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Autore: whitemushroom    08/05/2025    3 recensioni
Un investigatore della Santa Sede indaga sulla scomparsa di un potente magus, muovendosi in una Roma distorta, più interessata a proteggere i propri segreti che a rivelarli. In un' isola poco lontana Njal, un giovane turista, perde una persona di a lui cara e scopre che qualcosa, nel suo corpo, inizia a non comportarsi come dovrebbe.
Il primo ha dedicato la sua intera vita alla caccia di uomini e creature sovrannaturali, il secondo si ritrova suo malgrado in un universo di cui nemmeno conosceva l'esistenza; eppure entrambi rincorrono fantasmi presenti e passati sulla scia di qualcuno che, come un pittore, lascia la sua Firma su degli eventi di cui è impossibile rimanere soltanto passivi spettatori.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il ramo tra sue gambe scricchiolò in maniera pericolosa. Il giovane Tsekani si guardò intorno, alla ricerca di qualche ramo più grosso che potesse reggere meglio il suo peso e quello del fucile, ma non ve ne erano. Per grazia dell’Onnipotente la tunica ed i pantaloni non grondavano come i suoi palmi, e strinse con forza le gambe sul legno per evitare di cadere da quasi due metri d'altezza e farsi deridere dalla Falce della Luna fino all'ultimo giorno della sua carriera.
L’Imbel, complice senza dubbio il nervosismo, sembrava pesare il quintuplo; non erano trascorsi nemmeno venti minuti dall'inizio dell’appostamento e se lo era rigirato tra le mani così tanto da averlo coperto di sudore. Lo aveva passato su entrambe le spalle alla ricerca del supporto migliore per sparare, ma non si era ancora deciso. Aveva imperlato di sudore anche il mirino e questo si era appannato, costringendolo ad acrobazie complicate per pulirlo senza perdere la presa e cadere. I proiettili erano già inseriti nel carrello e Freki si era occupata di levargli la sicura, col risultato che, se avesse premuto qualcosa per errore, come minimo sarebbe saltato in aria.
Fissò per l'ennesima volta il punto in cui la donna era scomparsa: la vegetazione era animata dalla fauna e da un leggero alito di vento, ma non vi erano suoni o segni del suo possibile ritorno. Ripensò all’avvertimento che la sua istruttrice gli aveva lasciato, quello riguardante l'intelligenza della Gortac: la pianta avrebbe potuto alterare suoni e forme, da vero predatore, e se aveva letto correttamente sarebbe stata in grado di estendere radici e rami ad una distanza impensabile per le piante comuni.
Proprio in quel momento il cervello gli ricordò che, dei ragazzi che erano stati nominati esecutori l'anno precedente, quattro non erano sopravvissuti al primo scontro sul campo. Il pensiero intrusivo si accomodò nella sua testa, e per poco non sparò un colpo quando, sulla sua sinistra, un pappagallo si staccò da un ramo e prese il volo; si ritrovò le dita serrate sul grilletto ed i denti così stretti da fargli male. Il cuore sembrava una macchina da corsa lanciata in pista con i freni rotti, ed il silenzio successivo amplificò al massimo il senso di inquietudine, diffidenza e nervosismo che lo stava abbracciando.
E la paura.
Un esecutore non doveva avere paura. O almeno, non di una foresta silenziosa e dei suoi abitanti. Toccò il crocifisso, mormorando una preghiera, ma questo dal sudore gli si era appiccicato lungo la pelle. La Firma si estendeva placida e senza elementi di disturbo: non aveva mai avuto a che fare con la flora ancestrale e non aveva un'idea precisa di quale fosse la sua impronta nel disegno dell’Altissimo, e si chiese se quella strana quiete fosse dovuta alla reale lontananza della Gortac o alla sua incapacità di riconoscerla.
Alla sua sinistra, di nuovo un pappagallo lasciò il suo nascondiglio e ancora una volta i suoi nervi rischiarono il cedimento.
