Capitolo
III
Quando
Aerith si svegliò, la mattina dopo, provava ancora quel
misto di tranquillità
ed inquietudine che la pervadeva dall’incontro con Tseng.
Parlare con lui era
sempre stato strano. Lo sentiva scostante, a volte vicino, altre volte
distante. Non era un tipo molto loquace, teneva tutto dentro di
sé.
In
effetti, Aerith non sapeva quasi nulla del ragazzo che da ormai quattro
anni
circa la visitava quasi giornalmente, se non il minimo indispensabile
che lui
stesso le aveva rivelato nel corso di quel tempo, in alcune sporadiche
occasioni. Sapeva che era un Turk di professione, e che i suoi
superiori
l’avevano mandato a vigilare su di lei.
Nient’altro. Che strano, però. Tseng
stava sempre ad ascoltare ciò che lei gli narrava, anche per
ore intere, senza
mai annoiarsi, ma non parlava mai di sé. Ad Aerith non
sarebbe dispiaciuto sapere
qualcosa in più sul suo conto.
Fu
questo desiderio che la spinse, durante la mattinata di quella
splendente
giornata di sole, a prendere parola su un discorso che ben presto
avrebbe preso
una piega inusuale.
Tseng
era arrivato da poco, ed entrambi riposavano con la schiena poggiata
sul
polveroso parquet della chiesa.
Aerith
si mise seduta e lo osservò, mentre quest’ultimo
volgeva il proprio sguardo al
cielo che si intravedeva da un buco sul tetto dell’edificio.
“Così
ti impolvererai tutta la giacca!” rise Aerith, additandolo.
“Sai, spazzare il
pavimento non è il mio passatempo preferito!”
Tseng
ricambiò il suo sguardo, alzando il busto e sedendosi a sua
volta davanti a
lei. “Fa niente, posso sempre lavarla!”
Aerith
continuò a sorridere, mentre osservava i rigogliosi fiori,
ormai sbocciati in
tutto il loro splendore. “Giusto”
assentì poi, avvicinandosi ad un paio di
margherite gialle e carezzandone gli steli e la delicata corolla.
“Come
mai così di buon umore?” chiese Tseng, mentre la
osservava dare un po’ d’acqua
alle margherite e ad un gruppo di tulipani lì vicino.
“E’
una bella giornata” esclamò Aerith voltandosi
verso di lui. “L’estate è ormai
alle porte… chissà che questa non sia la volta
buona per lasciare
definitivamente Midgar! Quanto mi piacerebbe viaggiare per il mondo,
vedere
nuovi luoghi…”
“Sai
che io ti seguirei comunque” rispose Tseng.
“Si,
immagino che la ShinRa ti ordinerebbe di non perdermi di vista nemmeno
per un
momento…” rifletté Aerith, facendosi
seria. “Ma sai una cosa? Non me ne importerebbe
nulla, purché sia tu ad accompagnarmi!”
La
ragazza abbassò gli occhi, imbarazzata da ciò che
le era sfuggito dalla bocca.
Tseng si ridistese sul pavimento, osservando qualche frammento isolato
di cielo
azzurro che si intravedeva oltre le travi in legno della chiesa.
“Tseng,
posso chiederti una cosa?” sussurrò dopo un
po’ la ragazza, distendendosi di
fianco a lui.
Lui
annuì, senza staccare gli occhi dal tetto della chiesa.
Aerith si fece
coraggio.
“Ti
andrebbe di raccontarmi qualcosa su di te?” chiese, tutto
d’un fiato,
aspettando una qualunque reazione.
Tseng
si voltò a fissarla, con un’espressione
interrogativa negli occhi. “Perché?”
domandò.
Aerith
ci mise un po’ per rispondere, come se stesse scegliendo le
parole più adatte
per addentrarsi in quell’ispido discorso. “Non
c’è un perché…”
cominciò,
esitante. “E’ solo che… ti conosco ormai
da tanto tempo, ed ho notato di sapere
poco sul tuo conto… ma se non vuoi, io
non…” si affrettò ad aggiungere poi,
non
volendolo forzare a rivelare cose che non voleva.
