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Autore: Bellis    04/10/2009    1 recensioni
Il celebre investigatore di Baker Street si trova alle prese con un mistero che lo trascinerà nel profondo di torbide acque, un abisso che affonda le sue radici negli oscuri eventi del suo passato. Riuscirà Watson a far luce su un enigma che coinvolge tanto gravemente lo stesso suo amico? Come potrà Mycroft Holmes essere d'aiuto?
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ehilà, Bebbe5, tu puoi recensire quando e come vuoi, lo sai che le fanfiction aspettano :D E comunque no, non era mia intenzione provocare a te o ad altri fenomeni di ansietà a livello patologico, e ci mancherebbe, vero? *Bellis ha una tale aria di colpevolezza che non riuscirebbe a ingannare nemmeno Lestrade*
*Ahem*, dicevo. Speriamo che Watson sia riuscito a saltarci fuori, povero impavido Dottore! E povero Holmes: la sua è una vera e propria corsa contro il tempo!
Avrei una cortesia da chiederti. Questo capitolo è abbastanza lungo e contiene una scena cosiddetta d'azione, di quelle nella costruzione delle quali sono ancora notevolmente inesperta. Perciò vorrei chiederti, se possibile, di essere particolarmente puntigliosa e criticosa nella lettura. :P

Adesso la smetto con le chiacchiere, e tuffiamoci nel...

Capitolo VIII - Sull'orlo del baratro
[continuazione dei resoconti personali di John H. Watson, MD]


Lasciai che il mio sguardo indugiasse sull'arma puntata verso di me, prima di sollevarlo rapidamente verso il volto dell'uomo che si ergeva di fronte alla mia persona. Ero in trappola: lo stradello sinuoso che si snodava lungo la scarpata non mi poteva fornire alcuna via di fuga. A meno di due metri da me, Jonas Wright impugnava il suo revolver, saldamente, e dietro di me solo una bassa inferriata separava il viottolo stretto da una caduta a precipizio di quasi venti metri.

La collina stagliava la sua ombra su di noi, cacciatore e preda, oscurando la luce solare quasi completamente, e contribuendo a quel senso di precarietà e buio che stava attaccando le più intime fondamenta del mio spirito.

"Se farà fuoco contro di me, signore, perderà ogni speranza di far sembrare la mia dipartita un semplice incidente." puntualizzai, lucido come non mai, in quel peculiare frangente: una sensazione che mi ricordò le catastrofiche circostanze della guerra, nelle quali, incredibilmente, il cervello umano sembrava mutare l'agitazione più profonda nella chiarezza più completa.

Wright sogghignò. "La gente crede alle cose più strane, dottore. Le basti riflettere sugli eventi dei giorni scorsi: chi avrebbe mai pensato che la reputazione del grande Sherlock Holmes potesse essere infangata con tanta facilità? Eppure è accaduto."

Sentii la familiare morsa dell'indignazione stringersi sul mio petto, "Lei si sopravvaluta. E' riuscito a giocare le forze di polizia abbastanza a lungo da far arrestare Holmes: ma non si illuda. Ben pochi hanno creduto alla sua colpevolezza. Anche la signora Berning, come lei ben sa, nutre seri dubbi in proposito." cercai di abbozzare un sorriso ironico, ma ero - e rimango - privo di qualsiasi talento in questo campo, peculiarità che appartiene invece al mio amico detective, "E' riuscito a ingannarla, Wright, ma solo a metà."

L'uomo rise, un suono gracchiante che mi fece rabbrividire interiormente.
"Giacchè è stato tanto intelligente da giungere a questo punto, le confiderò che non l'ho mai ingannata. Louise Berning è stata sempre al corrente di tutto. Ma... vedo che l'ho sorpresa." mi canzonò perfidamente.

