Videogiochi > Final Fantasy VII
Segui la storia  |       
Autore: BaschVR    05/10/2009    1 recensioni
La città, quella mattina, appariva vuota, silente, libera. Aveva nevicato per tutta la notte, e il bianco aveva ricoperto ogni cosa. Il pallido sole invernale era sorto, eppure Midgar era rimasta dormiente. Tutto appariva ovattato in quell’onirica visione, quasi irreale. L’unico rumore che Tseng sentiva era il tonfo dei suoi passi sulla neve. Era un rumore leggero, quasi impercettibile, eppure era l’unico che probabilmente la città stesse udendo. Un rumore ritmico e costante.
Dedicata a tutti coloro che amano questo pairing e, naturalmente, alla nostra inimitabile Zia Polly.
2^ classificata allo Tserith Contest indetto da Valy_Chan
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Altro Personaggio, Reno, Tseng
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo III
 
Quando Aerith si svegliò, la mattina dopo, provava ancora quel misto di tranquillità ed inquietudine che la pervadeva dall’incontro con Tseng. Parlare con lui era sempre stato strano. Lo sentiva scostante, a volte vicino, altre volte distante. Non era un tipo molto loquace, teneva tutto dentro di sé.
In effetti, Aerith non sapeva quasi nulla del ragazzo che da ormai quattro anni circa la visitava quasi giornalmente, se non il minimo indispensabile che lui stesso le aveva rivelato nel corso di quel tempo, in alcune sporadiche occasioni. Sapeva che era un Turk di professione, e che i suoi superiori l’avevano mandato a vigilare su di lei. Nient’altro. Che strano, però. Tseng stava sempre ad ascoltare ciò che lei gli narrava, anche per ore intere, senza mai annoiarsi, ma non parlava mai di sé. Ad Aerith non sarebbe dispiaciuto sapere qualcosa in più sul suo conto.
Fu questo desiderio che la spinse, durante la mattinata di quella splendente giornata di sole, a prendere parola su un discorso che ben presto avrebbe preso una piega inusuale.
Tseng era arrivato da poco, ed entrambi riposavano con la schiena poggiata sul polveroso parquet della chiesa.
Aerith si mise seduta e lo osservò, mentre quest’ultimo volgeva il proprio sguardo al cielo che si intravedeva da un buco sul tetto dell’edificio.
“Così ti impolvererai tutta la giacca!” rise Aerith, additandolo. “Sai, spazzare il pavimento non è il mio passatempo preferito!”
Tseng ricambiò il suo sguardo, alzando il busto e sedendosi a sua volta davanti a lei. “Fa niente, posso sempre lavarla!”
Aerith continuò a sorridere, mentre osservava i rigogliosi fiori, ormai sbocciati in tutto il loro splendore. “Giusto” assentì poi, avvicinandosi ad un paio di margherite gialle e carezzandone gli steli e la delicata corolla.
“Come mai così di buon umore?” chiese Tseng, mentre la osservava dare un po’ d’acqua alle margherite e ad un gruppo di tulipani lì vicino.
“E’ una bella giornata” esclamò Aerith voltandosi verso di lui. “L’estate è ormai alle porte… chissà che questa non sia la volta buona per lasciare definitivamente Midgar! Quanto mi piacerebbe viaggiare per il mondo, vedere nuovi luoghi…”
“Sai che io ti seguirei comunque” rispose Tseng.
“Si, immagino che la ShinRa ti ordinerebbe di non perdermi di vista nemmeno per un momento…” rifletté Aerith, facendosi seria. “Ma sai una cosa? Non me ne importerebbe nulla, purché sia tu ad accompagnarmi!”
La ragazza abbassò gli occhi, imbarazzata da ciò che le era sfuggito dalla bocca. Tseng si ridistese sul pavimento, osservando qualche frammento isolato di cielo azzurro che si intravedeva oltre le travi in legno della chiesa.