“No”
rispose Tseng, interrompendola. “Tranquilla! E’
vero, in effetti non parlo
molto di me…”
le
sue labbra si incresparono in un sorriso. “Però
è giusto che tu sappia almeno
qualcosa! Cosa vorresti sapere?”
Aerith
si alzò in piedi, e percorse a grandi passi la navata della
chiesa. “Dimmelo
tu” rispose con un sorriso.
“Beh…”
cominciò lui, indeciso. Non poteva dire ad Aerith nulla di
davvero importante
sul suo passato, non avrebbe potuto svelarle la verità.
Sarebbe stata la cosa
giusta da fare, forse, ma non avrebbe potuto sopportare di perderla.
Scosse la
testa, per allontanare quelle sdolcinatezze. Quattro anni prima si
sarebbe
odiato per aver anche solo considerato di pensare qualcosa del genere.
Com’era
cambiato…
Alla
fine, decise di raccontare una parte della verità, gettando
in ombra quello che
non voleva farle sapere. Cominciò dal principio, narrando
della sua infanzia in
quell’orfanotrofio squallido e cupo dagli alti cancelli
invalicabili, e di come
gli altri bambini lo ignorassero. Parlò di come la sua vita
fosse cambiata il
giorno in cui un uomo avvolto in un mantello nero lo aveva portato via
da
quella prigione e in cui aveva capito qual era il suo destino.
Diventare un
Turk. Narrò del duro addestramento della ShinRa, e di come
alla fine era
diventato uno dei migliori agenti della Corporazione in appena pochi
anni.
“Caspita!”
esclamò Aerith, non appena Tseng ebbe terminato la sua lunga
storia. “Ed io,
mentre tu viaggiavi per il mondo risolvendo conflitti internazionali,
sono
rimasta sempre qui, a Midgar!”
“Beh,
ormai è da tempo che non mi viene più affidata
nessuna missione in giro per il
mondo” rispose Tseng. Non stava mentendo, perché
essendo stato licenziato,
ovviamente non poteva certo avere nuove missioni di nessun genere,
né tantomeno
che richiedessero un intervento all’estero.
“Però credo di aver imparato a
conoscere il nostro pianeta quanto basta, in questi anni!”
I
grandi occhi di Aerith si illuminarono. “Davvero?”
chiese, immaginando terre
lontane da Midgar, deserti solitari, grandi foreste e sperduti villaggi
posti
in cima a montagne scoscese. Come sarebbe stato bello poter visitare
tutti quei
luoghi!
“Davvero”
rispose Tseng, accennando appena un sorriso davanti alla sua meraviglia.
“E
quindi sai tutto su ogni luogo di questo pianeta?”
“Beh,
tutto è una parola grossa! Ci sono molti luoghi che non ho
mai visto, ma in
generale so abbastanza sui posti che ho visitato” rispose
Tseng con semplicità,
alzandosi da terra e osservando i gargoyle in pietra che adornavano i
capitelli
delle colonne poste agli angoli dell’edificio.
“E
dimmi, è vero che c’è un serpentone
gigante nelle paludi vicino Kalm Town?”
chiese Aerith sempre più affascinata e curiosa.
Tseng
si voltò ad osservarla, con un espressione interrogativa
dipinta sul volto.
Aerith era davvero una strana ragazza, a volte. Per la prima volta da
tanto
tempo un vero sorriso gli attraversò il volto. Il suono
della sua risata
appariva simile ad colpo di tosse, roco, come se si fosse arrugginito
con il
passare del tempo. In effetti, erano passati anni dall’ultima
volta che aveva
riso.
“Sono
così stupida?” domandò Aerith,
fingendosi offesa dal suo comportamento.
“No,
non è colpa tua!” rispose Tseng, ancora con quel
sorriso nostalgico stampato
sul volto. “E’ solo che quella domanda mi ha fatto
ricordare una persona che
non vedo da tanto tempo…”
“Un
vecchio amico?” chiese Aerith, avvicinandosi.