Avevo in effetti percepito ogni traccia del poco colore che tingeva il mio volto svanire all'istante e lasciar posto al bianco di un'allibita espressione di stupore. Scossi il capo, cercando di snebbiarmi la mente, e riportai gli occhi, più duramente che mai, sulla figura bassa e sullo sguardo vacuo dell'omicida in balìa del quale mi trovavo. Ma non potei pensare, non riuscii a riflettere: ero troppo preso dal pericolo attuale, per addentrarmi nel circuito chiuso di profonde elucubrazioni di carattere deduttivo. In effetti, normalmente avrei lasciato quest'attività alla brillante capacità di Sherlock Holmes: in quel momento, poi, le mie facoltà di ragionamento erano state definitivamente spodestate dal nuovo dominio dell'istinto.

"Devo ammettere, però, " continuò lui, con una nota di gelida indifferenza nella falsa affabilità di quei modi, "che lei ha ragione. Un colpo di pistola raramente viene esploso per sbaglio."

Mi costrinsi a respirare normalmente: il mio autocontrollo stava iniziando a risentire di quella sfiancante attesa.

"Un passo indietro, per cortesia, dottore."

Il tono conteneva una innegabile sfumatura di minaccia, che però non ebbe alcun effetto su di me, se non quello di rafforzare l'ira che mi ribolliva nelle viscere.
"Nossignore!" sbottai, con veemenza. Potevo trovarmi in un vicolo cieco: ma non avevo alcuna intenzione di collaborare.

Wright si mosse in avanti. "Le consiglio di non opporre resistenza: servirebbe solamente a rendere tutto più doloroso e difficile."

Ormai, l'uomo era a meno di due metri da me. Non v'era molto spazio, sulla stradicciola sterrata, ed io non indietreggiai. Avevo compreso come l'assassino sperasse di portarmi a cadere oltre la balaustrata, che era bassa e di poco aiuto per chi si fosse sporto anche leggermente.
Il sedicente amministratore prese la mira, facendo coincidere la canna della sua arma con una linea invisibile che conduceva direttamente al mio cuore. In quello stesso secondo, il mio istinto prese il sopravvento, ed agii quasi senza rendermene conto.

Avevo annullato la distanza che mi separava da Wright, ed avevo afferrato il suo polso destro, deviando la direzione della rivoltella verso l'esterno. Uno sparo colmò la valle sottostante della sua eco secca e schioccante, mentre la pallottola si conficcava nel terreno a pochi metri da noi.

Ci trovammo entrambi a lottare per la nostra vita, perchè l'omicida aveva compreso che quel rumore presto avrebbe attirato l'attenzione di chiunque si trovasse nelle vicinanze, e la sua sola speranza era la fuga. In quanto a me, la pistola si trovava ancora nelle mani di colui che non avrebbe esitato un istante ad uccidermi, così come aveva eliminato Hamish Berning: ed egli stava premendo sul cane per caricare in canna un secondo colpo.

Sentii la ringhiera collidere con la mia schiena, mentre il mio avversario mi spingeva furiosamente, cercando di sottrarsi alla mia presa, e tentando disperatamente di liberare il braccio dalla stretta col quale lo bloccavo. Con uno scatto battei violentemente il suo arto contro il metallo, e il proiettile partì, spaventando la fauna e facendomi sobbalzare. L'arma cadde rumorosamente a terra.

Infine, senza preavviso, sentii con orrore il suolo mancarmi da sotto i piedi. Fu un attimo di completo stordimento, ed il respiro mi mancò. Avvertii il freddo contatto della balaustrata bassa sulle vertebre, notai quel maligno ed improvviso lampo di malvagità nel volto del perfido Wright, e caddi.

Stavo precipitando nel vuoto, con oltre quindici metri d'aria sotto di me, prima di raggiungere il duro e solido terreno. D'istinto, afferrai con entrambe le mani il risvolto della giacca marrone che mi stava di fronte, e un singulto soffocato si unì al mio: entrambi scivolammo lungo la rete metallica di protezione, verso l'orlo della parete franosa.

Le mie dita graffiarono le barre metalliche, sfiorandone i bordi affilati, e, meccanicamente, artigliarono la serie più bassa di asticelle ferrose che costituivano quella debole rete. Uno strappo terribile alla spalla sinistra trasformò il mio arto in un fulcro di puro dolore, ed annaspai, allungando la mano destra e sostenendomi infine a quel precario appiglio, le gambe che penzolavano nel vuoto, il mio peso morto affidato solamente alla poca forza delle braccia.

