque se ti decurtasse la paga per l’intero mese”.

“Meno bene”.

Le scoccò un’occhiata. Aveva la solita espressione vagamente ostile, ma nelle rughe di espressione riusciva a leggere una sincera preoccupazione. 

Incrociato il suo sguardo, lei lo incalzò: “Allora?”.

Seba tentennò. Il senso di colpa lo scavava dentro. Desiderava solo crollare e confessare tutto. Poteva mettere il segreto di Beatrice nelle mani di Ruth, o l’avrebbe solo messa in pericolo?

La guardò. Era appoggiata alla colonnina del letto a baldacchino, le braccia conserte e l’espressione truce. Il caschetto bruno tirato dietro le orecchie, la postura austera, la consapevolezza della propria forza, fisica e morale, accentuata dalla vistosa divisa rossa. Emanava fiducia, nonostante tutto.

Le spiegazioni furono come strappare un dente infetto con una pinza: rapide e dolorose. Seguì un silenzio che era allo stesso tempo spaventoso e confortante. Liberato da un enorme peso, Seba ora attendeva le naturali conseguenze delle sue azioni.

Abbandonata la postazione vicino al letto, ora Ruth camminava avanti a indietro per la stanza. 

“Riassumendo: hai scortato la duchessina, che soffre di una condizione del quarto ordine, fuori città, con l’obiettivo di nasconderla in campagna presso la tua famiglia”. Ogni parola era una scudisciata contro la coscienza già sanguinante di Seba. “Questa condizione la porta a tramutarsi in un uccello quando prova un eccesso emotivo”.

“Una rondine. Sì”.

“E avete litigato, la qual cosa ha scatenato la mutazione”.

“Sì”.

“La duchessina si è quindi trasformata in una rondine, come era accaduto al suo matrimonio”. 

“Sì”.

“E poi tu l’hai persa”.

Si schiarì la gola. “È così”.

“Per le Dee, Sebastian. Come hai potuto? Proteggerla è il tuo lavoro”.

“Pensi che non lo sappia?”.

“E ora cosa dovremmo fare? Non puoi di certo dire al duca che hai praticamente rapito la figlia per portarla a casa tua in mezzo al beneamato nulla. Come potresti giustificarlo? Sarebbe un suicidio”.

“Non posso” concordò Seba afflitto. “Ma questo significa abbandonarla al suo destino”.

“Quanti giorni sono passati da quando vi siete lasciati?”.

Fece un rapido conto mentale. “Cinque”.

È bella che morta. Questo lesse, limpido come acqua di fonte, sul viso della collega. L’orrore gli stritolò la gola.

“Credi che sarebbe inutile cercarla?” balbettò, soffocando.

Ruth scelse con cura le sue parole. “Credo che le probabilità che una nobildonna sia viva dopo cinque giorni da sola nel bosco siano limitate”. Non c’era crudeltà nella sua voce, solo una razionale cortesia.

Seba si sentì gelare. Cosa aveva fatto?

Vedendo la sua espressione, Ruth cercò di ammorbidire il colpo. “Non pensiamo al peggio. Cerchiamo di risolvere un problema alla volta”.

Anche Beatrice aveva detto una cosa del genere, tempo addietro. A cosa li aveva portati?

Seba si fece scivolare la testa fra le mani. I capelli, gonfi d’acqua, gocciolarono sul tappeto. “Ho fatto un casino” sussurrò.

Mai tipa da frasi consolatorie di circostanza, Ruth non replicò.

Un bussare alla porta li fece sobbalzare. Si scambiarono uno sguardo allarmato e si affrettarono a cancellare la colpa dai loro visi.

Ruth si schiarì la voce. “Avanti”.

Il faccione di Ben sbucò dalla porta. Aprì la bocca per riferire qualcosa a Ruth, ma il suo viso si dipinse di sorpresa quando intravide l’amico seduto alla scrivania. 

“Seba! Sei tornato”.

Seba fece un generico cenno di assenso.

“Ruth mi ha detto di tua madre. Brutta storia, brutta storia. Sta meglio adesso?”

Inghiottendo lo sconforto, Seba rispose di sì.

Ben si richiuse delicatamente la porta alle spalle e mise in fila qualche generica frase d’incoraggiamento e pronta guarigione. Poi cadde in un silenzio imbarazzato. Aveva il viso chiazzato di rosa e ricoperto di un velo di sudore, come se fosse arrivato lì con una certa urgenza. Seba notò che giocherellava con l’aggancio del fodero alla cintura.

“Ben. Stai bene? Perché sei qui?” gli chiese Ruth.

“No, non sto bene” rispose l’altro. “Mi manda il capitano. Purtroppo sono qui per darvi una notizia per nulla felice. Anzi. Diciamo pure che è proprio una notizia di merda”.

I due Alati si scambiarono un’occhiata.

Dall’alto dei suoi quasi due metri, Ben gonfiò il petto e prese fiato.

“Edoardo Federico Filippo di Altoponte, futuro erede e figlio maggiore del duca, è morto”.

 
   
 
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