Cercò di ripetersi che la Falce della Luna lo aveva considerato alla stregua di uno stupido sacco di patate, e che lo aveva lasciato su un albero con un inutile fucile solo per non ritrovarselo tra i piedi quando si fosse scontrata con la Gortac. Tra un fruscio e l'altro si sentì molto, molto combattuto tra il desiderio di far valere gli anni di addestramento per i quali aveva lasciato la sua famiglia e la sensazione di essere del tutto impreparato: con un'arma di cui non capiva nulla, la Firma silenziosa ed un nemico che poteva trovarsi in qualunque ettaro di quella maledettissima foresta, la seconda sensazione premeva assai sul piatto della bilancia. Ogni scricchiolio ricordava il gracchiare sconnesso della voce di Sorella Graele, ed il rumore delle foglie al vento era la voce dei suoi compagni di corso che magari, in quel momento, stavano scommettendo forte su quanto quel disadattato di Tsekani potesse durare in una missione con la Falce della Luna. Boris avrebbe puntato su due giorni al massimo. Patrick, quello ottimista, gli avrebbe concesso di arrivare fino allo scontro per essere divorato dalla Gortac. Itami, da bravo orientale fatalista, avrebbe scommesso venti euro sul fatto che gli si sarebbe inceppato il fucile nel momento cruciale e sarebbe morto come il cretino che era.
Di nuovo i suoi pensieri furono interrotti da un rumore. L'ennesimo pappagallo, sempre dallo stesso albero.
Esitò.
Identico frullare d'ali. Identica traiettoria.
Rimase immobile, mordendosi il labbro fino a sentire il sangue in bocca. Tese i muscoli del collo, gli occhi puntati sul punto esatto in cui il volatile era partito. Smise di contare il tempo, concentrandosi a rallentare il proprio battito come gli era stato insegnato; rimase immobile, focalizzandosi sul respiro e sul controllare il diaframma, alla ricerca del giusto ritmo tra polmoni, cuore e mani. Attese, attese per quella che poteva essere un'eternità.
Quando per la quarta volta lo stesso pappagallo prese il volo, capì di non poter più aspettare. Prese il fucile, controllò le cariche e fece per scendere, ma qualcosa bloccò le sue gambe.
Si guardò indietro, e vide che i rami più alti si erano piegati, e la morsa che gli impediva di muoversi era una massa di rami e ramoscelli, compatta e che resistette ad un suo primo strattone.
La pianta si mosse, scrollando tutte le foglie nel vento. Il loro colore, da verde intenso, si trasformò in un azzurro più brillante del cielo. Tsekani sobbalzò alla vista, rendendosi conto di essere stato sui rami della Gortac per tutto quel tempo, ma non si poté concedere il lusso di pensare ad altro: la stretta intorno agli arti inferiori aumentò, e venne trascinato indietro. Il fucile gli cadde dalle mani, ma non ne avvertì nemmeno il tonfo. Con le mani cercò i coltelli che teneva sotto la tunica, all’altezza del petto, e si sollevò quanto bastava per piantarli in uno dei rami più sottili. La consistenza sembrava quella del legno normale, quindi mise tutta la propria forza e li spinse stavolta contro la propaggine che lo stava immobilizzando: nel punto dove la sua lama colpiva, la corteccia mutava colore, rivelando le tinte argentate e tenui della Gortac. Spinse forse una decina di tagli in rapida successione, muovendo il busto per evitare altri attacchi. La pianta accusò i colpi, liberandolo di colpo.
Il ramo su cui era ancora faticosamente attaccato si mosse come una frusta, ed il giovane cadde per almeno un paio di metri.
I lunghi allenamenti lo spinsero a rotolare, ignorando il dolore, e si rimise in piedi puntando le gambe, le mani ancora intente a non perdere la presa sulle armi; si sentiva frastornato ed i suoni di colpo gli sembrarono ovattati, ma scosse la testa e si lasciò scivolare la sensazione addosso e si mise in posizione di difesa. Fissò la pianta, che ormai aveva abbandonato il suo travestimento: tutta la forma era coperta di un livello di corteccia color argento sporco, e la superficie era molto più liscia ed innaturale rispetto agli altri alberi. Le foglie si erano assottigliate, come piccole lance color azzurro che con ogni buona probabilità avrebbero trapassato la sua carne come gli artigli di un predatore.
Non sentì alcun rumore alle sue spalle, eppure una delle radici sbucò da dietro, arrivandogli quasi alla cintura. Si girò, cercando di tagliarla, e realizzò che dalla propria bocca non usciva alcun suono, né i suoi stivali facevano alcun rumore sopra le foglie del terreno. Al terzo colpo si liberò, solo per evitare l'ennesimo ramo in caduta verso di lui.
