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Autore: Artemisia89    25/10/2009    5 recensioni
Al di là di St. Stephen’s Green, pensava, non esisteva più nulla.
(Un fiore sbagliato nato troppo presto. Un fiore sconosciuto.)
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chiara

 

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(storia di un’ora)

 

 

 

Al di là di St. Stephen’s Green, pensava, non esisteva più nulla. Al di là della cartolina in un parziale e argenteo bianco e nero che si rigirava tra le dita da più di un’ora, non viveva più. Smettere di respirare sarebbe stato semplice, molto meno faticoso e doloroso dell’indecisione che le accarezzava i capelli come la lama di una spada sospesa sulla sua testa. Le curve dolci, tondeggianti ed esili della panchina su cui sedeva, allungavano le proprie ombre sulle maniche del cappotto verde scuro: sembrava l’unico accenno di primavera lì, in quel parco, in pieno autunno. Un fiore sbagliato nato troppo presto. Un fiore sconosciuto.

Dieci mesi fa, quando aveva chiuso la porta della propria stanza in Italia si era detta che avrebbe preso a piene mani tutta la pioggia e tutto il sole che il cielo di Dublino avesse deciso di regalarle: che poi la pioggia le fosse penetrata nel cuore, più che nelle ossa, era una cosa che non aveva messo in preventivo, ma aveva fatto in fretta ad abituarsi a quel tempo così variabile – pioggia, vento, sole, arcobaleno, temporale, vento, il cielo terso di nuovo la pioggia -, le era venuto naturale come il camminare per ore, come il vivere per anni.

Nella cartolina una bambina con un cappotto rosa antico sostava di fronte al lago innaturalmente azzurro del Parco (gli unici due colori di quella costosissima stampa) e tendeva la mano verso la testa di un cigno: era decisamente una bellissima immagine, di gran classe e gusto. L’aveva scelta perché era sicura che lui avrebbe apprezzato, gradito, forse anche capito. Se quella bambina poi avesse potuto viaggiare fino a lui (che ora era così lontano, così lontano) e parlare al suo posto, e spiegargli tutto, e portargli il suo abbraccio più caloroso sarebbe stato magnifico. Ma i miracoli non accadono mai alle persone normali, e non c’è salvezza al mondo per gli indecisi.

St. Stephen’s Green era una grande oasi verde e fresca in estate. In primavera un tesoro di fiori. In inverno un grigio luogo misterioso pieno di infreddoliti tipi umani. In autunno una visione infuocata. E lei lo preferiva in quei mesi freddi, quando non c’erano due foglie dal colore uguale e spogliandosi, a casa davanti allo specchio, ne ritrovava frammenti tra i capelli e sul corpo. Dentro di lei scintillavano le ustioni che i rami lasciavano sfiorandola: quei segni, dentro la sua anima, erano come guide luminose nel mare di notte quando una cappa di tenebra immensa scende e il suono delle onde è terrificante quanto quello di un carillon rotto.

Rigirò di nuovo la cartolina, abbandonando per un momento la bambina e la sua mano tesa verso quel cigno dal collo ritto, regale, maestoso, non bianco ma grigio e ripercorse le volute della sua grafia sulla carta smagliante. “…e al di là di tutto, tu sai che…” Soffiò una risata e poi grattò via una macchia di cioccolato dal suo cappotto, con il risultato di sporcarlo ancora di più. E se invece avesse buttato in quell’acqua nera quelle parole? Perché non mangiarsele? O farle in mille pezzettini e seppellirle insieme alle altre foglie, con il fango e il vischio finché un’amabile scopa di saggina non le avesse fatte sparire per sempre.

 

Una bella stampa. Una bella stampa. La bambina si sporgeva fino a toccare l’acqua, la mano sospesa sul grigiore lunare del cielo e il forte azzurro del lago artificiale; il cigno restava immobile inarcando il collo. Niente da fare, non riuscivano a toccarsi. Le ali erano due ombre ripiegate sul suo corpo. La curva ad esse incombente ed irraggiungibile come un ordine.

 

Andar via non era stato difficile. Anzi, era stato liberatorio e tranquillo come saltare un fosso. Esaltante come il fuggire: la vigliaccheria non era poi un modo di essere così banale, aveva scoperto. Era solo un dire arrivederci in maniera diversa e meno conclusiva.

Non l’aveva salutato prima di andarsene; avevano entrambi addotto scuse plausibili quanto false, in egual misura. Avevano cercato una complicata semplicità, si erano ritrovati con le mani vuote di artifizi. Partire era l’unica soluzione, e poi ormai lei era grande, no? Era grande, grande, più grande della bambina in rosa (ecco perché la cartolina sembra così antica, pensò all’improvviso, perché appartiene ad una me bambina che ora non esiste più più più) quel giorno compiva ventiquattro anni e lui, che era così lontano da lei ne compiva quarantadue. Buon compleanno, questo è il mio biglietto d’auguri! Se solo la bambina riuscisse a sporgersi ancora un po’ di più, ancora un po’…

 

Uscita da St. Stephen’s Green, la costruzione vittoriana del centro commerciale del parco l’aveva salutata con immensi sorrisi di vetro. Il tempo andava scurendosi di nuovo: imboccò Grafton Street rallentando il passo, pensando che si sarebbe bagnata comunque, che non ci sarebbe stato riparo per lei questa volta, perché l’ombra possente di quella nuvola presagiva un temporale contro cui nessun fragile ombrello avrebbe potuto opporsi. E ad un tratto tutta la strada diventò nera, nera d’ombra di mille ombre e tutti correvano a destra e a manca per ripararsi nei negozi, nei pub, pochi mantenevano un’andatura più lenta, dieci minuti e si ritrovò sola sotto la pioggia d’ombra che la bagnava, sola sotto quell’ombra di tenebra immensa, quella nuvola soffice e ruvida e pesante, grande, grande, e vecchia, tanto vecchia, tanto grande.

 

Pochi passi e arrivò alla buca delle lettere, verde come il suo cappotto. La doppia scritta in inglese e in gaelico si distingueva appena sotto la cortina di pioggia: la cartolina, poi, si era tutta irrimediabilmente bagnata. Chissà cosa sarebbe mai riuscito a leggere lui, a questo punto. Alzò le spalle, guardò di nuovo tutta quella ombra, poi spinse la cartolina (la bambina, la sua mano tesa nel buio verso il cigno grigio e bianchissimo, il suo collo sottile e distante, così distante) nella buca contrassegnata come ALL OTHER PLACES e poi se ne andò via.

 

 

~

 

 

All’Anima mia. A te, Livia, che sei esattamente metà di me stessa. Se mai avrò una figlia vorrei poterla crescere come, in qualche modo, ho la presunzione di pensare di aver fatto con te. Se in qualche modo sono stata davvero la tua maestra, se in qualche lontano modo e in qualche tempo ancora più lontano, sono riuscita ad essere qualcosa di più che di un’amica di internet, allora posso dirti di essere felice. Felice, tanto felice, perché tu sei l’anima mia, e sei Livia sempre, e ci sono cose che solo tu potresti capire e che sono orgogliosa di te, orgogliosa e piena di amore. Ti voglio bene, buon compleanno. <3

 

  
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