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Autore: PattyOnTheRollercoaster    08/10/2009    2 recensioni
E' mai possibile che io m'innamori sempre della persona sbagliata? Prima Bella, che rischiavo di tramortirla con una carezza, ma adesso abbiamo superato il limite!
L'unica persona che mi dovrebbe odiare e con la quale io non dovrei avere niente a che fare... mi piace.
Questa è la storia più patetica che abbia mai sentito, ed è la mia.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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My second chance
From Edward Cullen’s diary

1.The rescue

Ripensando a quello che è capitato, sembra che tutto sia già stato programmato. Anche la decisione di trasferirmi con tutta la mia famiglia qui, in una delle zone più nuvolose e piovose di Londra. In effetti le condizione climatiche non sono cambiate molto da Forks, però almeno adesso siamo vicino a Londra, una città degna del suo nome. E’ stata Rosalie a volere vicino una città, e devo ammettere di essere stato d’accordo con lei questa volta, almeno non ci annoiamo troppo. Tanto prima o poi dovevamo trasferirci: stavamo a Forks ormai da troppo tempo, se non fossimo cresciuti sarebbero cominciati a sorgere dei dubbi.
In più … Bella sé n’è andata.
Forse era stanca di essere preda di pazzi assassini o di pazzi innamorati che la guardavano mentre dormiva, come facevo io. Fatto sta che è tornata da sua madre. All’inizio è stato orribile, però ormai sono passati undici anni. Adesso bella ha ventinove anni e io ancora diciassette, o almeno nelle apparenze. Ormai ho rinunciato perfino ad andare a scuola. Troppo noioso, lo rifarò quando la mia laurea sarà troppo vecchia per lavorare. Forse potrei far finta di avere vent’anni, anche perché sembro un po’ più grande.
Comunque … il giorno in cui tutto cominciò camminavo lungo una strada solitaria, vicino a casa, quando in lontananza sentii delle grida. In lontananza per me significa molto lontano nella realtà, quindi mi avvicinai per vedere cosa succedeva.
Mi avvicinavo sempre di più alla fonte del rumore e, improvvisamente, da una traversa, spuntò una cosa non bene identificata che correva e, dietro di lei, tre ragazzi che la inseguivano. Guardando meglio vidi che si trattava di una ragazza, tutta incappucciata. Stava correndo verso di me, però non credo che ci stesse facendo molto caso in quel momento dato che stava scappando da tre tipi arrabbiatissimi e tutti grossi quasi quanto Emmett (quasi, perché nessuno può eguagliarlo in stazza).
Per puro senso del dovere mi parai di fronte ai tre ragazzi. Quelli si fermarono e mi guardarono. Uno di loro disse: “Spostati!”.
“Se non vi spostate voi vi prendo tutti a mazzate” dissi io pacatamente. Ho scoperto che dire frasi intimidatorie non serve a nulla, nel senso che non spaventa il tuo avversario, però velocizza il suo processo di arrabbiatura, così io velocizzo le botte da dargli, e lui scappa prima.
Quello che aveva parlato guardò i suoi amici e si mise a ridere. Un po’ stufo gli tirai un piccolo calcio negli stinchi che lo fece cadere a terra. Lui si rialzò, sorpreso e arrabbiato, quindi assieme ai suoi amici mi circondarono. Con la coda dell’occhio vidi che la ragazza incappucciata si era fermata in mezzo alla strada e ci osservava, attenta. I tre mi si gettarono addosso all’improvviso ma i loro movimenti erano lenti, scontati, così li fermai tutti (prima che si facessero del male picchiando un uomo fatto praticamente di marmo). Dopo averli buttati a terra varie volte con calci e spinte realizzarono che ero troppo forte per loro. Quando si dice essere acuti! No?