“Tseng, posso chiederti una cosa?” sussurrò dopo un po’ la ragazza, distendendosi di fianco a lui.
Lui annuì, senza staccare gli occhi dal tetto della chiesa. Aerith si fece coraggio.
“Ti andrebbe di raccontarmi qualcosa su di te?” chiese, tutto d’un fiato, aspettando una qualunque reazione.
Tseng si voltò a fissarla, con un’espressione interrogativa negli occhi. “Perché?” domandò.
Aerith ci mise un po’ per rispondere, come se stesse scegliendo le parole più adatte per addentrarsi in quell’ispido discorso. “Non c’è un perché…” cominciò, esitante. “E’ solo che… ti conosco ormai da tanto tempo, ed ho notato di sapere poco sul tuo conto… ma se non vuoi, io non…” si affrettò ad aggiungere poi, non volendolo forzare a rivelare cose che non voleva.
“No” rispose Tseng, interrompendola. “Tranquilla! E’ vero, in effetti non parlo molto di me…”
le sue labbra si incresparono in un sorriso. “Però è giusto che tu sappia almeno qualcosa! Cosa vorresti sapere?”
Aerith si alzò in piedi, e percorse a grandi passi la navata della chiesa. “Dimmelo tu” rispose con un sorriso.
“Beh…” cominciò lui, indeciso. Non poteva dire ad Aerith nulla di davvero importante sul suo passato, non avrebbe potuto svelarle la verità. Sarebbe stata la cosa giusta da fare, forse, ma non avrebbe potuto sopportare di perderla. Scosse la testa, per allontanare quelle sdolcinatezze. Quattro anni prima si sarebbe odiato per aver anche solo considerato di pensare qualcosa del genere. Com’era cambiato…
Alla fine, decise di raccontare una parte della verità, gettando in ombra quello che non voleva farle sapere. Cominciò dal principio, narrando della sua infanzia in quell’orfanotrofio squallido e cupo dagli alti cancelli invalicabili, e di come gli altri bambini lo ignorassero. Parlò di come la sua vita fosse cambiata il giorno in cui un uomo avvolto in un mantello nero lo aveva portato via da quella prigione e in cui aveva capito qual era il suo destino. Diventare un Turk. Narrò del duro addestramento della ShinRa, e di come alla fine era diventato uno dei migliori agenti della Corporazione in appena pochi anni.
“Caspita!” esclamò Aerith, non appena Tseng ebbe terminato la sua lunga storia. “Ed io, mentre tu viaggiavi per il mondo risolvendo conflitti internazionali, sono rimasta sempre qui, a Midgar!”
“Beh, ormai è da tempo che non mi viene più affidata nessuna missione in giro per il mondo” rispose Tseng. Non stava mentendo, perché essendo stato licenziato, ovviamente non poteva certo avere nuove missioni di nessun genere, né tantomeno che richiedessero un intervento all’estero. “Però credo di aver imparato a conoscere il nostro pianeta quanto basta, in questi anni!”
I grandi occhi di Aerith si illuminarono. “Davvero?” chiese, immaginando terre lontane da Midgar, deserti solitari, grandi foreste e sperduti villaggi posti in cima a montagne scoscese. Come sarebbe stato bello poter visitare tutti quei luoghi!
“Davvero” rispose Tseng, accennando appena un sorriso davanti alla sua meraviglia.
“E quindi sai tutto su ogni luogo di questo pianeta?”
“Beh, tutto è una parola grossa! Ci sono molti luoghi che non ho mai visto, ma in generale so abbastanza sui posti che ho visitato” rispose Tseng con semplicità, alzandosi da terra e osservando i gargoyle in pietra che adornavano i capitelli delle colonne poste agli angoli dell’edificio.
“E dimmi, è vero che c’è un serpentone gigante nelle paludi vicino Kalm Town?” chiese Aerith sempre più affascinata e curiosa.