Un grido sfuggì alle mia labbra, quando sentii che un ulteriore peso si aggiungeva a quello del mio corpo, quello di Jonas Wright, che si era aggrappato alla mia gamba destra con furia, come un naufrago al salvagente. Spostai sulla sua persona lo sguardo terrorizzato - a onor del vero, non posso dire altro sulla mia condizione mentale di quel preciso momento - e vidi che la sua presa stava slittando sulla pelle lucida.

Non mi sono mai definito un vigliacco. Ma quando vidi le sue dita deboli lasciare il mio stivale, non feci nulla per aiutarlo. Probabilmente, se avessi tentato qualsiasi cosa, i nostri corpi sarebbero stati trovati insieme in fondo all'abisso. Tuttavia, ciò non allevia il peso che grava tuttora sulla mia coscienza, quando ripenso a quegli occhi, persi nell'orrore della disperazione e dell'improvvisa consapevolezza che la sua vita stava per spegnersi tanto brutalmente.

Ansimando per lo sforzo, e serrando la mascella nell'istintiva agitazione, seguii la sua caduta, sino a che la sua figura, con un urlo straziante, non fu che una sagoma scura sul fondo della scarpata.

"Watson!"

Avrei sobbalzato, se le mie forze non fossero state già ad un livello critico, e fossi totalmente incapace di qualsiasi azione che non consistesse nel rimanere il più possibile immobile, le dita convulsamente strette a quella rete, i polsi che dolevano per la sollecitazione eccessiva.

Era la voce di Sherlock Holmes. O almeno, lo sembrava. Non avrei potuto giurarlo, poichè era stranamente acuta, come permeata da una subitanea paura, e compresa di puro panico.
Mi dissi che non poteva essere il mio amico, giacchè egli era e sarebbe sempre rimasto il vero padrone dei suoi sentimenti, ed una tale manifestazione non gli apparteneva; ma a quel punto iniziai ad avvertire un ronzìo sommesso nelle orecchie, e mi costrinsi a focalizzare lo sguardo verso l'alto.

"Watson!"

Esclamò ancora Holmes - perchè, oltre ogni ragionevole dubbio, era Holmes, e per un istante solo l'eco della mia voce, che gridava sovrastando il rombo della cascata Reichenbach, mi rimbombò nella mente. Deglutii.

Notai un volto magro ed affilato che si sporgeva, di scatto, oltre la balaustrata.
Non potei rispondere al suo richiamo: non avevo fiato per farlo.

Un paio di occhi grigi, lucenti e cupi nel rosso schermato del pomeriggio, scrutarono freneticamente la roccia circostante la scarpata, fissandosi quasi immediatamente sulla mia persona.

"Mycroft! Una lanterna, qui!" ordinò Holmes, allungando un braccio magro nella mia direzione.

Senza esitazione alcuna, aveva scavalcato la ringhiera metallica e rugginosa, appoggiando cautamente i piedi sulla cornice di roccia friabile, come cercando un appiglio solido. Afferrò con la mancina la barra metallica più bassa, tra quelle che componevano il grezzo parapetto, e mi porse la destra. Alternai tra il suo volto sbiancato e la sua mano ossuta lo sguardo diffidente. Era come se la mia voce fosse paralizzata. Mi resi conto di aver perso completamente il controllo, e scossi il capo violentemente, serrando con forza le palpebre, per un solo attimo, in un patetico tentativo di arginare la piena del panico che sgorgava a fiotti dal mio inconscio atterrito.

La mia mente registrò marginalmente i lineamenti appuntiti dell'ispettore Lestrade che apparivano oltre la ringhiera rossastra.
"Per Giove!" mormorò solamente l'uomo, prima di allontanarsi, in fretta, chiamando a gran voce Arthur Derby e richiedendo una corda, e subito, per l'amor del Cielo.