Si mosse sul terreno ormai accidentato senza capire dove andare, limitandosi ad evitare tutto: non sentiva nulla, ed anche quando provò a gridare della sua voce non vi fu nulla, nemmeno un accenno. Quando aveva letto che le Gortac potessero alterare i sensi dei bersagli non aveva immaginato nessuno scenario simile, e nel realizzare ciò venne preso ancora una volta con la guardia abbassata: non udì le foglie scagliate contro di lui, e i suoi occhi percepirono lo scintillio azzurro con troppo ritardo. Protesse l'occhio sinistro con la mano, ma le altre foglie andarono a segno: un dolore acuto lo prese all'angolo della mandibola, seguito dalla sensazione del sangue che prese a colare subito lungo il collo e sotto i vestiti, e qualcosa aveva trafitto anche la coscia sinistra. Cercò di tenersi in equilibrio tra le radici che saettavano, ma fallì. Nel totale silenzio che lo avvolgeva, venne colpito in pieno ad una caviglia proprio mentre tentava di destreggiarsi, col risultato che cadde di schiena. Il terreno si smosse, e d'istinto posizionò una mano vicino al collo, intuendo che le radici avrebbero cercato di strangolarlo. Il gesto gli salvò la vita, perché il palmo si interpose, lasciando alla gola lo spazio per respirare. Tagliò i vincoli con la seconda mano e si impose di alzarsi; strinse i denti e tentò di connettere la propria Firma con l'energia del crocifisso, ma il flusso che ne uscì non era dissimile alla sensazione ovattata che aveva nelle orecchie. Cercò di stabilizzarla mentre evitava i colpi della Gortac, ma il potere della Santa Sede gli giungeva alterato, distante, proprio come aveva letto nei rapporti.
La pianta di Izunya si era protesa verso di lui con tutto il tronco, torreggiando in tutto il suo campo visivo. I rami erano aumentati a dismisura, creando uno spazio chiuso, intenzionato a bloccargli qualunque via di fuga. La parte inferiore del tronco argentato, quella vicina alle radici centrali, parve aprirsi, e nonostante la confusione, le foglie volanti ed i rami, il neo esecutore riuscì a scorgervi chiaramente resti animali, umani e chiazze di sangue rappreso. Le raffiche lo stavano indirizzando proprio verso il centro della Gortac, e si impose di non fare un passo oltre in quella direzione.
Una seconda volta il silenzio innaturale gli impedì di sentire le foglie in arrivo, stavolta colpendolo dietro la schiena.
I coltelli non sarebbero stati sufficienti ancora a lungo: i rami più spessi gli avevano richiesto almeno un paio di colpi, e poteva sentirne il filo rovinato dalla corteccia ancestrale. Guardò il punto dove era caduto il fucile, ma non sarebbe mai riuscito a puntarlo e mirare senza venire afferrato, o peggio.
Non sentì il pericolo.
Uno dei rami principali, probabilmente quello su cui era rimasto appostato, si staccò dal tronco e cadde di proposito su di lui. Non vi fu alcun rumore, né spostamento d'aria: vide solo l'ombra davanti agli occhi, poi l'intera struttura rovinò sulla sua testa. Le foglie gli segarono la carne, ed al dolore lancinante del cranio si unì il velo rosso del sangue che gli coprì entrambi gli occhi.
La distrazione e la confusione fecero il resto. La Gortac si avventò sulle sue mani, stavolta strattonandogliele verso il basso. La destra perse la presa sull’arma, ma la lama sinistra non trovava altro che aria. La pianta prese a torcergli i polsi, intenta a disarmarlo ed a levargli l'unica possibilità di danneggiarla. Tirò un calcio, puntando sulla propria forza per tirarsi fuori, ma non riuscì a bilanciarsi e finì ancora più in basso, aprendosi agli attacchi.
Quando il primo tralcio superò le difese e gli strinse la gola, ignorando il già scarso effetto del crocifisso, trattenne tutto il fiato possibile.
Ma non servì.