“Beh,
si” rispose Tseng, “Un ragazzotto curioso, di nome
Reno. Mi faceva sempre le
domande più disparate, e si aspettava che io avessi la
risposta a tutto ciò che
mi chiedeva! Ricordo che non la smetteva mai di parlare, neanche nei
momenti
più critici, e che io avevo sempre una gran voglia di
tappargli quella bocca!
Eppure, adesso non mi dispiacerebbe rivederlo…
chissà che cosa starà
combinando…”
“Sembra
un ragazzo simpatico!” constatò Aerith, mentre lo
fissava.
“Già.
Ti sarebbe piaciuto”.
Silenzio,
forse un velo di imbarazzo appena percettibile attraverso
l’atmosfera vibrante
che si era creta durante quella conversazione. Un paio di api ronzavano
intorno
ai variopinti fiori al centro della chiesa. Aerith vi si
avvicinò, ed osservò
gli operosi insetti posarsi sulla corolla dei fiori per poi sparire
all’interno
del calice, alla ricerca del nettare.
“Dici
che dovrei venderli?” chiese poi, cogliendo una rosa bianca.
“Come?”
“I
fiori, intendo” specificò Aerith, indicando la
rosa che teneva tra le mani.
“Ah…”
Tseng
ci pensò un po’ su. “Perché
no? Qui a Midgar non se ne vedono molti, in
effetti”.
Aerith
scosse la testa. “Neanche uno, qui nei Bassifondi! Da quel
che ne so, io sono
l’unica a coltivarne... potrei raccogliere abbastanza denaro
per andarmene da
qui! Non che il denaro sia l’unica motivazione,
ovvio!” si affrettò ad
aggiungere, per evitare malintesi. “In verità mi
piacerebbe vedere questi
luoghi un po’ più... variopinti! Il grigio
è un colore così squallido!”
“E
poi guadagneresti un sacco di soldi!” si affrettò
ad aggiungere Tseng con un
sorriso sarcastico.
“D’accordo,
anche quello è importante!” ribadì
Aerith scoppiando a ridere.
Tseng
le si avvicinò lentamente, di sua spontanea
volontà o forse ammaliato dalla sua
splendida risata cristallina, e si inginocchiò anche lui
dinanzi al campo di
fiori. La sentiva vicina, vicina come non mai, nemmeno il giorno
precedente
erano arrivati a stabilire quel sottile contatto che in quel momento li
stava
unendo. Tseng sapeva che questo legame era stato rafforzato dalle sue
parole di
poco prima, che avevano messo a posto un altro tassello di quel mosaico
che era
il loro rapporto. Un intreccio di amicizia, velata dal labile confine
tra
l’inganno e il malinteso, oscurata da ciò che
Tseng le nascondeva.
Amicizia.
Solo semplice e pura amicizia.
Forse.
Poi,
un gioco di sguardi, timidi, pudichi, dapprima insicuri, ma che con il
tempo si
facevano sempre più languidi, densi di un sentimento nuovo
per entrambi, e che
Tseng aveva da sempre disprezzato. Le cose stavano cambiando, anzi,
erano
cambiate ormai da tempo. La cecità è un male che
si presenta sotto varie forme
e in diversi aspetti, raggirando continuamente l’uomo. Ma
prima o poi le nebbie
si diradano, e tutto viene compreso per ciò che è
realmente.
In
quell’illusione generata nel mattino di una giornata come
tante, sia Tseng che
Aerith capirono qualcosa dell’altro. Nulla di particolarmente
rilevante, in
verità; tutto quello che compresero era già, in
un certo senso, nascosto dentro
di loro.
“Grazie”
sussurrò Aerith, abbassando lentamente lo sguardo.
“Di
cosa?” chiese Tseng, incuriosito dall’affermazione
dell’altra.
“Sei
l’unico con cui riesco a parlare
davvero…” commentò Aerith.
“Ti ringrazio”.