"Watson." il tono serio del mio amico attirò nuovamente la mia completa attenzione, e notai come la sua mano destra fosse vicina alla mia sinistra. Non riuscivano a toccarsi, ma quella di Holmes era a pochi centimetri - nemmeno dieci - da me.
"Lasci andare la rete e afferri la mia mano, Watson." ordinò, con una nota di comando che non potei ignorare completamente.

Una luce baluginò a pochi metri più in alto. Mycroft Holmes aveva acceso una lanterna, di quelle che i minatori usavano per scendere la serpentina di curve lungo il profilo della collina e per addentrarsi nella miniera, una volta raggiunta la valle; posizionò l'oggetto convenientemente appena oltre il parapetto, ed ora l'orrenda altezza alla quale mi trovavo era era chiaramente percepibile. Sentii che i battiti del mio cuore acceleravano, e quasi soffocai nel trarre un respiro che non riuscì ad essere liberatorio.

"Watson. Afferri la mia mano. Adesso, amico mio." ripetè la voce quieta e stabile dell'investigatore, pazientemente, con una gentilezza che di rado gli avevo sentito usare.

Il mio sguardo impaurito saettò freneticamente dalle mie mani, rosse e graffiate, a quella che Holmes mi tendeva, al suo volto, teso e talmente pallido da risplendere nella penombra come il fosforo, alle fattezze preoccupate di Mycroft, che si stava faticosamente chinando accanto al fratello.

La ringhiera cigolò sinistramente, ed un brivido mi percorse.
"N-Non ci reggerà entrambi, H-Holmes." balbettai, in un sibilo di puro terrore.

"Sì invece. Sì, che ci reggerà. Avanti, vecchio mio." cantilenò immediatamente lui, incoraggiante, scuotendo la struttura ferrosa come a riprova delle sue affermazioni, ed accennando, come potè, un sorriso biancastro.

Vidi che il più vecchio dei due Holmes afferrava con entrambe le proprie mani il braccio sinistro del più giovane, e compresi all'istante cosa essi intendevano fare. Si scambiarono un'occhiata d'intesa, e capii che Sherlock intendeva sporgersi maggiormente oltre l'orlo del precipizio, allo scopo di annullare la distanza che - seppur breve - ci separava.

Avevano già realizzato quello che io iniziai a sentire solo in quel momento, quando l'adrenalina nel mio corpo era sul punto di terminare il suo ruolo di catalizzatore. Le mie mani stavano cedendo, e la mia spalla sinistra pulsava dolorosamente, strappandomi un singulto ad ogni insopportabile fitta.

Mycroft, appoggiandosi alla balaustrata con le spalle, saldamente ancorato, avrebbe sostenuto la massa del fratello e la mia, quando Holmes fosse riuscito a raggiungermi.

Era una follìa - quel vecchio cencio aveva almeno vent'anni, e si sarebbe certamente frantumato, sotto il peso di tre uomini - se il peso di Mycroft poteva essere considerato come quello di un solo uomo, ovviamente. Dischiusi le labbra per dire qualcosa - non potevo permettere che una tale pazzìa venisse consumata di fronte ai miei occhi. Non potevo permettere che Holmes precipitasse insieme a me nel baratro.

Semplicemente non potevo vederlo succedere ancora una volta, dopo le innumerevoli notti durante le quali, in scenari onirici di incubo, avevo assistito impotente alla terribile morte del mio amico.

I due fratelli stavano per attuare il loro altruistico piano, quando, senza riflettere e senza pensare, distaccai la sinistra dal mio precario appiglio, e con uno sforzo di determinazione la sporsi ad afferrare, più o meno saldamente, il polso destro del detective. La mia presa perse immediatamente forza, ma le dita ghiacciate del mio amico si chiusero intorno al mio avambraccio, sostenendo il mio peso completamente.

Sbattei le palpebre, ansimando leggermente, e sollevai lo sguardo verso il volto di Holmes. Fui sorpreso nel vedere una strana luce lampeggiare nei suoi occhi - un accenno di puro orgoglio.
"Eccellente, Watson." affermò, con quella nota di calore nel tono che avevo potuto udire solamente nei rari casi in cui egli giudicava positivamente un incarico da me portato a termine.