Nel silenzio più totale, tutti i rami e le radici scattarono, come attraversati da una scossa. Nonostante i polsi doloranti si sbrigò a recuperare l'arma ed a rotolare via. Si rialzò, frastornato, mentre intorno a lui le radici scattarono, stavolta verso un altro obiettivo. Tsekani le seguì con lo sguardo, preparandosi ad un qualsiasi attacco, e le iridi inquadrarono Freki, vicina al tronco principale, intenta a spegnere una sigaretta contro la corteccia.
La donna evitò un colpo di ramo proveniente dall'alto senza sforzarsi troppo. Quando gli occhi del giovane esecutore fecero contatto con i suoi, ebbe un moto di stizza e gli gridò qualcosa che andò però perso nel silenzio innaturale della battaglia.
Tsekani non capiva il labiale, ma fu abbastanza sicuro che almeno un paio di quelle parole formassero un’imprecazione. O un insulto nei suoi confronti.
Fece per andare nella sua direzione e rendersi utile, ma un’occhiataccia della donna lo costrinse a non fare un passo in più.
Lei saltò, liberandosi di una radice, poi portò la mano all’elsa della spada che portava legata alla schiena.
Il silenzio venne dilaniato da un rumore che parve eruttare direttamente dal cielo. Al giovane esecutore sembrò che degli ingranaggi colossali si fossero messi in moto all'unisono, liberando di colpo tutti i rumori nell'aria: girò gli occhi, alla ricerca di qualche meccanismo misterioso, ma il verde e l'azzurro dominavano incontrastati, ed anche lo splendore della corteccia della Gortac non rivelava nulla. La spada, che Freki piantò a terra con un colpo secco, non presentava alcun meccanismo di sorta: era più banale delle spade di un museo, ma qualunque cosa avesse fatto, la Firma intorno a loro tornò in funzione. I circuiti dentro di lui si ricalibrarono sul crocifisso, e tornò padrone dei suoi sensi.
“Brutto cretino che non sei altro, sai quanto è costato quel fucile?”
Non se lo fece ripetere una seconda volta.
Si buttò nel punto dove l’Imbel era caduto. Solo pochi rami cercarono di colpirlo, perché l'intera Gortac sembrava impazzita. Ad ogni passo sentiva il suolo diventare incandescente, la Firma strutturata come una rete intorno alla spada. Lacerò una radice sul passaggio, e nonostante il filo del coltello fosse rovinato, la lama tagliò il legno ancestrale senza enormi difficoltà. Quando raggiunse il fucile e lo imbracciò, ogni fibra dei suoi muscoli sembrava andare a fuoco.
Mosse l'arma in aria, le dita serrate per il nervosismo, alla ricerca del punto preciso dove sparare: mirare al tronco, nel punto dove la Gortac aveva accumulato le sue vittime, sembrava una buona idea, ma quando direzionò la canna ondeggiò sotto il peso.
Tra lui e l'obiettivo, Freki aveva rovesciato la borraccia a terra, aveva estratto l'accendino, e tra le fiamme e la Firma l'intera visuale dell’esecutore si era trasformata in un inferno. La donna aveva ripreso la spada tra le mani, e si stava accanendo contro dei rami che si erano frapposti a schermo tra lei ed il resto della Gortac.
Tsekani prese un bel respiro, rendendosi conto del diversivo realizzato dalla donna. Si asciugò il sudore, poi appoggiò un ginocchio a terra: si sentì più stabile, più sicuro, e si aggrappò al ferro dell'arma per sentirla nella sua interezza. Il mirino si divertiva a muoversi col suo stesso respiro. Provò ad imitare una delle posizioni con cui aveva visto Sorella Graele esercitarsi, con il ginocchio non a terra pronto a sostenergli il gomito.
L'immagine nel mirino amplificava solo la sua confusione, e quando si convinse a premere il grilletto ampliò tutto il potere del crocifissio, tenendo a bada delle radici che stavano sbucando dal terreno.
Si immerse di nuovo nell’onda dei suoni, rivolse una frettolosa preghiera, e sparò.
Quello che successe dopo furono un dolore indicibile alla spalla e la pianta davanti a sé che esplose in un trionfo di fuoco e corteccia. Il rinculo gli fece perdere l'equilibrio, e batté la testa a terra.


I tre piccioni volavano in formazione, inconfondibili anche nel caos del cielo romano; si fermavano ad ogni incrocio, aspettando pazientemente che la loro automobile arrivasse, per poi riprendere il volo. Erano in grado persino di riconoscere i sensi unici, notò Padre Tsekani, con gli occhi troppo concentrati sui volatili per processare con consapevolezza in quale buco della capitale fosse finito.