Per
pochi istanti che durarono quanto una vita, nessuno dei due
parlò. Tseng perse
il suo sguardo tra le sfumature vermiglie delle rose di Maggio, e
allungò una
mano, istintivamente, per accarezzarle. Al tatto parevano di velluto,
leggere,
quasi evanescenti. Lasciò che la mano accarezzasse per
intero la corolla della
rosa più rigogliosa ma al tempo stesso effimera, che presto
sarebbe sfiorita.
Anche lei, nella sua condizione d’instabilità,
sembrava volerlo spingere a non
sprecare quel momento che stava già per seguire il flusso
del tempo ed
aggiungersi alla catena dei ricordi che formano l’esistenza.
Ritirò il braccio
da quel giardino variopinto. E mentre il senso di colpa cresceva di
pari passo
con l’ansia, si ritrovò a sussurrare, con il viso
di Aerith a pochi centimetri
dal suo, un distratto: “Non c’è di
che”.
Dio,
il vecchio Tseng sarebbe nauseato
da ciò che sto facendo, si
ritrovò a pensare, in un momento
che sembrò protrarsi all’infinito. Un attimo dopo,
si disse che il vecchio
Tseng era morto il giorno in cui aveva lasciato la ShinRa. Per la prima
volta,
percepì sulla sua stessa pelle il cambiamento.
Quando
le due labbra si sfiorarono, Tseng seppe con certezza di essersi
lasciato un
pezzo del suo passato alle spalle. Con un nodo allo stomaco causato
dall’agitazione, o dal senso di colpevolezza che lo
attanagliava, alimentò il
bacio per ancora qualche secondo.
Poi
si separarono, lentamente. Tseng riaprì gli occhi, pur non
ricordandosi di
averli mai chiusi, ed osservò le guance di Aerith tingersi
di un lieve colore
rosato, simile a quello del cielo all’alba.
La
ragazza si distese per terra, con lo sguardo rivolto verso
l’alto, verso alcuni
raggi solari che si insinuavano perpendicolarmente tra le travi in
legno che
sostenevano il tetto. Non sembrava avere intenzione di parlare, ma a
Tseng non
importava. Attraverso quel silenzio sentiva i sentimenti di Aerith
permeare
nell’aria, come se la sua dolcezza e la sua allegria
rifulgessero di luce
propria, rischiarando la stanza al pari del più splendente
raggio di sole.
Si
distese accanto a lei, ad osservare il polveroso e cadente tetto
dell’edificio.
Dove le travi avevano ceduto, era possibile ammirare il blu profondo
del cielo,
interrotto saltuariamente da qualche pallida nuvola passeggera.
Tseng
si fece serio, mentre un turbine di pensieri contrastanti si facevano
strada
nella sua mente. Ecco, l’inganno adesso era completo. Sapeva
che tutto era
cambiato, che gli avvenimenti di quel giorno avevano svegliato qualcosa
che
attendeva, sopito, di poter emergere a galla: qualcosa di puro, che
veniva
insozzato dal suo silenzio. Se avesse detto quello che realmente era
successo
in quella fredda mattina d’Inverno, la cosa che avevano
svegliato quel giorno
sarebbe morta, paralizzata in un gelo che mai si sarebbe sciolto. Ne
era
sicuro, ed era impossibile, in effetti, che andasse in un modo diverso
rispetto
a quello che, tante volte, aveva immaginato nella sua testa. Aerith
avrebbe
forse detto che non era importante ciò che aveva fatto? Che
non aveva
intenzione di ucciderla quando aveva sparato? No. Era inutile cullarsi
in
illusioni del genere.
Accanto a lei, in quel
momento, c’era il
mostro che le aveva rubato l’infanzia; e per quanto lui fosse
cambiato, forse
indebolito, per quanto un omicidio, pochi anni prima, non lo avrebbe
minimamente scalfito, per quanto il tempo fosse passato e avesse
portato
inevitabili mutamenti, nulla le avrebbe impedito di odiarlo,
disprezzarlo,
allontanarlo. Nessuno l’avrebbe biasimata.