Ho già avuto occasione di rimarcare, all'interno dei miei brevi resoconti, come, a dispetto della sua corporatura magra ed esile, il mio amico Holmes possieda una grande forza, di natura essenzialmente nervosa, tale è il potere della sua mente sul corpo. Innumerevoli volte ho notato come i suoi nervi possano diventare d'acciaio, per compiere sovrumani sforzi di carattere psichico o fisico.

In quel momento, egli aveva evidentemente tutta l'intenzione di riportarmi al di là di quella ringhiera, perchè, coi lineamenti del volto spasmodicamente tirati nella concentrazione, iniziò a sollevare il mio peso inerte, afferrando convulsamente la ringhiera con la sinistra ed il mio polso con la destra. Dopo un attimo di puro sbalordimento - giacchè, lo confesso, avevo perso ogni speranza di poter sfuggire allo stesso destino di Wright - pensai di poter cooperare, e feci forza sulla rete di sicurezza col mio braccio destro.

Guadagnavamo centimetro dopo centimetro, con una lentezza esasperante che minacciava di far tremare le mie labbra, se non le avessi tenute strette in una sobria linea di determinazione. Potevo sentire le gocce di sudore farsi strada oltre il colletto della camicia, appena sopra il nodo della cravatta. Il polso sinistro doleva tremendamente, dove Holmes lo teneva serrato nella sua morsa di ferro.

"No, ispettore!" udii, in un sussurro affrettato, la voce di Mycroft Holmes. Il mio sguardo saettò sulla sagoma di Lestrade, che pareva volersi sporgere anch'egli nel tentativo di portare ausilio in qualche modo.

Il viso da furetto dello Yarder si era corrugato in una smorfia interrogativa, ma la domanda inespressa trovò la sua naturale risposta nel cigolìo minaccioso della ringhiera, la cui struttura metallica stava, pian piano, scardinandosi.

Holmes annaspò, mentre le palpebre si dilatavano a quel subitaneo segnale di pericolo, ed il fratello maggiore stringeva le sue dita grassocce e tozze intorno all'avambraccio magro.

A quel punto, tuttavia, eravamo piuttosto vicini alla conclusione di quella terrificante vicenda. Mi resi conto che le mie ginocchia erano ormai al livello della rete metallica di protezione. Slanciai la gamba destra verso l'alto, tentando di trovare un appiglio, e, dopo essere sdrucciolato più volte sulla friabile terra rocciosa, sentii uno spuntone acuminato bloccare il mio tallone.

La mia effettiva possibilità di fare qualcosa per tentar di evitare il peggio mi permise di riacquistare un certo controllo sulle mie emozioni, acquietando il battito pazzo e rapido del mio cuore, regolarizzando il respiro, mentre devotamente pregavo che le barre arrugginite non cedessero proprio in quel delicato momento. Piegai il ginocchio, imponendomi di alleviare il mio amico di parte del mio peso, e stringendo i denti quando le giunture ammaccate dalla precedente colluttazione protestarono violentemente. La mia mano destra si distaccò dalla rete ed artigliò uno dei vetusti picchetti che fungevano da fermi.

"Calma, Watson, calma." intervenne pacatamente Sherlock Holmes, vedendo le dita scivolare sulla superficie oleosa. "Non c'è fretta..."

Sarei scoppiato a ridere istericamente o avrei ribattuto in qualche modo, credo, se non fosse stato per il respiro ancora piuttosto convulso, ed il fatto che la vista di quella profonda scarpata, pronta ad accogliermi in un vertiginoso volo, mi aveva privato delle mie normali abilità di letterato e parlatore. Mi limitai a lanciare un'occhiata al mio amico, che dovette essere significativa, perchè l'uomo sollevò le sopracciglia, seppur teso e vibrante nello sforzo di sostenermi.