Accanto a lui, teso come se avesse ingoiato una spada, Samuel passava i minuti attaccato al telefono. Nonostante il caldo, il collega più giovane era coperto dalla testa ai piedi, e si era sfilato i guanti soltanto per stare al telefono.
Gli inglesi non sudano, fu la conclusione dell’esecutore più grande.
Strinse i denti, bloccato dallo strano silenzio che aleggiava nella macchina.
Padre Whiteflame, alla vista dei piccioni del suo appartamento, aveva intimato loro di seguirli senza discutere. Non li avevano attaccati, come Padre Tsekani sarebbe stato pronto a scommettere, ma gli ordini del suo superiore erano stati più che cristallini: la moglie di Angelo Lorenzo Pontieri aveva richiesto il loro intervento immediato, e ovviamente lui aveva avuto l’invidiabile fortuna di essere l’operativo più vicino al campo visivo del proprio superiore.
I pezzi della scacchiera erano praticamente sotto il suo naso, ma lui faceva schifo a scacchi: l'incontro con Orbert Vidala era ancora fresco, così come i velati suggerimenti del Vescovo di occuparsi proprio di Emma Nightshard, la moglie del magus scomparso. Il cigno nero ed il gabbiano erano la prova schiacciante che vi fosse almeno uno zoomante coinvolto nella vicenda, e nulla riusciva ormai a distoglierlo dall'idea che questa strana donna potesse essere coinvolta. Il fatto che Padre Whiteflame l'avesse nominata più volte e li avesse mandati di fretta e furia sulle sue tracce non rendeva la situazione più chiara, considerato che l’esecutore capo non aveva mai espresso alcuna opinione positiva verso i magi, specie se pretenziosi e petulanti come questa Emma si prospettava. La donna era senza dubbio un tassello importante in quella vicenda, e se aveva abbandonato il suo nido londinese per scendere a Roma, qualcosa si stava muovendo. Il collegamento con l’Antilux e l'autista infernale nella casa del professor Zurlí era ancora ad un punto morto, ma anche lì il Vescovo si era proposto di indagare.
“Dovremmo avvisare Dama Violet che la sua padrona si trova a Roma?” fece Samuel, rompendo il silenzio.
Padre Tsekani impiegò un paio di secondi per mettere il discorso in ordine. “Perché dovremmo?”
“È comunque una figura vicina al nostro magus. E sa qualcosa, nonostante il suo stesso contratto la vincoli a non parlare”.
“Anche se volessimo coinvolgerla, non abbiamo tempo per andare alla Villa degli Sciarra a consultarlo. È isolata”.
“In realtà è online su WhatsApp proprio adesso”.
L’esecutore guardò il suo compagno come se lo avesse visto per la prima volta. “L’Asrai dovrebbe essere isolata”.
“Su ordine del Vescovo”.
L'uomo fece per ribattere: la visita a Villa Sciarra ed il dialogo con Vidala aveva reso evidente l'antipatia tra quest'ultimo e Padre Whiteflame, con un'estensione su Samuel che aveva persino qualcosa di personale.
Freki gli aveva insegnato che in certe cose era meglio starne fuori, e aveva preso quell’insegnamento con la stessa riverenza che provava per il Vangelo.
Il suo collega rivolse un sorriso gentile verso il telefono “Mi era sembrata davvero una cattiveria che una donna simile si trovasse lì sotto, specie in compagnia del Vescovo, dunque mi sono consultato con Padre Whiteflame su come migliorare la sua disposizione nei nostri confronti” disse, senza smettere di scrivere. L'uomo provò una leggera invidia per quei movimenti veloci, visto che anche la tastiera digitale più ampia sembrava troppo piccola per le sue enormi dita. Uno dei motivi per cui aveva il brutto vizio di preferire i messaggi vocali.
Non disse nulla, limitandosi a seguire i piccioni senza investire due turisti. Samuel continuò “... e lui mi ha detto che le donne vogliono tutte la stessa cosa, alla fine”.
Padre Tsekani finse di essere molto interessato al semaforo davanti a lui, domandandosi perché Roma non fosse ancora coperta dalla neve perenne dopo un simile approccio del suo superiore con una Asrai.