“Ma perché non ve ne andate?” chiesi allora. Quelli si guardarono un po’ stupiti e poi se ne andarono via velocemente. Mi voltai verso la ragazza, che stava ancora in mezzo alla strada, e andai verso di lei. Mi rendo conto che, in realtà, il mio combattimento deve essere sembrato eroico e veloce agli occhi di una persona normale. “Come stai?” chiesi. Lei si nascose un po’ nel suo cappuccio e abbassò la testa.
“Bene” la sentii farfugliare. “Grazie” disse, e fece per andarsene.
“Aspetta, sei sicura che vada tutto bene?” gli dissi avvicinandomi ancora a lei e guardandola in faccia. Se avessi potuto sbiancare probabilmente l’avrei fatto: era conciata maluccio. Aveva un labbro sanguinante e un occhio che si stava lentamente gonfiando e diventando di un bel colorito purpureo. “Mio Dio” mi uscì detto di bocca.
“Si, vabbè … non c’è bisogno di guardarmi così. Lo so che probabilmente faccio schifo” disse lei stizzita.
“Ti porto all’ospedale” dissi prendendola per un braccio e cominciando a trascinarla.
“Cosa? Ma chi sei per portarmi dove vuoi? Mio padre? Sono capace di andarci da sola all’ospedale!” esclamò lei.
“Certo, così quando i tuoi amici ti rivedono ti conciano peggio di prima” sbuffai. “E dai” quasi la supplicavo. Lei ci pensò un secondo, probabilmente la prospettiva di essere di nuovo picchiata non le piaceva, così annuì.
“Mi chiamo Lilian, però mi firmo sempre Lil, così tutti mi chiamano in quel modo” disse tendendo la mano.
“Edward” risposi io stringendola. Lei non fece commenti sul fatto che la mia mano fosse gelata. “Cosa vuol dire che ti firmi Lil? Sei una scrittrice, o un’artista?”.
“In un certo senso. Mi firmo Lil nei murales. E’ per quello che mi stavano inseguendo: stavo facendo un murales e quelli mi hanno visto” disse cominciando a camminare. Forse la guardai con aria di disapprovazione, perché mi osservò e disse, roteando gli occhi al cielo: “Guarda che non è come pensano tutti! I murales sono una forma d’arte, secondo me. E poi io non faccio scritte, quelli sono graffiti, io dipingo sui muri. Così si fa un murales” spiegò pazientemente come se stesse parlando ad un bambino.
“Dipingi con pennelli?” chiesi.
“No con le bombolette. Mi ci è voluto un sacco per imparare”. Lil si schiacciò con la mano una guancia che probabilmente le faceva molto male e fece una smorfia.
Fortunatamente c’era un pronto soccorso vicino. Aspettammo per almeno due ore ma, quando il dottore ci chiamò, si sbrigò subito a disinfettare le ferite di Lil e a prescrivere una pomata per il gonfiore. Probabilmente aveva tanti pazienti di cui occuparsi; troppi, mi venne da pensare. Quando uscimmo dal pronto soccorso, nell’aria fredda e umida, mi voltai verso Lil: “Dove abiti? Se ti va ti accompagno”.
“Grazie” disse lei sorridendo. “Abito vicino all’asilo, in Guggenheim Street”.
“Davvero? Io abito lì vicino”.
“Ma va? Com’è che non ti ho mai visto?” mi chiese piacevolmente sorpresa. Scrollai le spalle. “Non esci molto?”.
“Veramente non ho molto da fare, ecco. Non vado a scuola, non lavoro …”. Decisi che avrei dovuto trovarmi un lavoro, la mia vita era di una piattezza incredibile.
“Non vai a scuola? Fai bene. La scuola è solo un posto dove ti ficcano stupide idee in testa. E’ a scuola che ci omologhiamo al resto del mondo” disse in tono saccente. “Ma quanti anni hai?” chiese poi.
“Diciassette, quasi diciotto”, in fondo era vero: ero stato morso poco prima di compiere diciotto anni. “E tu?”.