Ormai ero in grado di portare anche la gamba sinistra sulla cornice di roccia che separava la balaustrata dal precipizio, e lo feci, piuttosto lentamente: ero esausto. Non appena mi raddrizzai sulle ginocchia, e sollevai la mano libera verso la ringhiera, trovai - con mia gran sorpresa - James Berning pronto ad afferrarla. Il ragazzo mi osservava intensamente, e mi trascinò in fretta oltre il basso parapetto.

Holmes aveva scavalcato le sbarre all'unisono con me, e si piegò per qualche momento, ricomponendosi e risollevando al gruppetto uno sguardo decisamente più tranquillo e rilassato di quanto non lo avessi visto prima, mentre tentava di convincermi a lasciar andare quella rete. Il fratello maggiore, cupo e serio in volto, lo squadrava con evidente sollievo.

Non appena recuperato un barlume del suo abituale contegno, il mio amico mi poggiò una mano sulla spalla, alternando i suoi occhi acuti dall'orlo del baratro al mio volto, come a volersi assicurare che io fossi veramente lì, non disteso sul terreno melmoso venti metri più in basso; era ancora parzialmente posseduto dall'amaro incantesimo che, come spesso capitava in casi del genere, attirava morbosamente l'attenzione del sopravvissuto verso la catastrofe scampata.

Borbottai qualche parola di ringraziamento all'indirizzo di Berning e Lestrade, traendo qualche respiro profondo e calmandomi.
"Sto bene." risposi all'occhiata più che alle parole di Holmes, e sentii le sue dita contrarsi sul mio braccio mentre indicavo, con il dito indice ancora tremante, il corpo di Wright, parecchi metri più in basso.

Lestrade, accortosi solo in quel momento della presenza di quel macabro segnale di sventura, imprecò sottovoce ed iniziò a scendere rapidamente il sentiero piuttosto ripido, seguito a ruota da Berning e da un balbettante Derby. Io mi mossi per seguirli.

"Watson?" il tono del detective, ora pervaso dall'abituale stridente nota di cinismo, e tuttavia intriso di una evidente vena di preoccupazione, mi spinse a fermarmi.

Evitai il suo sguardo, "Se fosse ancora vivo, Holmes, sarebbe mio dovere soccorrerlo."

Il mio amico non disse nulla, e si limitò ad affiancarmi, mentre Mycroft sbuffava e borbottava tra sè a qualche passo di distanza. Raggiungemmo in silenzio la spianata che prima, dall'altezza, mi era sembrata molto più vasta e buia. Jonas Wright giaceva proprio dinanzi all'entrata della miniera abbandonata, con i puntelli in legno ed alcuni attrezzi sparsi intorno, lasciati lì dagli operai che avevano concluso il turno di lavoro per non ritornare più.

Mi chinai sulla figura esanime del mio assalitore, e repressi un brivido, nel notare la strana angolazione degli arti e quell'espressione solitamente vuota, eppure congelata per l'eternità, nella mia mente, in una smorfia di puro terrore, che mi avrebbe perseguitato nei miei incubi anche a distanza di anni.

Scossi il capo, e questo fu sufficiente perchè il maniscalco iniziasse a mormorare di improvvise sciaugure piombate sulla onorevole dimora dei suoi padroni, e così via.

"Dottore, " esordì Holmes, quando ci fummo allontanati, ignorando quel rumore di fondo, "abbiamo udito due spari, dalla villa."

Annuii, "Nella colluttazione sono stati esplosi due colpi dall'arma di Wright. Nessuna delle due pallottole è andata a segno. La rivoltella è caduta... " sentii la mia fronte corrugarsi, mentre cercavo di ricordare con precisione quegli attimi così brevi, "... nei pressi dalla balaustrata."

Seguì un momento di silenzio, rotto solamente dalla voce bassa e seria di Mycroft, "Non poteva agire diversamente, dottore." commentò piano, e stranamente la sua affermazione, coadiuvata dallo sguardo affermativo e sollevato del mio amico, mise a tacere la voce del rimorso in un batter d'occhio.

