Disclaimer: Bellatrix Lestrange e
gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K.
Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani.
Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto
intesa.
“Quando il cielo basso pesa come un coperchio
sullo spirito che geme, preda d’un tedio
ininterrotto,
quando dell’orizzonte abbracciando tutto il
cerchio
dispensa un giorno nero più triste della notte;
quando la terra si muta in un’umida cella,
e
va urtando i muri con la sua ala timida
e ai soffitti marciti cozzando con la
testa;
quando la pioggia svolgendo le strisce
sterminate
imita le sbarre di una prigione immensa,
e accorre un popolo muto di ragni infami
che appende le sue reti dentro i nostri
cervelli;
campane all’improvviso saltano su con furia
e scagliano verso il cielo un atroce
lamento,
come spiriti erranti inquieti e senza patria
che si mettano a gemere ostinatamente.
– E carri funebri, senza tamburi né
musica,
mi sfilano nell’anima in lungo e lento
corteo;
mi pianta sul cranio reclino il suo
vessillo nero.”
Charles Baudelaire, Spleen, da “I Fiori del Male”
Silentium Vivorum
- Il Silenzio dei Vivi
-
prima parte
Un vento gelido imperversava tra le fronde spoglie degli alberi che si stagliavano neri e scheletrici sullo sfondo infiammato del crepuscolo come lunghe zampe di ragni, mentre la neve che ricopriva il lungo altopiano rifletteva i brillanti colori del cielo e una polvere sanguigna sembrava aleggiare sulla terra.
Bellatrix Lestrange si rialzò, stringendo nella mano un altro compatto pugno di neve. Con un movimento accurato se lo passò sulle labbra, poi ne inghiottì una piccola parte, sentendo immediatamente il refrigerio del ghiaccio contro il suo palato acido e riarso.
Nel biancore immacolato che la circondava sembrava quasi sovrannaturale, con il viso abbagliante, gli occhi neri e profondissimi che per un istante brillarono come se fossero finestre spalancate sui fuochi dell’inferno. Osservò il suo respiro ansimante condensarsi davanti al volto in tante nuvole sottili, mentre un falco solitario a poche centinaia di metri più in là scendeva velocissimo in picchiata, gli artigli aperti e mantenuti vicino al ventre, fino a sfiorare la terra con le lunghe penne remiganti. Lo vide protendere le mortali zampe in avanti, di scatto, e piombare sulla preda, micidiale come l’ascia di un boia, mentre le ali poderose sferzavano violentemente l’aria, cercando di riguadagnare i cieli. L’animale lanciò uno strillo acuto che squarciò il silenzio immoto al pari di un boato, mentre si elevava oltre le cime degli alberi, gravido della piccola lepre che si contorceva sempre più debolmente tra le sue zampe uncinate, in una lunga, atroce agonia.
La donna piegò leggermente le labbra in un sottile sorriso terribile: poteva immaginare molto bene cosa provasse il piccolo mammifero mentre gli artigli acuminati del volatile penetravano sempre più in profondità, e il dolore si faceva lancinante, insopportabile, folle. Poteva sentire i tonfi terrorizzati di quel cuore farsi man mano più lenti, mentre le membra si intorpidivano e il sangue inondava i polmoni, gorgogliando in un lento soffocamento…
…lei sapeva cosa significasse sentire l’alito della Morte sulla nuca, ma conosceva altrettanto bene la gioia furiosa che inebriava il predatore, un tripudio che sfiorava l’estasi quando si avvertiva che la vita della preda si stava spegnendo, stava scivolando via tra le dita come un piccolo ruscello limpido… in un’intimità mostruosa e bellissima.
Un soffio di vento gelido le liberò la fronte dai capelli. Lei si guardò intorno, respirando man mano più lentamente, mentre la morsa incandescente che sembrava attanagliarle il cuore si allentava, raffreddandosi.
Era a meno di cinquanta chilometri dal Polo Artico.
Non sapeva esattamente per quale motivo si era materializzata proprio in quel posto, dove la natura selvaggia troneggiava indisturbata su un’interminabile distesa di bianco e alberi spogli. Ma aveva sentito il bisogno urgente di essere circondata dal ghiaccio, dalla calma, dall’immobilità naturale di un paesaggio coperto di neve. Dal silenzio. Di quello che galleggiava sulla superficie della tenebra in cui stava affogando.