Il
silenzio gli sembrò l’unica strada che potesse
preservare l’illusione,
quell’illusione di cui Aerith era il fulcro, e che lui
applicava a forza sulla
realtà, distorcendola.
Da
quel giorno, non passò un momento che Tseng non trascorresse
nella chiesa
diroccata dei bassifondi di Midgar, insieme ad Aerith. La Primavera,
giorno
dopo giorno, cedette il posto all’Estate, e al profumo dei
fiori della chiesa
si sostituì quello della salsedine portato dalla brezza che
soffiava sulle
coste lì vicino.
La
osservava mentre curava i fiori che, dopo la lussureggiante Primavera,
adesso
avevano bisogno di più attenzioni a causa della
siccità della bella stagione.
Gettava su di lei il suo sguardo mentre, poggiato con la schiena ad una
colonna, i suoi pensieri vagavano indisturbati. Trascorrevano
così, a volte,
lunghe giornate, senza nemmeno parlare tra di loro, scambiando
solamente
qualche sguardo d’intesa, ogni tanto.
Altre
volte, invece, nelle giornate in cui l’afa era appena
sopportabile, si
rintanavano entrambi nell’angolo più fresco della
chiesa, lontano dalle alte
vetrate da cui filtravano raggi di sole, per parlare. In
verità, non è che lui
parlasse molto. Preferiva ascoltare le parole di Aerith, i suoi
racconti, ogni
cosa di cui lei lo rendeva partecipe. Ogni tanto Tseng interveniva con
qualche
commento, o per chiedere un chiarimento su qualcosa. Gli piacevano
quelle
lunghe chiacchierate nella penombra degli afosi pomeriggi estivi: non
era mai
stato molto interessato ai contatti umani, prima di conoscerla. Li
aveva
creduti solo punti di debolezza, come tutte le altre esternazioni di
sentimenti. Adesso, invece, aveva notato che era interessante stare ad
ascoltare, anche per ore, i discorsi pieni di felicità ed
ottimismo di Aerith.
A volte quest’ultima gli domandava qualcosa, con gli occhi
grandi e curiosi
simili a quelli di una bambina che per la prima volta vede il mondo;
gli
chiedeva di narrargli delle terre inesplorate del Pianeta, se fosse
vero che al
Nord facesse così freddo o se, invece, ci fossero luoghi
dove il sole splendeva
per tutto l’anno; e lui sorrideva appena, increspando le
labbra, e rispondeva
alle domande, osservando divertito il genuino stupore di Aerith nel
conoscere
nuove cose sul mondo nel quale viveva.
Ogni
giorno si affrontavano nuovi discorsi, nuove teorie su argomenti anche
astratti
che venivano argomentati mediante delle tesi più o meno
esatte; ed ogni volta,
entrambi imparavano qualcosa di nuovo, che offriva spunti per
ciò di cui
avrebbero parlato nel giorno successivo.
In
verità, l’unico argomento di cui non facevano
parola era proprio la loro
storia, che andava ormai avanti da parecchie settimane. Forse per un
leggero
imbarazzo, forse perché non ce n’era bisogno,
poiché il rapporto continuava a
consolidarsi durante quegli incontri che ormai avvenivano giornalmente.
E
così, mentre le giornate divenivano più secche
con il passare del tempo, il
loro rapporto andava sempre di più evolvendosi. Tseng
parlava molto più spesso,
e a volte l’aiutava nell’estirpare i fiori che
erano ormai stati seccati dalla
calura del clima estivo. Entrambi si sentivano coinvolti da quella
relazione
che si faceva sempre più intima, ad ogni attimo che
trascorrevano insieme.
Fu
così che, nel tepore estivo di una serata di fine Luglio, si
ritrovarono ancora
una volta con la schiena poggiata sul freddo e lucido marmo della
colonna, alla
flebile luce di alcune lampade ad olio che rischiaravano appena i loro
visi.
Aerith
si cingeva le gambe con le braccia, pensierosa, mentre Tseng, accanto,
non
parlava, immerso nella sua apatia, osservando alcune zanzare
avvicinarsi alla
lampada ad olio, attratte dall’aureo pallore di
quest’ultima e dal suo calore.