Tseng si voltò ad osservarla, con un espressione interrogativa dipinta sul volto. Aerith era davvero una strana ragazza, a volte. Per la prima volta da tanto tempo un vero sorriso gli attraversò il volto. Il suono della sua risata appariva simile ad colpo di tosse, roco, come se si fosse arrugginito con il passare del tempo. In effetti, erano passati anni dall’ultima volta che aveva riso.
“Sono così stupida?” domandò Aerith, fingendosi offesa dal suo comportamento.
“No, non è colpa tua!” rispose Tseng, ancora con quel sorriso nostalgico stampato sul volto. “E’ solo che quella domanda mi ha fatto ricordare una persona che non vedo da tanto tempo…”
“Un vecchio amico?” chiese Aerith, avvicinandosi.
“Beh, si” rispose Tseng, “Un ragazzotto curioso, di nome Reno. Mi faceva sempre le domande più disparate, e si aspettava che io avessi la risposta a tutto ciò che mi chiedeva! Ricordo che non la smetteva mai di parlare, neanche nei momenti più critici, e che io avevo sempre una gran voglia di tappargli quella bocca! Eppure, adesso non mi dispiacerebbe rivederlo… chissà che cosa starà combinando…”
“Sembra un ragazzo simpatico!” constatò Aerith, mentre lo fissava.
“Già. Ti sarebbe piaciuto”.
Silenzio, forse un velo di imbarazzo appena percettibile attraverso l’atmosfera vibrante che si era creta durante quella conversazione. Un paio di api ronzavano intorno ai variopinti fiori al centro della chiesa. Aerith vi si avvicinò, ed osservò gli operosi insetti posarsi sulla corolla dei fiori per poi sparire all’interno del calice, alla ricerca del nettare.
“Dici che dovrei venderli?” chiese poi, cogliendo una rosa bianca.
“Come?”
“I fiori, intendo” specificò Aerith, indicando la rosa che teneva tra le mani.
“Ah…”
Tseng ci pensò un po’ su. “Perché no? Qui a Midgar non se ne vedono molti, in effetti”.
Aerith scosse la testa. “Neanche uno, qui nei Bassifondi! Da quel che ne so, io sono l’unica a coltivarne... potrei raccogliere abbastanza denaro per andarmene da qui! Non che il denaro sia l’unica motivazione, ovvio!” si affrettò ad aggiungere, per evitare malintesi. “In verità mi piacerebbe vedere questi luoghi un po’ più... variopinti! Il grigio è un colore così squallido!”
“E poi guadagneresti un sacco di soldi!” si affrettò ad aggiungere Tseng con un sorriso sarcastico.
“D’accordo, anche quello è importante!” ribadì Aerith scoppiando a ridere.
Tseng le si avvicinò lentamente, di sua spontanea volontà o forse ammaliato dalla sua splendida risata cristallina, e si inginocchiò anche lui dinanzi al campo di fiori. La sentiva vicina, vicina come non mai, nemmeno il giorno precedente erano arrivati a stabilire quel sottile contatto che in quel momento li stava unendo. Tseng sapeva che questo legame era stato rafforzato dalle sue parole di poco prima, che avevano messo a posto un altro tassello di quel mosaico che era il loro rapporto. Un intreccio di amicizia, velata dal labile confine tra l’inganno e il malinteso, oscurata da ciò che Tseng le nascondeva.
Amicizia. Solo semplice e pura amicizia.
Forse.
Poi, un gioco di sguardi, timidi, pudichi, dapprima insicuri, ma che con il tempo si facevano sempre più languidi, densi di un sentimento nuovo per entrambi, e che Tseng aveva da sempre disprezzato. Le cose stavano cambiando, anzi, erano cambiate ormai da tempo. La cecità è un male che si presenta sotto varie forme e in diversi aspetti, raggirando continuamente l’uomo. Ma prima o poi le nebbie si diradano, e tutto viene compreso per ciò che è realmente.
