La mia prima parola si chiamava tanuki.
La incontrai là, sul ciglio del sentiero. Seduta sulle sue
zampette grassocce, sorseggiava una tazza di sake.
Bislacca come prima parola, come se un neonato se ne uscisse
gorgogliando “mandolino!”, sotto lo sguardo
attonito di mamma e papà. Così per caso
quell’esserino peloso e paffutello aveva scavalcato tutti
i concorrenti, infilandosi in un libro di fiabe che la nonna
mi aveva regalato. Fece capolino verso pagina 49, sgargiante con la sua
pelliccia lucida e la coda panna e cioccolato, immerso nella quiete di
un boschetto.
- Sei tu quella parola strana che non conosco?-
- Io non sono una parola, sono un Tanuki! Ti sembra il modo di
interrompere un picnic, in ogni caso? Questi bambini
moderni…-
- Scusa scusa scusa! Però signor Tanuchi, non sei mica una
parola che conosco. Qui da noi quelli con la coda così si
chiamano procioni.-
- Sono i miei cugini d’oltremare.-
Pareva si fosse calmato. Si slacciò dal fianco una
fiaschetta azzurra con su un disegnino strano, e ne versò
del liquido bianco in una ciotola.
- Sake?-
- So che cosa?-
- Ma no! Non “Sa-che”, sake!
C’è anche scritto qui, vedi?-
Indicò il disegnino sulla fiaschetta.
- Io vedo solo delle linee, vogliono dire una parola pure quelle?-
Gonfiò le gote visibilmente irritato.
- Una calligrafia così raffinata “delle
linee”?! Ma tu guarda questi gaijin…-
Borbottò ancora un attimo mentre beveva dalla ciotola. Un
altro sorso lo riportò alla calma.
- Tutte ‘ste strane parole… da dove vieni te?-
- Giappone.-
- Così lontano! E dimmi, com’è il
Giappone?-
La bestiola parve riflettere un attimo, accarezzandosi la pelliccia con
le zampe.
- Non che lo conosca molto, ti posso parlare di casa mia. Nel bosco
dove abito crescono rigogliosi i take. In primavera io e i miei amici
andiamo a fare picnic sotto i sakura. Ma una magia sottile avviene
soprattutto nei giorni di kitsune no yomeiri…-
- Uffaaa… Non ci capisco nulla di quel che dici. Puoi
raccontarmi com’è casa tua in una lingua che
conosco?-
Mi aspettavo che si arrabbiasse ancora, invece fece una smorfia:
immagino sia così che ride un tanuki. Poi staccò
una foglia grande come la mia testa, di quelle che si usano come
ombrelli quando si mette a piovere a metà di una gita, e me
la porse.
- Sei piccola, vuoi far crescere tante foglie in qualche ora. Tutti
vorrebbero gli alberi ricoperti di verde già ad inizio
primavera, ma se sei saggia imparerai a gioire per la prima gemma.-
- Ti metti pure a fare il filosofo?-
Tamburellai scocciata sulla superficie verde lucido della foglia.
- Oh, non mi do arie da maestro zen. Sono solo un tanuki, dopo tutto.
Allora diciamo così: un bambino non impara a parlare il
primo giorno che nasce. Tu oggi hai avuto la tua prima parola.-
- Si, e che me ne faccio di saper dire “procione”?
Almeno potevo imparare a chiedere da mangiare…-
Bevve ciò che rimaneva nella fiaschetta, poi si
pulì le zampe con la lingua, si lisciò la coda e
si stiracchiò.
- E’ vero, forse te ne dimenticherai, ci sono cose
più importanti da sapere. Però se vuoi venirmi a
trovare ti aspetto a casa mia. Ci si vede piccola.-
Scomparve tra le fronde, lasciando i bambù che ondeggiavano.
Rilessi altre volte il libro, ma il bosco del tanuki rimaneva
spopolato. Solo a volte un fruscio tra i bambù mi faceva
ricordare la sua presenza.
Crebbi, e trovai man mano le altre parole, prima sparse alla rinfusa,
poi in lunghe liste sui libri dell’università, ed
infine incredibilmente vive, per le strade di Tokyo: manga, kuruma,
karaoke, izakaya, daigaku, senpai, okonomiyaki… Nella
metropoli non importa molto sapere cos’è un tanuki.
Poi, durante una passeggiata, riconobbi il boschetto del mio libro, e
lì, sul ciglio della strada, eccoti il tanuki che beveva
sake dalla sua ciotola. Ora capivo bene il “disegnino
strano” della calligrafia.
- Ubriacone.-
Bel modo di salutare una vecchia conoscenza, ma non sembrò
infastidito. Era un po’ invecchiato, la pelliccia aveva
qualche chiazza grigia. Era anche ingrassato un po’.
- Bambina, eccoti qui. Allora, com’è il Giappone?-
- Sono stata a Tokyo: le luci, la gente, la vita, la metropolitana
affollata alle sette di mattina, i locali pieni di ragazzi la sera, le
ragazzine in divisa che vanno a scuola, i negozi che non chiudono
mai… Ho visto il mondo dietro alle parole che imparavo, ed
è sconvolgente. Sai che quando chiamo casa mescolo italiano
e giapponese come facevi tu? Come se due lingue non bastassero ad
esprimere tutta la mia meraviglia. Eppure sono nate proprio per questo
le parole, per poter raccontare agli altri il proprio stupore. Ed
allora meglio saperne più possibili, no?-
Sorrise con la smorfietta che ricordavo. Poi, improvvisamente, scese
una pioggerella leggera, mentre una tenue luce brillava ancora tra i
rami. Kitsune no yomeiri, una magia sottile. Il tanuki
staccò una foglia simile a quella che mi aveva regalato anni
prima e me la porse, poi ne prese una per sé. Ci riparammo
dalle gocce.
- Sake?-
- Grazie.-
Bevemmo in silenzio, in sottofondo il tintinnio dell’acqua.
- La prima volta che mi hai parlato di foglie non ti avevo capito, ma
adesso lo so che intendevi.-
Presi un rametto e scrissi davanti a me nel terriccio due caratteri:
言葉
Kotoba.
- Hai imparato bene, piccola.-
-“Dire foglie”, così si dice
“parola” in giapponese. Come se il linguaggio fosse
un albero che cresce man mano, in cui tutte le foglie servono a creare
una chioma rigogliosa.
Guardammo ancora per un po’ le fronde del bosco piegate dal
peso dell’acqua. Davanti a noi passò un branco di
volpi. Il tanuki fece un inchino a quella con la coda più
folta, io lo imitai. Loro risposero cortesemente, poi proseguirono per
la loro strada.
- Cosa porterai con te in Italia?-
- Tanti ricordi, e più foglie possibili per raccontarli
tutti. Però per il ricordo di questo istante ne basta una,
la prima.-
- Visto che non sono così inutile, alla fine?-
La mia prima foglia si chiamava tanuki.