Tutto a causa della cosa che aveva visto in quella maledetta cella.
Era successo pochi giorni dopo il suo ritorno dalla missione ad Azkaban.
Stava percorrendo uno degli umidi corridoi dei sotterranei, quando aveva incrociato l’alta figura nerovestita di Antonin Dolohov. L’uomo camminava frettolosamente, come se stesse allontanandosi da qualcosa di sgradevole, di raccapricciante. Aveva guardato verso di lei quasi senza vederla sul serio, il volto pallido e lungo solcato da poche rughe stranamente approfondite, gli occhi castano scuro che l’avevano osservata indugiando sul suo viso come se non la riconoscessero. Gli ci era voluto qualche istante per rendersi pienamente conto che lei l’aveva salutato. Tutto di lui faceva pensare che stesse fuggendo da qualcosa.
Qualcosa che somigliava alla paura.
Lei aveva ricambiato il suo sguardo, mentre un sottile turbamento si agitava sul fondo degli occhi d’ossidiana, così neri da non esserci quasi distinzione tra l’iride e la pupilla. Non aveva mai visto una simile espressione sulla faccia tagliente e decisa di Dolohov e tutto ciò le aveva provocato un consistente senso di nausea che aveva tentato inutilmente di ricacciare indietro. Aveva aggrottato le sopracciglia in una muta domanda.
- Dovresti… dovresti vedere anche tu – le aveva detto lui, mentre gli occhi fuggivano intenzionalmente quelli della donna. La sua voce era stata esitante, leggermente più acuta, tanto da avvicinarsi quasi a quella di Peter Pettigrew. Soltanto al pensiero del goffo Animagus il volto di Bellatrix si era indurito per il disgusto.
- Dovrei vedere cosa, Dolohov? – gli aveva risposto, senza curarsi che la sua voce appariva sprezzante. Il Mangiamorte non aveva risposto, ma si era avvicinato lentamente, chinandosi tanto da portare il proprio volto a pochi centimetri dal suo. Un odore aveva colpito allora le narici della donna, un odore nauseabondo, un lezzo di putrefazione e d’acqua melmosa e stagnante… l’odore dei Dissennatori.
Aveva sbarrato gli occhi dalla sorpresa.
- Vedo che hai già indovinato con chi sono stato a contatto nelle ultime ore… Non è stato affatto piacevole. Ma necessario. -
Il senso di nausea era raddoppiato. C’era qualcosa nello sguardo di Dolohov che la stava assillando e che lei non riusciva ad identificare e a contrastare…
eppure le era sembrato così familiare…
E poi aveva capito: Dolohov aveva tentato disperatamente di vincere ciò che non comprendeva e ne era uscito quasi per miracolo. Aveva rischiato di perdere il senno, già duramente provato dalla lunga prigionia in Azkaban.
Il pensiero era stato un lampo che aveva squarciato le tenebre.
Oh, l’aveva percepito chiaramente. La mente del Mangiamorte
gli si era rivelata in un istante con la chiarezza di uno specchio, un coacervo
di sensazioni, pensieri, azioni, balbettii che per assurdo erano apparsi ai
suoi occhi in un nitore straordinario, così incredibilmente preciso in ogni suo
più pazzo dettaglio. Proprio a lei, che si trovava dall’altra parte della
parete sfumata che separa la ragione dalla follia.
- Mostrami cosa devo vedere – aveva
ripetuto, con voce bassa, quasi provocante, alzando il mento verso di
lui, la sfida inestinguibile che ardeva sul volto.
Lui non aveva risposto, ma si era allontanato da lei. Era
alto, possente e la superava di tutta la testa, eppure Bellatrix aveva la
sensazione che Dolohov avesse
timore di lei. Un sentimento sottile, appena accennato, eppure
avvertibile… d’istinto, forse, come il predatore capace di fiutare la paura
inconsapevole della propria vittima.
Ah, la paura altrui. Il sinonimo della propria forza.
Sembrava quasi improbabile, dato che Dolohov
non era affatto un debole.