In quell’illusione generata nel mattino di una giornata come tante, sia Tseng che Aerith capirono qualcosa dell’altro. Nulla di particolarmente rilevante, in verità; tutto quello che compresero era già, in un certo senso, nascosto dentro di loro.
“Grazie” sussurrò Aerith, abbassando lentamente lo sguardo.
“Di cosa?” chiese Tseng, incuriosito dall’affermazione dell’altra.
“Sei l’unico con cui riesco a parlare davvero…” commentò Aerith. “Ti ringrazio”.
Per pochi istanti che durarono quanto una vita, nessuno dei due parlò. Tseng perse il suo sguardo tra le sfumature vermiglie delle rose di Maggio, e allungò una mano, istintivamente, per accarezzarle. Al tatto parevano di velluto, leggere, quasi evanescenti. Lasciò che la mano accarezzasse per intero la corolla della rosa più rigogliosa ma al tempo stesso effimera, che presto sarebbe sfiorita. Anche lei, nella sua condizione d’instabilità, sembrava volerlo spingere a non sprecare quel momento che stava già per seguire il flusso del tempo ed aggiungersi alla catena dei ricordi che formano l’esistenza. Ritirò il braccio da quel giardino variopinto. E mentre il senso di colpa cresceva di pari passo con l’ansia, si ritrovò a sussurrare, con il viso di Aerith a pochi centimetri dal suo, un distratto: “Non c’è di che”.
Dio, il vecchio Tseng sarebbe nauseato da ciò che sto facendo, si ritrovò a pensare, in un momento che sembrò protrarsi all’infinito. Un attimo dopo, si disse che il vecchio Tseng era morto il giorno in cui aveva lasciato la ShinRa. Per la prima volta, percepì sulla sua stessa pelle il cambiamento.
Quando le due labbra si sfiorarono, Tseng seppe con certezza di essersi lasciato un pezzo del suo passato alle spalle. Con un nodo allo stomaco causato dall’agitazione, o dal senso di colpevolezza che lo attanagliava, alimentò il bacio per ancora qualche secondo.
Poi si separarono, lentamente. Tseng riaprì gli occhi, pur non ricordandosi di averli mai chiusi, ed osservò le guance di Aerith tingersi di un lieve colore rosato, simile a quello del cielo all’alba.
La ragazza si distese per terra, con lo sguardo rivolto verso l’alto, verso alcuni raggi solari che si insinuavano perpendicolarmente tra le travi in legno che sostenevano il tetto. Non sembrava avere intenzione di parlare, ma a Tseng non importava. Attraverso quel silenzio sentiva i sentimenti di Aerith permeare nell’aria, come se la sua dolcezza e la sua allegria rifulgessero di luce propria, rischiarando la stanza al pari del più splendente raggio di sole.
Si distese accanto a lei, ad osservare il polveroso e cadente tetto dell’edificio. Dove le travi avevano ceduto, era possibile ammirare il blu profondo del cielo, interrotto saltuariamente da qualche pallida nuvola passeggera.
Tseng si fece serio, mentre un turbine di pensieri contrastanti si facevano strada nella sua mente. Ecco, l’inganno adesso era completo. Sapeva che tutto era cambiato, che gli avvenimenti di quel giorno avevano svegliato qualcosa che attendeva, sopito, di poter emergere a galla: qualcosa di puro, che veniva insozzato dal suo silenzio. Se avesse detto quello che realmente era successo in quella fredda mattina d’Inverno, la cosa che avevano svegliato quel giorno sarebbe morta, paralizzata in un gelo che mai si sarebbe sciolto. Ne era sicuro, ed era impossibile, in effetti, che andasse in un modo diverso rispetto a quello che, tante volte, aveva immaginato nella sua testa. Aerith avrebbe forse detto che non era importante ciò che aveva fatto? Che non aveva intenzione di ucciderla quando aveva sparato? No. Era inutile cullarsi in illusioni del genere.