Tuttavia, James Berning la pensava diversamente.
"Signori, " esordì, il tono ancora altero, sebbene lo sbalordimento fosse evidente nel suo viso giovane, "Non so quali prove abbiate raccolto contro Jonas Wright, e non so quali teorie abbiate formulato, nei vostri uffici cittadini. Ciò che io riesco a vedere è che mio padre ed il suo collaboratore di fiducia sono stati uccisi, e che costoro ne sono gli assassini!" e con un cenno secco del capo indicò me e Holmes.

"Da un punto di vista filosofico potrei darle ragione, Berning." replicò amabilmente il mio amico, anche se il suo pallore stava assumendo una subliminale sfumatura di colore, "Se avessi prestato più attenzione alle parole di suo padre, se avessi lavorato per scoprire quale forza terrena potesse renderlo così angosciato - perchè quando gli parlai, era in preda alla paura - forse ora sarebbe ancora vivo." esplicò, con una rapidità tale che quasi faticai a seguirlo.
"E tecnicamente, in effetti, Watson può essere considerato l'assassino di Jonas Wright - anche se certamente non il responsabile della sua morte, dato che ha agito per legittima difesa."

"Questo è da vedere, signor detective." fece, cocciutamente, il giovanotto.

Holmes si rivolse a me, squadrandomi con attenzione, "Vorrebbe consegnare la sua arma d'ordinanza all'ispettore Lestrade, così potrà constatare che essa non è stata utilizzata negli ultimi quindici giorni? Ecco così, lentamente, o il signor Berning potrebbe preoccuparsi. Bene."

In effetti, mentre estraevo la mia pistola dalla tasca del soprabito, l'uomo si era visibilmente irrigidito, e mi aveva indirizzato un cipiglio tale da scoraggiare l'ostilità di chiunque. Lo Yarder esaminò l'oggetto e concordò con le affermazioni del mio amico.

"Chiedo solo, signor Berning, di poter ascoltare quel che sua madre vorrà dirci." concluse quello. Il suo sguardo e quello del giovane si incontrarono, e vidi crescente esitazione nelle movenze del ragazzo, che infine acconsentì.

Holmes aveva parlato con inusuale franchezza, spinto forse da un'istintiva repugnanza per il cumulo di bugie e di inganni e di falsità che costituiva quella rete criminosa che stava alle spalle di Berning e Wright, e che aveva intrappolato il suo stesso padre, parecchi anni indietro.
Non avevo osato chiedere al mio caro amico come fossero morti i suoi genitori: sapevo solamente che lui e Mycroft erano piuttosto giovani, quando il disastro era accaduto, e temevo che la loro dipartita fosse stata un'ulteriore conseguenza della torbida vicenda che li aveva - loro malgrado - coinvolti.

Certe ferite sono antiche, e ben sepolte nella memoria, ed è troppo doloroso riaprirle. La mia curiosità, per quanto ispirata da un desiderio di aiutare, non valeva una tale pena. Rimasi dunque nel più completo silenzio, mentre ci incamminavamo nuovamente verso Raven Hall.

Non potevo fare a meno di zoppicare vistosamente, dopo quella colluttazione che mi aveva prosciugato di ogni energia, e procedevo lentamente lungo il viottolo ripido. Holmes aveva rallentato al mio passo, e mi lanciava di tanto in tanto alcune brevi occhiate, imperscrutabile.

"Holmes." proruppi infine, abbassando lo sguardo, "Le devo delle scuse."

Per tutta risposta, egli si fermò, ed io seguii il suo esempio. Attesi invano le parole che non seguirono.

"So di averle disobbedito, e... " proseguii, profondamente imbarazzato, mantenendo gli occhi ostinatamente fissi sul fango che mi orlava le suole delle scarpe.

"... lei ha mancato alla sua parola, Watson." sentenziò Holmes, concludendo per me. Spiai il suo volto, e lo trovai insolitamente severo, duro. "Lei, un medico, un soldato... un leale e fedele suddito dell'Impero Britannico."

Mi irrigidii, istintivamente, come una recluta di fronte al comandante in capo. Non avevo mai udito tanta freddezza da parte del mio amico. Eppure, ogni singola parola da lui proferita era indicibilmente seria... e veritiera, purtroppo. Avevo deluso chiunque si fidasse di me.
Avevo perduto la sua fiducia.