- Seguimi,
Lestrange – aveva detto poi, voltandosi verso la direzione da dove era venuto. Lei
l’aveva visto alzarsi il cappuccio e calarlo sul capo, tanto da lasciare
scoperta solo la parte inferiore del viso. L’aveva seguito, scendendo al
livello inferiore del sotterraneo, e presto l’identico odore che aveva
avvertito addosso all’uomo era tornato ad aleggiare nei corridoi, impregnandosi
anche nelle sue vesti, tanto che aveva fatto violenza sui propri polmoni per
costringersi a respirare quell’aria immonda. La mano putrida del Dissennatore
che aveva visto quel giorno le era tornata alla mente
in tutta la sua disgustosa anatomia. Aveva cercato di ricacciarla indietro,
mentre un sudore malsano aveva cominciato a percorrerle la schiena. Non aveva sentito però quel freddo acuminato, segno che gli ex-custodi
di Azkaban erano stati lì fino a pochi attimi prima.
- Siamo quasi arrivati. – aveva sussurrato Dolohov, mentre la voce sembrava aver riacquistato il
tremolio di prima – Il Signore Oscuro è appena stato
informato del suo arrivo. Tra breve lo vedrà Lui stesso. -
- Vedrà chi? – aveva sibilato la donna, mentre dentro di lei qualcosa
le urlava di smaterializzarsi, di scappare, tutto fuorché vedere quello che
sembrava stare dietro la porta di legno fradicio che Dolohov
stava aprendo.
- Lui –
aveva risposto l’uomo, spalancando l’uscio di una piccola cella.
Bellatrix tornò a guardare il pugno di neve stretto tra le
sue dita intorpidite. Si stava rapidamente sciogliendo. Lo scagliò
lontano, poi si chinò nuovamente a terra, affondando entrambe le mani
nella coltre bianca e spessa. Il freddo le penetrò immediatamente nella carne,
e un brivido delizioso le corse per la schiena. Aveva bisogno di freddo, freddo
e ancora freddo.
In un attimo si liberò delle sue vesti di Mangiamorte e si
sdraiò a terra. Il gelo morse la sua pelle straordinariamente
candida e lei si sentì nuovamente potente. Si girò su un fianco,
poggiando la fronte sul suolo e la sua mente snebbiata dal terreno gelido tornò
nuovamente nei sotterranei umidi della dimora del suo Signore.
Era stato sufficiente solo un istante per abituarsi
all’oscurità, mentre avanzava cautamente nell’ambiente stretto.
Sul fondo della cella, appoggiata alla parete come l’orrida
imitazione di un crocifisso, c’era un’esile figura
ritta e immobile, avvolta in logori cenci dal colore indefinito che puzzavano
di muffa e rapido deperimento organico. Le braccia eccessivamente magre, di un
pallore inumano,
erano spalancate con i palmi rivolti verso l’alto e il petto glabro dalle
costole sporgenti, che si intravedeva tra le luride stoffe strappate, sembrava
non respirare. Con crescente sgomento gli occhi della donna si erano spostati sul volto, un teschio spaventoso dalla rada capigliatura
giallo spento, dagli occhi azzurri diventati sporgenti per l’eccessiva magrezza
di quel viso che lei ricordava ovale e ornato da un lieve sorriso. Ora niente
animava le labbra pallide e secche e le guance incavate, ridotte a lembi di
pelle tesa sulle ossa, che sembrava in procinto di lacerarsi da un momento
all’altro.
Ma gli occhi, quegli occhi di un pallido azzurro che non si
erano mossi di un millimetro, quegli occhi perennemente spalancati che
guardavano il nulla e dietro i quali non c’era nulla,
e quella bocca, che se si fosse aperta ne sarebbe uscita una tenebra simile
alla pece per avvolgere il mondo, le erano penetrati sin nel più minuscolo
atomo del suo essere.
Lei era abituata all’orrore, dopotutto.
Non aveva neanche vent’anni quando
l’avevano sbattuta ad Azkaban.
Si era vista impazzire, senza poter fare niente per
impedirlo.
Le avevano assassinato Rodolphus.
Avevano costretto il suo Signore ad una non-vita per tredici
anni.
Ma non
era abituata a questo…Non avrebbe mai potuto esserlo.
- Barthy… - aveva mormorato, e le era
sembrato di aver chiamato la morte con il suo vero nome.
Quello che una volta era stato un uomo
non aveva avuto nessuna reazione, ma aveva continuato a fissare il vuoto
davanti a sé, un corpo ridotto a involucro cavo e sterile, che irradiava una
disperazione al di là della comprensione umana, condannato a vegetare fino
all’esaurirsi delle forze, condannato a diventare polvere senza la consolazione
che un’anima, forse, poteva trovarsi altrove.