Deglutì a secco “E… Cosa vorrebbero tutte le donne?”
“La password del Wi-Fi”
Probabilmente il suo sospiro di sollievo lo avrebbero udito persino in Argentina, ma il suo collega era troppo concentrato. “Le ho fatto avere un telefono, così può continuare a lavorare a distanza. Non può ovviamente rivelarci nulla del suo contraente per via di Poseidon, ma credo che avesse davvero bisogno di controllare a distanza gli affari della villa. Ma se la sua padrona fosse tornata, credo che me lo avrebbe detto”.
“Ti rendi conto che stai chattando con una Fata?”
Quello fece un sorriso. Delle tante doti del giovane esecutore, il sorriso era la cosa più particolare che avesse. Forse perché non era stato abbastanza in missione.
“Certo” disse “E adesso so tutto su come il nobile Pontieri voglia il caffè, sul suo vestito preferito e soprattutto su quanto i mobilifici siano dozzinali quando si tratta di scegliere i nuovi letti per la cameretta del figlio del nostro magus. Sono tutti bonus per quando andrò in Purgatorio…”
“Vorrei avere la tua pazienza, Samuel. Meno di ventiquattro ore con quel magus svizzero e muoio dalla voglia di prendere qualcosa a pugni”.
“Parta proprio con quel magus. Nessuno verserà una lacrima”.
“Non è da te essere così duro”
In realtà si pentì di quelle parole dopo meno di un secondo.
Conosceva Padre Samuel davvero molto di vista, così come la quasi totalità dei suoi colleghi. Con qualcuno vi aveva condiviso una missione, ed era stato il massimo dell'interazione sociale; sapeva del carattere dei suoi superiori e ogni tanto aveva adocchiato qualche novizio che mostrava potenzialità, ma non poteva davvero dire di conoscere bene qualcuno.
Il semaforo diventò verde, e premette l'acceleratore.
O forse, la verità era che non conosceva bene nessuno. Nemmeno più la sua famiglia.
Lo sguardo scocciato del suo collega, sotto la massa di capelli chiari, colpì quel pensiero come una mazza chiodata.
“I magi stanno bene solo su una pira” rispose. Fu un tono molto duro, seguito subito dopo da una frase a mezza voce “E quando Padre Whiteflame ha capito chi fosse, ha fatto un'espressione strana. Non mi convince”.
L'uomo non seppe come rispondere.
Quel Dewhellan gli era caduto tra capo e collo, e aveva compilato con incredibile solerzia tutte le pratiche per farsi gonfiare di botte e impacchettare fino al Bureau. Non gli aveva rivelato assolutamente nulla del perché si trovasse a Roma, ed era ormai chiaro che il suo superiore sapesse qualcosa di lui, o quantomeno della sua famiglia. E così aumentava la sensazione di sentirsi un pacco lanciato nel mondo, dove tutti giocavano a qualcosa e lui aveva in mano un libretto delle istruzioni in una lingua che non conosceva.
A giudicare da come i piccioni si erano poggiati sulla finestra di un edificio, erano arrivati. Si accinse a cercare un parcheggio. “A me ormai non piace più nulla”.
Né di quella storia, né del resto.
Forse il problema era tutto lì.
Forse era stanco di tutto.
E, quando vide Dew scendere da una fermata del tram, sorridendo beffardo perché era arrivato prima di loro anche con i mezzi pubblici di Roma, capì che se fosse sopravvissuto a quella missione oltre ai capelli bianchi avrebbe vinto una fantastica calvizie da stress.
Il naso arricciato di Padre Samuel alla vista del magus era un programma.
Evidentemente dire a Dewhellan che quella missione non era affare e suo e che doveva solo aspettare nel suo appartamento non era stato sufficiente. Quello, oppure che quell’avvoltoio dai capelli azzurri faceva solo finta di capire l'inglese .
“Io cerco un luogo dove sia possibile appostarsi e dare un'occhiata” disse, osservando i volatili. “Voi due cercate di non ammazzarvi”.
“Non faccio promesse” borbottò l'altro, indicandogli un posto fortuito che si era appena liberato ed il cui l’esecutore più grande si buttò incurante del senso di marcia. “Ma noi siamo meglio dei magi” fece “Noi sappiamo obbedire agli ordini”.
  
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