“A
cosa pensi?” chiese d’un tratto la ragazza,
facendolo trasalire.
“A
niente” si affrettò a rispondere lui, scostando lo
sguardo dalla lampada assediata
dagli insetti.
“Non
puoi non pensare a niente!” esclamò Aerith,
sorridendo. “E’ un controsenso!”
“Allora
stavo riflettendo”
“E
su cosa?”
“Niente
di rilevante, te l’ho già detto!”
rispose Tseng lanciandole un’occhiata
divertita.
“Non
mi nascondi qualcosa?” gli domandò Aerith,
pizzicandolo in un braccio con una
smorfia allegra.
Tseng
si ritrovò a sorridere e a mentirle nuovamente, mentre il
rogo del senso di
colpa ardeva in lui. Si, le nascondeva qualcosa; e non poteva fare a
meno di
tormentarsi con questo pensiero, sapendo che prima o poi la
verità sarebbe
saltata fuori, e che tutto quello che adesso aveva – Aerith,
quella vita nei
bassifondi che, inizialmente odiata, in fondo non era male –
sarebbe finito. E
sapeva anche che Aerith, al di fuori di quella parentesi che andava
ormai
avanti da parecchi anni, l’avrebbe sicuramente odiato.
Non
avrebbe mai finito di ripeterselo.
“No”
sorrise il ragazzo. “E’ solo che... sono state
giornate pesanti, all’ufficio
Turk…”
Aerith
non rispose. Si avvicinò ad una delle alte finestre, immersa
nella penombra e
nell’oscurità della notte. Non era molto tardi, in
verità: potevano essere le
nove, o forse, volendo esagerare, le dieci, ma il buio, in quella parte
di
Midgar, era sempre lo stesso, dal crepuscolo fino all’alba:
uniforme e
continuo, da sembrar quasi infinito, fuori da ogni margine di tempo e
spazio.
Poi
si voltò, avvicinandosi a lui che aveva chiuso gli occhi,
per riflettere o
semplicemente a causa della stanchezza.
“Immagino
che in notti come questa i Turk siano sempre in agguato, in attesa di
eventuali
attacchi delle bande terroristiche di Midgar…”
disse Aerith, indicando il nero
oltre la finestra.
“Già”
assentì Tseng, senza aver realmente ascoltato le parole
della ragazza.
Aerith
gli si avvicinò, lentamente, abbassandosi di fronte a lui, e
sorrise. Era un
sorriso tenero, di quelli che si fanno ai bambini timidi che, in
presenza di
estranei, non proferiscono parola, preferendo restare dietro le gonne
delle
loro madri.
“Sai
che dovresti ridere di più?” scherzò,
poggiando la propria testa sulla spalla
del ragazzo.
Tseng
fece una strana smorfia, a metà tra un sorrisetto e un
espressione disgustata.
“Non sei la prima persona che me lo dice”.
“Non
avremo forse ragione a ripetertelo? Un sorriso fa bene
all’anima, ricordatelo!”
Tseng
strinse forte la ragazza, riflettendo sulle sue parole. Che
bene poteva fare all’anima, si disse, un falso sorriso? La risposta la sapeva
già, era stato stupido
persino a formulare quella domanda.
I
sorrisi di solito sono spontanei, contagiosi, e possono nascere da un
qualsiasi
avvenimento, da una qualunque sensazione: Aerith e Reno erano dei
perfetti
esempi di come si potesse fare dell’allegria il proprio stile
di vita. Lui
invece era diverso. Magari avrebbe anche voluto essere come loro,
gonfiando il
cuore di gioia per ogni piccolezza che la vita gli offriva, ma gli
risultava
impossibile. Era sempre stato insensibile a questo genere di cose. Ed
anche se
molte cose erano accadute, ed altrettante erano cambiate, non si
può mutare di punto
in bianco, non si può semplicemente svegliarsi una mattina e
decidere di
cambiare.