Ma
l’anima di Barthy Crouch era stata divorata, stritolata urlante in un buco
nero.
Era bastato il solo pensiero a farle salire il primo
violento conato di vomito alle labbra.
Si era asciugata la bocca con un lembo della tunica, con
lentezza.
- I Dissennatori lo hanno portato qui poche ore fa – aveva
sentito dire a Dolohov, che era rimasto sulla soglia
della cella, il disgusto nettamente percepibile in ogni singola parola – Il Signore Oscuro ha preteso come primo segno dell’Alleanza
stipulata il suo rilascio. –
- Pensavo fosse morto… - aveva sussurrato Bellatrix, ancora
incapace di staccare gli occhi da quelli immobili di Crouch.
- Lo è… ma solo a metà. Il Ministero l’aveva confinato in
Islanda, sotto la sorveglianza di dieci Dissennatori. Non hanno voluto finirlo,
dopo che Fudge ha dato
l’ordine di somministrare il Bacio -
- Fudge pagherà tutto questo… con
la stessa moneta… e dopo l’anima gli farò divorare anche il corpo… – aveva detto lei in
una calma agghiacciante. Le parole erano uscite sibilando dalla sua bocca come
rostri incandescenti. La collera nel suo sangue sembrava ghiaccio rovente.
- Bellatrix… - aveva sussurrato Dolohov,
improvvisamente conscio della pericolosità della donna. Era come toccare
qualcosa di gelido o di incandescente, con lo stesso
effetto: si rimaneva per un istante incollati, e il dolore era terribile.
Il volto di Barthemius Crouch
continuava a restare immobile, ma allora sembrava guardarla, fissarla con
un’intensità corrosiva… forse era stata solo la sua immaginazione, forse era
stato solo uno scherzo della sua mente instabile infiammata dalla rabbia,
eppure aveva avvertito un dolore che proveniva dall’interno e che stava
diventando sempre più forte e intenso, devastante… Si era sentita paralizzata,
come avvolta in un bozzolo rovente che la stava ustionando, che le stava
strappando l’anima… era una tortura, una tortura… peggio di una Cruciatus,
molto peggio… quando aveva avvertito il rivolo di
sangue colarle giù per il naso aveva saputo con certezza che si sarebbe
trasformata in una torcia umana se non si fosse allontanata da lì.
Fu così che si era smaterializzata, fuggendo dagli occhi
orrendi di Crouch.
Aveva vomitato ancora tre volte sulla neve soffice del
Canada.
Avvertì la sua silenziosa presenza così chiaramente da
sapere che fosse lì prima di averlo visto.
Bellatrix sollevò la testa e guardò dinanzi a sé. Seduto
sulle zampe posteriori, a pochi metri da lei, un magnifico esemplare di lupo
grigio la stava osservando, gli occhi dorati ornati di nero dietro i quali si distendeva un’intelligenza versatile e al tempo
stesso primitiva, accompagnata da un istinto vecchio di secoli. Il pensiero che
lei, nuda e indifesa, potesse essere una facile preda
per un lupo a caccia nella stagione invernale, le sfiorò subito la mente, ma fu
accantonato in un angolo, mentre contemplava la meravigliosa lucentezza del
pelo d’argento, che sembrava catturare il colore indaco del cielo insieme agli
ultimi sprazzi rosseggianti.
Le labbra dell’animale erano scure e arricciate
in uno strambo sorriso, che le riportò alla mente un’espressione così simile a
quella da lasciarla senza fiato. Il volto di un uomo, atteggiato nel tipico
sorriso asimmetrico di chi vuole nascondere i propri sentimenti dietro
l’ironia, si insinuò dolcemente nella sua testa.
Rodolphus.
Un mese e mezzo esatti dalla
sua morte.
E fu
allora, davanti a quel lupo magnifico che continuava ad osservarla quasi
provasse timore e reverenza per lei, nel cuore di una distesa gelata, che
Bellatrix pianse per lui per la prima volta.
Lasciò andare le lacrime così, senza muovere un solo
muscolo, come una statua… la stessa imperturbabilità esteriore, il dolore
straziante che rimaneva chiuso nella prigione dell’anima, lo stillicidio lento
di gocce salate, non un singhiozzo, non un gemito.
Il pianto di una Mangiamorte.
Fine prima parte.