 Accanto a lei, in quel momento, c’era il mostro che le aveva rubato l’infanzia; e per quanto lui fosse cambiato, forse indebolito, per quanto un omicidio, pochi anni prima, non lo avrebbe minimamente scalfito, per quanto il tempo fosse passato e avesse portato inevitabili mutamenti, nulla le avrebbe impedito di odiarlo, disprezzarlo, allontanarlo. Nessuno l’avrebbe biasimata.
Il silenzio gli sembrò l’unica strada che potesse preservare l’illusione, quell’illusione di cui Aerith era il fulcro, e che lui applicava a forza sulla realtà, distorcendola.
 
 
 
 
 
 
Da quel giorno, non passò un momento che Tseng non trascorresse nella chiesa diroccata dei bassifondi di Midgar, insieme ad Aerith. La Primavera, giorno dopo giorno, cedette il posto all’Estate, e al profumo dei fiori della chiesa si sostituì quello della salsedine portato dalla brezza che soffiava sulle coste lì vicino.
La osservava mentre curava i fiori che, dopo la lussureggiante Primavera, adesso avevano bisogno di più attenzioni a causa della siccità della bella stagione. Gettava su di lei il suo sguardo mentre, poggiato con la schiena ad una colonna, i suoi pensieri vagavano indisturbati. Trascorrevano così, a volte, lunghe giornate, senza nemmeno parlare tra di loro, scambiando solamente qualche sguardo d’intesa, ogni tanto.
Altre volte, invece, nelle giornate in cui l’afa era appena sopportabile, si rintanavano entrambi nell’angolo più fresco della chiesa, lontano dalle alte vetrate da cui filtravano raggi di sole, per parlare. In verità, non è che lui parlasse molto. Preferiva ascoltare le parole di Aerith, i suoi racconti, ogni cosa di cui lei lo rendeva partecipe. Ogni tanto Tseng interveniva con qualche commento, o per chiedere un chiarimento su qualcosa. Gli piacevano quelle lunghe chiacchierate nella penombra degli afosi pomeriggi estivi: non era mai stato molto interessato ai contatti umani, prima di conoscerla. Li aveva creduti solo punti di debolezza, come tutte le altre esternazioni di sentimenti. Adesso, invece, aveva notato che era interessante stare ad ascoltare, anche per ore, i discorsi pieni di felicità ed ottimismo di Aerith. A volte quest’ultima gli domandava qualcosa, con gli occhi grandi e curiosi simili a quelli di una bambina che per la prima volta vede il mondo; gli chiedeva di narrargli delle terre inesplorate del Pianeta, se fosse vero che al Nord facesse così freddo o se, invece, ci fossero luoghi dove il sole splendeva per tutto l’anno; e lui sorrideva appena, increspando le labbra, e rispondeva alle domande, osservando divertito il genuino stupore di Aerith nel conoscere nuove cose sul mondo nel quale viveva.
Ogni giorno si affrontavano nuovi discorsi, nuove teorie su argomenti anche astratti che venivano argomentati mediante delle tesi più o meno esatte; ed ogni volta, entrambi imparavano qualcosa di nuovo, che offriva spunti per ciò di cui avrebbero parlato nel giorno successivo.
In verità, l’unico argomento di cui non facevano parola era proprio la loro storia, che andava ormai avanti da parecchie settimane. Forse per un leggero imbarazzo, forse perché non ce n’era bisogno, poiché il rapporto continuava a consolidarsi durante quegli incontri che ormai avvenivano giornalmente.
E così, mentre le giornate divenivano più secche con il passare del tempo, il loro rapporto andava sempre di più evolvendosi. Tseng parlava molto più spesso, e a volte l’aiutava nell’estirpare i fiori che erano ormai stati seccati dalla calura del clima estivo. Entrambi si sentivano coinvolti da quella relazione che si faceva sempre più intima, ad ogni attimo che trascorrevano insieme.