“Diciotto” rispose lei. Arrivammo fino all’asilo, e li ci separammo. “Magari ci vediamo in giro uno di questi giorni” disse facendo un sorriso e cominciando a camminare verso casa.
“Magari” dissi io. Avrei fatto in modo che accadesse. Forse mi sarei guadagnato un’amica, e anche un modo per passare le giornate che non fosse bisticciare con Emmett.

Pochi giorni dopo l’eroico salvataggio ero seduto sulla panchina di un parco lì vicino a leggere un libro. Il cielo era pieno di nuvole, ma almeno potevo uscire, così ne avevo approfittato per fare un giro.
Il parco dove stavo mi piaceva particolarmente: era un parco giochi per bambini, quindi c’erano scivoli e altalene, ma era molto grande e tutto circondato da alberi e aiuole. Il mio posto preferito era quello sotto la quercia. Probabilmente era uno degli alberi più vecchi, e si stirava nodoso verso il cielo, cercando di carpire i raggi di luce che, di rado, fendevano le nuvole.
Ero arrivato da poco, una ventina di minuti, quando sentii qualcuno venire verso il parco. Alzai lo sguardo dalla mia lettura e vidi Lil, che, con sguardo cupo, si trascinava verso lo scivolo col tetto. Non mi vide, d’altronde non feci nulla per farmi notare, ma quando salì e si rifugiò sullo scivolo mi alzai e la raggiunsi. Mi arrampicai dalla parte scivolosa, adoravo farlo, e, quando la mia testa spuntò, salutai Lil con un sorriso.
“Ciao” dissi reggendomi al tettuccio rosso mattone dello scivolo casa e abbassandomi per entrarvi.
“Ciao” disse lei, sollevando lo sguardo. “Che fai qui?”.
“Leggevo. E tu?”.
Scrollò le spalle. “Niente. Sono solo uscita di casa. I miei litigano” disse facendo un gesto esasperato.
“Oh” dissi soltanto. Non avevo mai avuto problemi di famiglia, almeno non in quel senso. I problemi della mia famiglia erano più complessi, però meglio non lamentarsi. Almeno Carlisle ed Esme andavano d’amore e d’accordo.
“Quello è il commento più indicato, credo. Per di più che si rompono le palle a vicenda per cose stupide”. Frugò in tasca ed estrasse un pacchetto di sigarette e un accendino. “Ti dà fastidio se fumo?” mi chiese.
“Fa pure” dissi poggiandomi su una parete dello scivolo casa, in modo da trovarmi di fronte a lei. Guardandola mi venne da pensare che lei non sapeva quanto sembrasse fragile e allo stesso tempo forte, ai miei occhi. Forse per la mia natura di Vampiro, ma per tutti gli umani portavo un certo rispetto. Ero arrivato alla conclusione che i Vampiri erano, per molti versi, avvantaggiati nella vita, e rispettavo gli umani che riuscivano a cavarsela con le poche abilità che avevano.
Con sguardo assente, rivolto alla strada, Lil giocherellava con la catenina che aveva al collo, una sottile catena con appeso un anello. Dentro all’anello c’era scritto, con una grafia elegante e sinuosa: ‘Come nelle favole’. Ogni tanto prendeva una boccata dalla sigaretta e soffiava via il fumo alzando il mento. Forse era un’impressione mia, però mi pareva che il fumo non volesse uscire dalla sua bocca, così si attardava sulle sue labbra, aspettando di venir soffiato via. I suoi occhi erano cerchiati di matita nera, ma se uno guardava attentamente si vedevano le ombre scure delle occhiaie, che si confondevano con il trucco pesante.
Si voltò verso di me e sorrise un poco. “Cosa leggevi?”.
“Un libro” risposi vago porgendogli quello che avevo in mano. Lei lo prese e lo guardò, poi alzò lo sguardo e picchiettò con l’indice sulla copertina.
“L’ho letto anch’io” disse alzando le sopracciglia. “Dove sei arrivato?”.