“Forse
hai ragione” rispose lui, atono.
“Già,
forse…” gli fece eco Aerith, divertita.
Entrambi
rimasero in silenzio per qualche istante. La ragazza era assonnata e
decise di
chiudere gli occhi, ancora poggiata alla spalla di Tseng. Non dormiva,
però; al
contrario, sentiva ogni suono, ogni più piccolo rumore
attorno a loro, e si
aspettava che da un momento all’altro il ragazzo parlasse, e
che spezzasse quel
mutismo degli ultimi minuti.
“Aerith?”
chiese infine, in tono incerto, Tseng, per controllare se dormisse.
“Mm?”
rispose lei, rimanendo con gli occhi chiusi.
Tseng
deglutì, trovando il coraggio per addentrarsi nel discorso
che aveva deciso di
intraprendere. “Vedi… io…”
Aerith
aprì gli occhi, e lo osservò, curiosa.
“Si?”
Non
riusciva a trovare le parole giuste. Aprì la bocca e la
richiuse, inebetito.
Avrebbe voluto cominciare un discorso profondo su quanto lei
significasse per
lui, su come lo facesse sentire, sui nuovi sentimenti che stava
provando, in
quelle giornate screziate dai luminosi raggi solari estivi che
irradiavano
Midgar di luce. Avrebbe voluto parlarle, dirle che l’amava,
che l’amava ormai
da parecchio tempo, e che probabilmente quelle ultime settimane erano
state le
migliori della sua vita. Roba che, pochi anni prima, lo avrebbe
semplicemente
fatto vomitare.
Fu
in quel momento che, spinto da un impulso selvaggio, nuovo per lui ma
vecchio
come il mondo, la attirò a sé e la
baciò. Fu un lungo bacio, più sensuale e
naturale rispetto ai precedenti; Aerith fu colta di sorpresa, ma
capì quello
che lui voleva dirle, senza bisogno di una parola. Rispose al bacio,
come se
stesse dando una risposta alle parole mai dette da Tseng, come se gli
stesse
dicendo che anche per lei era la stessa cosa, e che lui era speciale, e
che era
sempre stato il suo miglior amico, e non solo una guardia del corpo.
Ringraziò
di essere unica al mondo, di avere quei poteri che spingevano la
ShinRa, causa
di tutti i suoi mali ma, incredibilmente, anche di qualche bene, a
proteggerla.
Le
labbra erano ormai a stretto contatto; quel sentimento a cui Tseng non
era
riuscito a dare un nome, quella passione così travolgente,
li aveva ormai fatti
suoi succubi. Si separarono per un momento, poi riunirono le labbra,
con più
foga di prima. Tseng scese giù, lungo il collo, arrivando
sul morbido incavo
sul collo, mentre Aerith chiudeva gli occhi, ansimante. Ormai sapevano
entrambi
cosa sarebbe successo, e non fecero nulla per impedirlo.
Un
altro lungo bacio, intervallato dai sospiri di entrambi. Le mani di
Tseng
accarezzarono le esili forme della ragazza, dall’addome,
sfiorando il seno,
fino al fianco e alla natica. Il ragazzo si sfilò la giacca
e la cravatta
dell’uniforme, gettandole a terra e sollevando uno sbuffo di
polvere.
Quello
che accadde in seguito, in realtà, non risultò
chiaro a nessuno dei due; al
mattino dopo, entrambi ricordavano solo un bailamme di sensazioni, di
pensieri,
sprazzi di memorie e sensazioni che si perdevano nel bianco
dell’oblio, che
forse era anche purezza.
Tseng
ricordava di come fosse entrato in lei, ansante, e i suoi leggeri
sospiri di
piacere, ma che, forse, erano gemiti di dolore (era sicuro di averle
fatto
male). Ricordava di aver pensato come quell’atto stavolta
fosse così diverso,
rispetto alle altre volte in cui l’aveva fatto, forse
perché era la prima volta
che amava davvero qualcuno.