Fu così che, nel tepore estivo di una serata di fine Luglio, si ritrovarono ancora una volta con la schiena poggiata sul freddo e lucido marmo della colonna, alla flebile luce di alcune lampade ad olio che rischiaravano appena i loro visi.
Aerith si cingeva le gambe con le braccia, pensierosa, mentre Tseng, accanto, non parlava, immerso nella sua apatia, osservando alcune zanzare avvicinarsi alla lampada ad olio, attratte dall’aureo pallore di quest’ultima e dal suo calore.
“A cosa pensi?” chiese d’un tratto la ragazza, facendolo trasalire.
“A niente” si affrettò a rispondere lui, scostando lo sguardo dalla lampada assediata dagli insetti.
“Non puoi non pensare a niente!” esclamò Aerith, sorridendo. “E’ un controsenso!”
“Allora stavo riflettendo”
“E su cosa?”
“Niente di rilevante, te l’ho già detto!” rispose Tseng lanciandole un’occhiata divertita.
“Non mi nascondi qualcosa?” gli domandò Aerith, pizzicandolo in un braccio con una smorfia allegra.
Tseng si ritrovò a sorridere e a mentirle nuovamente, mentre il rogo del senso di colpa ardeva in lui. Si, le nascondeva qualcosa; e non poteva fare a meno di tormentarsi con questo pensiero, sapendo che prima o poi la verità sarebbe saltata fuori, e che tutto quello che adesso aveva – Aerith, quella vita nei bassifondi che, inizialmente odiata, in fondo non era male – sarebbe finito. E sapeva anche che Aerith, al di fuori di quella parentesi che andava ormai avanti da parecchi anni, l’avrebbe sicuramente odiato.
Non avrebbe mai finito di ripeterselo.
“No” sorrise il ragazzo. “E’ solo che... sono state giornate pesanti, all’ufficio Turk…”
Aerith non rispose. Si avvicinò ad una delle alte finestre, immersa nella penombra e nell’oscurità della notte. Non era molto tardi, in verità: potevano essere le nove, o forse, volendo esagerare, le dieci, ma il buio, in quella parte di Midgar, era sempre lo stesso, dal crepuscolo fino all’alba: uniforme e continuo, da sembrar quasi infinito, fuori da ogni margine di tempo e spazio.
Poi si voltò, avvicinandosi a lui che aveva chiuso gli occhi, per riflettere o semplicemente a causa della stanchezza.
“Immagino che in notti come questa i Turk siano sempre in agguato, in attesa di eventuali attacchi delle bande terroristiche di Midgar…” disse Aerith, indicando il nero oltre la finestra.
“Già” assentì Tseng, senza aver realmente ascoltato le parole della ragazza.
Aerith gli si avvicinò, lentamente, abbassandosi di fronte a lui, e sorrise. Era un sorriso tenero, di quelli che si fanno ai bambini timidi che, in presenza di estranei, non proferiscono parola, preferendo restare dietro le gonne delle loro madri.
“Sai che dovresti ridere di più?” scherzò, poggiando la propria testa sulla spalla del ragazzo.
Tseng fece una strana smorfia, a metà tra un sorrisetto e un espressione disgustata. “Non sei la prima persona che me lo dice”.
“Non avremo forse ragione a ripetertelo? Un sorriso fa bene all’anima, ricordatelo!”
Tseng strinse forte la ragazza, riflettendo sulle sue parole. Che bene poteva fare all’anima, si disse, un falso sorriso? La risposta la sapeva già, era stato stupido persino a formulare quella domanda.
I sorrisi di solito sono spontanei, contagiosi, e possono nascere da un qualsiasi avvenimento, da una qualunque sensazione: Aerith e Reno erano dei perfetti esempi di come si potesse fare dell’allegria il proprio stile di vita. Lui invece era diverso. Magari avrebbe anche voluto essere come loro, gonfiando il cuore di gioia per ogni piccolezza che la vita gli offriva, ma gli risultava impossibile. Era sempre stato insensibile a questo genere di cose. Ed anche se molte cose erano accadute, ed altrettante erano cambiate, non si può mutare di punto in bianco, non si può semplicemente svegliarsi una mattina e decidere di cambiare.