Il lettore potrà faticare a credere che la mia mente fosse giunta a un tale livello di abbattimento, ma, in verità, il mio pensiero seguì proprio quella linea, e giunsi quasi a ritenere di aver commesso un crimine tanto grave quanto irreparabile.
Tale è il potere di convinzione che Sherlock Holmes mi dimostrò, con così poche e studiate frasi.

Tutto questo, però, avvenne prima che il mio amico mi stupisse ancora una volta, facendo un passo verso di me e posandomi una mano ferma sulla spalla destra.

"Non ho mai conosciuto una persona più pura e sincera di lei, amico mio. Eppure, come Mycroft mi ha raccontato, lei non ha esitato un istante, e ha iniziato ad... investigare... sul mio caso, richiedendo il suo aiuto con insistenza e perseveranza, nonostante gli ostacoli posti sul suo cammino dalla sua stessa coscienza, oltre che da forze esterne." il tono si era fatto più basso, quasi sommesso, tranne nell'unico istante in cui il detective aveva commentato con un'inconfondibile punta di ironia le mie investigazioni. I lineamenti si erano ammorbiditi, sul volto magro e affilato.
"Sono... onorato, Watson."

Ero in effetti sorpreso a tal punto che rimasi immobile, senza dubbio con una tale espressione in volto da strappare anche all'austero Sherlock Holmes un sorriso divertito.
Capii allora - deduzione elementare - che quel contegno severo era stato costruito ad arte dallo spirito di teatralità del mio amico, il quale voleva in qualche modo ripagarmi blandamente dell'inganno da me operato negli ultimi due giorni. Ricambiai malinconicamente il sorriso, con la voce della mia coscienza non del tutto appagata dai più recenti sviluppi, e cercando di ritrovare le mie capacità vocali da qualche parte, all'interno della mia mente confusa.
"Mi - mi dispiace, Holmes. Ma non potevo tirarmi da parte e lasciare che accadesse l'irreparabile." spiegai, sperando che le mie parole avessero una qualche sembianza di coerenza.

E stavo esprimendo la semplice verità. Sarei stato disposto a sacrificare la mia vita, per evitare a Holmes il pubblico disonore - o, nel caso più infausto, l'impiccagione sotto accusa di omicidio volontario: la fine di quell'amicizia che ci legava sarebbe stato un piccolo prezzo da pagare, per vedere il mio camerata salvo e libero da ogni accusa.
Prezzo che, in tutta sincerità, temevo - ma che ero disposto a pagare senza esitazione.

Sherlock Holmes scosse il capo lentamente, osservandomi con la più completa attenzione e quel sorrisetto che non riuscivo ad interpretare, nel suo viso magro ed imperscrutabile.
"Lei ritiene di aver perso la mia fiducia, Watson?" chiese, con una perspicacia che mi fece trasalire, e sollevare uno sguardo colpevole che, me ne rendo conto, mi conferì un'aria assolutamente comica. "Ebbene, amico mio, debbo notificarle che ancora una volta le sue deduzioni l'hanno allontanata notevolmente dalla verità."

Se mai fosse stato possibile esser lieto di un errore logico così grave - onestamente, in quel momento, io lo ero.


******************************

Note dell'Autrice
Oh, finalmente la situazione sembra essersi un po' risolta, che ne dici, Lettore?
Adesso vedremo cosa potrà dirci la signora Berning, e speriamo che grazie a lei i due Holmes possano fare un po' di luce sul mistero!
Cosa avrà voluto dire Wright, con quella sibillina affermazione? In che misura Louise Berning è coinvolta nei loschi affari che stanno compenetrando tutta Raven Hall?
E perchè mai James Berning risulta così sorpreso da questa notizia?
Alla fine lo saprai. Fidati.
:P
Grazie di aver letto: se sei arrivato fino qui, Lettore, i miei più vivi complimenti. E spero che questa fanfiction continui ad esserTi gradita :)


   
 
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