“Quando lui uccide il suo amico. Sono quasi alla fine”.
“Seconde me è molto bello” disse lei.
“Si mi è piaciuto” concordai.
“Davvero? E’ una lettura un po’ vecchia, però tutti i romanzi horror o simili hanno qualcosa che rimanda a questo. La pazzia, l’egoismo …” disse passandomi il libro.
“Oppure un antieroe” dissi prendendolo.
“Anche” disse Lil spegnendo la sigaretta contro il legno vecchio della casa scivolo. In quel momento arrivarono delle persone nel parco. “Faremmo meglio a spostarci” disse alzandosi, restando comunque piegata sotto il tetto della casa. Quando stava per scendere il viso di un bambino sbucò dagli scalini.
“Tocca a me” disse guardandoci imbronciato. In effetti occupavamo in due tutto lo spazio. Mi alzai anche io e scendemmo per i gradini, beccandoci uno sguardo di disapprovazione dalla madre del bambino. Ma perché poi?
Notai solo allora che Lil era vestita in modo che definirei per lo meno … singolare. Aveva su una camicia chiara a quadri molto larga e sotto una maglietta aderente nera, che mostrava quanto fosse magra. Portava una gonna sbrindellata abbastanza corta (troppo, secondo me) e degli scarponi neri che arrivavano poco sotto il ginocchio.
“Non ho voglia di tornare a casa” disse, “voglio andare in un bel posto”. Pensai un secondo a qual’era il posto più bello che conoscessi.
“Ti ci porto io” dissi. “Però dobbiamo andare in macchina, ok? E’ un problema se ti rapisco per un po’?” chiesi.
“Per niente”.
Ci avviammo verso casa e aprii il garage. Dentro c’erano tutte le nostre macchine. Lil fece una specie di risolino: “Oh mio Dio. La mia casa è grande quanto il tuo garage” disse.
“Posso definirmi ricco da far schifo” dissi con un ghigno. “Mio padre è un medico” dissi sbrigativo sperando che pensasse che Carlisle fosse un medico strapagato. E’ molto bravo, è vero, però lo pagano normalmente. In realtà tutti i soldi provengono da un centinaio di anni di accumulo di denaro.
“Capisco” disse lei guardando le macchine tirate a lucido. C’era anche un moto, la moto che avevo comprato per andare in moto assieme a Bella, e che poi avevo ceduto ad Emmet. Bei ricordi, ormai passati. Presi le chiavi della Volvo e aprii la portiera a Lil, un’abitudine che mi era rimasta e che nessuno ormai usava più. “Grazie” disse lei entrando meravigliata e divertita in macchina. Mentre facevo il giro per entrare, ovviamente a passo lento, per curiosità cercai di percepire i pensieri di Lil, ma tutto quello che trovai fu caos, come un fischio nelle orecchie e un leggero brusio di tante voci in sottofondo. Senza pensarci troppo salii in macchina.
“Allora dove andiamo?” chiese lei.
“Non te lo posso dire, però ti assicuro che è un bel posto” dissi mettendo in moto.






Prima storia su Twilight. Se devo proprio essere sincera non è che mi convinca molto, ma almeno ci provo. Comunque, so che in questo capitolo non accade granchè, ma spero che pazienterete (già nel prossiamo capitolo succede qualcosa, e poi, non siete curiosi di sapere dove Edward ha portato Lil?). Per i fan BellaxEdward, cambiate storia, dico sul serio. All'inzio ci sono dei riferimenti a lei, ma poi pian piano vanno svanendo.
Comunque, spero che questo Edward che racconta in prima persona vi piaccia, secondo me è un tipo divertente, e non si fa tante pippe mentali come Bella (solo un po').
Be', ricordate, mi raccomando, di lasciare una recensione. Che sia positiva o negativa non importa, basta che ci sia.
Un saluto a tutti,
Patty.
   
 
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