“Forse hai ragione” rispose lui, atono.
“Già, forse…” gli fece eco Aerith, divertita.
Entrambi rimasero in silenzio per qualche istante. La ragazza era assonnata e decise di chiudere gli occhi, ancora poggiata alla spalla di Tseng. Non dormiva, però; al contrario, sentiva ogni suono, ogni più piccolo rumore attorno a loro, e si aspettava che da un momento all’altro il ragazzo parlasse, e che spezzasse quel mutismo degli ultimi minuti.
“Aerith?” chiese infine, in tono incerto, Tseng, per controllare se dormisse.
“Mm?” rispose lei, rimanendo con gli occhi chiusi.
Tseng deglutì, trovando il coraggio per addentrarsi nel discorso che aveva deciso di intraprendere. “Vedi… io…”
Aerith aprì gli occhi, e lo osservò, curiosa. “Si?”
Non riusciva a trovare le parole giuste. Aprì la bocca e la richiuse, inebetito. Avrebbe voluto cominciare un discorso profondo su quanto lei significasse per lui, su come lo facesse sentire, sui nuovi sentimenti che stava provando, in quelle giornate screziate dai luminosi raggi solari estivi che irradiavano Midgar di luce. Avrebbe voluto parlarle, dirle che l’amava, che l’amava ormai da parecchio tempo, e che probabilmente quelle ultime settimane erano state le migliori della sua vita. Roba che, pochi anni prima, lo avrebbe semplicemente fatto vomitare.
Fu in quel momento che, spinto da un impulso selvaggio, nuovo per lui ma vecchio come il mondo, la attirò a sé e la baciò. Fu un lungo bacio, più sensuale e naturale rispetto ai precedenti; Aerith fu colta di sorpresa, ma capì quello che lui voleva dirle, senza bisogno di una parola. Rispose al bacio, come se stesse dando una risposta alle parole mai dette da Tseng, come se gli stesse dicendo che anche per lei era la stessa cosa, e che lui era speciale, e che era sempre stato il suo miglior amico, e non solo una guardia del corpo. Ringraziò di essere unica al mondo, di avere quei poteri che spingevano la ShinRa, causa di tutti i suoi mali ma, incredibilmente, anche di qualche bene, a proteggerla.
Le labbra erano ormai a stretto contatto; quel sentimento a cui Tseng non era riuscito a dare un nome, quella passione così travolgente, li aveva ormai fatti suoi succubi. Si separarono per un momento, poi riunirono le labbra, con più foga di prima. Tseng scese giù, lungo il collo, arrivando sul morbido incavo sul collo, mentre Aerith chiudeva gli occhi, ansimante. Ormai sapevano entrambi cosa sarebbe successo, e non fecero nulla per impedirlo.
Un altro lungo bacio, intervallato dai sospiri di entrambi. Le mani di Tseng accarezzarono le esili forme della ragazza, dall’addome, sfiorando il seno, fino al fianco e alla natica. Il ragazzo si sfilò la giacca e la cravatta dell’uniforme, gettandole a terra e sollevando uno sbuffo di polvere.
Quello che accadde in seguito, in realtà, non risultò chiaro a nessuno dei due; al mattino dopo, entrambi ricordavano solo un bailamme di sensazioni, di pensieri, sprazzi di memorie e sensazioni che si perdevano nel bianco dell’oblio, che forse era anche purezza.
Tseng ricordava di come fosse entrato in lei, ansante, e i suoi leggeri sospiri di piacere, ma che, forse, erano gemiti di dolore (era sicuro di averle fatto male). Ricordava di aver pensato come quell’atto stavolta fosse così diverso, rispetto alle altre volte in cui l’aveva fatto, forse perché era la prima volta che amava davvero qualcuno.