Stranamente,
ricordava anche dettagli inutili, sensazioni del tutto prive di
significato ma
che gli erano rimaste impresse nella mente, come delle fotografie. Ricordava di aver udito
alcuni volatili
sostare tra le travi della chiesa e poi riprendere il volo, non notando
il
trambusto che avveniva sotto di loro; ricordava di come il marmo della
chiesa
gli era sembrato lucido, splendente come l’oro alla luce
delle lampade ad olio
che rischiaravano la stanza; ricordava di aver udito qualche sospiro, o
forse
qualche parola, provenire da Aerith, e che non gli aveva nemmeno
prestato
attenzione…
Per
il resto della notte era rimasto vincolato ad Aerith, stretto in un
abbraccio,
aspettando la rosea alba che era infine giunta, e che aveva portato con
sé il
giorno. Quando sottili raggi di sole filtrarono dalle tegole del tetto,
annunciando l’avvento di un nuovo mattino.
“Devo
andare” sentenziò infine Tseng, cercando di
ritrovare i suoi vestiti, sparsi
sul pavimento dalla notte precedente.
Aerith
si rizzò in piedi, anche lei alla ricerca del proprio
vestito. “Così presto?”
chiese poi, delusa.
“Presto?”
ripeté Tseng abbottonandosi la camicia e cercando di
annodare nuovamente la
cravatta. “Sono qui da circa dodici ore!”
La
ragazza sorrise. “Va bene, dopotutto avrai da
fare!” sussurrò poi, dolcemente.
“Non
immagini quanto!” le rispose Tseng, rimettendosi la giacca e
rassettandosi i
vestiti.
Si
diresse verso una delle vetrate e vi si specchiò, per
controllare che fosse in
ordine.
“Tornerai
presto?” chiese Aerith da dietro di lui, con un tono di voce
che riusciva a
stento a trattenere l’entusiasmo.
Tseng
si voltò e la osservò attentamente. Era radiosa,
così bella nonostante non
avesse dormito, con uno sguardo così limpido, simile a
quello del cielo in
Estate… pensò che quella fosse stata la
più bella notte della sua vita.
“Molto
presto” sussurrò, in tono rassicurante, prima di
darle un ultimo dolce bacio.
Mentre
usciva dalla chiesa, si voltò un ultima volta, per
osservarla di nuovo, prima
di andar via. Aerith stava guardando verso il cielo, o verso quel poco
che se
ne vedeva, con uno sguardo felice, immersa nei suoi pensieri.
Tornerò
presto…
A
dirla tutta, è strano come il destino, a volte, si accanisca
contro l’uomo.
Loro non lo sapevano, certo, ma quando Tseng osservò, sullo
stipite della
porta, la sua Aerith, fu l’ultima volta che la vide. Entro
poche ore, gli
eventi sarebbero precipitati, e il fato avrebbe vinto ancora una volta
sull’ignaro uomo.
Al
ché sorge spontaneo l’interrogativo: e se
l’uomo sapesse? Potrebbe forse
cambiare il destino? Probabile. Ma l’ignoranza è
forse il peggiore tra i mali
di questo mondo, e l’essenza dell’uomo è
proprio quella. Ignoranza. Se fosse
anche solo un po’ più scaltro, l’uomo
riuscirebbe a sfuggire dai propri mali, a
volte persino dalla morte.
Certo,
dalla vera Morte è impossibile sfuggire; le sue spire ti
avvolgono, ti
stritolano, ti lasciano ansimante, senza fiato, sulla via per un mondo
sconosciuto e del tutto nuovo; ma la cosa più importante da
fare, durante il
percorso verso quel mondo, è chiudere i conti col passato
per evitare i
rimpianti del futuro.
Anche
Tseng, entro poche ore, avrebbe sperimentato questa strada, spinto dai
suoi
errori del passato o forse dalla follia; e ne sarebbe uscito
vittorioso, ma
forse solo in parte.
Per
il momento, chiudendo la porta della chiesa alle sue spalle,
salutò il mondo,
per la prima volto dopo moltissimo tempo, con un sorriso.