Stranamente, ricordava anche dettagli inutili, sensazioni del tutto prive di significato ma che gli erano rimaste impresse nella mente, come delle fotografie.  Ricordava di aver udito alcuni volatili sostare tra le travi della chiesa e poi riprendere il volo, non notando il trambusto che avveniva sotto di loro; ricordava di come il marmo della chiesa gli era sembrato lucido, splendente come l’oro alla luce delle lampade ad olio che rischiaravano la stanza; ricordava di aver udito qualche sospiro, o forse qualche parola, provenire da Aerith, e che non gli aveva nemmeno prestato attenzione…
Per il resto della notte era rimasto vincolato ad Aerith, stretto in un abbraccio, aspettando la rosea alba che era infine giunta, e che aveva portato con sé il giorno. Quando sottili raggi di sole filtrarono dalle tegole del tetto, annunciando l’avvento di un nuovo mattino.
“Devo andare” sentenziò infine Tseng, cercando di ritrovare i suoi vestiti, sparsi sul pavimento dalla notte precedente.
Aerith si rizzò in piedi, anche lei alla ricerca del proprio vestito. “Così presto?” chiese poi, delusa.
“Presto?” ripeté Tseng abbottonandosi la camicia e cercando di annodare nuovamente la cravatta. “Sono qui da circa dodici ore!”
La ragazza sorrise. “Va bene, dopotutto avrai da fare!” sussurrò poi, dolcemente.
“Non immagini quanto!” le rispose Tseng, rimettendosi la giacca e rassettandosi i vestiti.
Si diresse verso una delle vetrate e vi si specchiò, per controllare che fosse in ordine.
“Tornerai presto?” chiese Aerith da dietro di lui, con un tono di voce che riusciva a stento a trattenere l’entusiasmo.
Tseng si voltò e la osservò attentamente. Era radiosa, così bella nonostante non avesse dormito, con uno sguardo così limpido, simile a quello del cielo in Estate… pensò che quella fosse stata la più bella notte della sua vita.
“Molto presto” sussurrò, in tono rassicurante, prima di darle un ultimo dolce bacio.
Mentre usciva dalla chiesa, si voltò un ultima volta, per osservarla di nuovo, prima di andar via. Aerith stava guardando verso il cielo, o verso quel poco che se ne vedeva, con uno sguardo felice, immersa nei suoi pensieri.
Tornerò presto…
A dirla tutta, è strano come il destino, a volte, si accanisca contro l’uomo. Loro non lo sapevano, certo, ma quando Tseng osservò, sullo stipite della porta, la sua Aerith, fu l’ultima volta che la vide. Entro poche ore, gli eventi sarebbero precipitati, e il fato avrebbe vinto ancora una volta sull’ignaro uomo.
Al ché sorge spontaneo l’interrogativo: e se l’uomo sapesse? Potrebbe forse cambiare il destino? Probabile. Ma l’ignoranza è forse il peggiore tra i mali di questo mondo, e l’essenza dell’uomo è proprio quella. Ignoranza. Se fosse anche solo un po’ più scaltro, l’uomo riuscirebbe a sfuggire dai propri mali, a volte persino dalla morte.
Certo, dalla vera Morte è impossibile sfuggire; le sue spire ti avvolgono, ti stritolano, ti lasciano ansimante, senza fiato, sulla via per un mondo sconosciuto e del tutto nuovo; ma la cosa più importante da fare, durante il percorso verso quel mondo, è chiudere i conti col passato per evitare i rimpianti del futuro.
Anche Tseng, entro poche ore, avrebbe sperimentato questa strada, spinto dai suoi errori del passato o forse dalla follia; e ne sarebbe uscito vittorioso, ma forse solo in parte.
Per il momento, chiudendo la porta della chiesa alle sue spalle, salutò il mondo, per la prima volto dopo moltissimo tempo, con un sorriso.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Final Fantasy VII / Vai alla pagina dell'autore: BaschVR