Capitolo
24
In
confidenza
Un
irresistibile impulso ad arretrare attanagliò le membra di Fernand davanti alla
porta di casa, non appena fu giunto a destinazione, un passo e poi un altro,
polvere sottile sotto i tacchi.
Per
un istante, fu tentato d’indugiare ancora nel labirinto corrosivo e alienante
del dubbio che gli intossicava la mente; caracollare ancora un po’, senza posa,
sotto gli occhi indifferenti di quella falce di luna ancora alta nel cielo
livido.
Si
chiedeva quanto fosse trascorso; se qualcuno, nel frattempo, avesse accusato la
sua momentanea assenza. E di certo il letto di Dorian bruciava ancora, caldo di
lui, dello strofinio incandescente dei loro corpi.
Aveva
cercato, anelato, preteso con l’ossessione di un capriccio quei baci,
quell’amplesso rovente, crepitante di lacrime e di risposte negate. Si era
lasciato andare, esausto, sulle lenzuola arrotolate, la pelle di Dorian che
ancora palpitava sotto l’assalto delle sue mani. E non aveva trovato le
spiegazioni che cercava. Solo l’inganno di nuove
incoerenze.
La
sua ultima visuale. Lui, il suo
miglior amico, la simmetria carica di languore delle membra placidamente distese
sul letto in disordine, l’illusione di una stilla di pianto sul volto rilassato
in una pallida imitazione del sonno.
Allungò
il passo, e l’ordine inconsapevole degli eventi disposti lungo la scia
dell’abitudine lo proiettò dentro casa, il portone chiuso alle sue spalle, e
dritto, di lì, dritto verso il suo letto freddo e vuoto. Per non pensare
più.
Soltanto
ad Ambrosie avrebbe regalato a pieno diritto la vista dei suoi occhi gonfi di
lacrime, le guance roventi, le dita tremanti a rendere difficoltosa la presa
sugli oggetti. Se proprio non avesse potuto farne a meno.
E
solo a lei avrebbe permesso di lasciar scorrere le dita candide fra i suoi
capelli. Per trovare un momento di pace e scivolare
nell’incoscienza.
Solo
lei ed io. E via tutto il resto, fuori, fuori di qui! Riportatemi indietro il
mio Dorian, il mio amico prezioso!
-
Vuoi parlare?
Fernand
tirò su col naso. Soltanto allora si rese conto di essere capitolato barcollante
fra le braccia di sua sorella, un nodo d’angoscia che finalmente trovava il suo
sterile sfogo in forma di lacrime, come ghiaccio fra le
ciglia.
Sbatté
le palpebre: la verità era che mancava un aggancio, un appiglio razionale, un
qualcosa che giustificasse con parole sicure la sua angoscia, che potesse
ricondurre la sua esplosione disperata a un qualsivoglia frammento di realtà con
una motivazione logica a far da cemento; mancava un’etichetta in grado di
raccogliere, di denominare le sue sensazioni, la sintesi di un rapporto
causa-effetto. Perché stava male, perché le lacrime?
Mancava
la scintilla da cui lasciar dispiegare il suo provvidenziale sfogo, e non era
facile risolversi a confidarsi o a tacere. Avrebbe preferito precipitare fra le
dita pesanti del sonno e addormentarsi, sfinito, magari assaporando ancora un
po’ la blandizia di rivoletti salati lungo gli zigomi, sulle labbra socchiuse, e
di lì direttamente sulla veste di Ambrosie. Chiuse gli occhi, in attesa, gli
ultimi singulti di un pianto silenzioso che gli morivano nel petto. Ma lei, forse lei avrebbe
compreso.
Si
tirò su a fatica e scosse il capo, stordito, accogliendo quasi come un soffio di
vuoto momentaneo l’assenza delle carezze che avevano percorso pazienti il suo
viso, mondandolo di ogni traccia di pianto. Non era Ambrosie, in realtà, il
problema, né l’impatto con gli indecifrabili cambiamenti in atto intorno a loro.
Non era neppure il timore d’incuneare lo sguardo in fondo a quelle iridi
dall’impronta volitiva a frenare i suoi passi, quanto la tragica assenza di un
ponte fra parola e sensazione, l’utopia di un codice ideale attraverso il quale
attribuire un nome concreto ad un oggetto dai contorni
soffusi.
Gli
occhi di Ambrosie fissi nei suoi non gli avevano regalato l’immagine di un
freddo inquisitore pronto a indagare a proprio uso e consumo i suoi stati
d’animo, quanto piuttosto la sensazione di scrutare in fondo alle proprie
pupille viste attraverso uno specchio, un reciproco indagarsi di due strappi
gemelli dello stesso angolo di cielo. Come una miscela alienante di soggezione e
coscienza di sé.
-
È… successo – sussurrò debolmente, senza sapere, in concreto, dove le sue parole
l’avrebbero condotto.
-
Cosa, Fernand?
Il
ragazzo si lasciò sfuggire un breve sospiro rassegnato, un velo di conforto sul
volto teso, quando l’impatto leggero di un abbraccio dissipò parzialmente il
cocente imbarazzo, la frustrazione di non trovare le parole, guancia contro
guancia.
E
il respiro di Ambrosie palpitava su di lui, come alla ricerca di un indizio
attraverso il filtro della sua pelle.
-
Non è il tuo profumo, Fernand – decretò infine la ragazza, un sorriso
languidamente beffardo sul viso delicato, le iridi di freddo cobalto così
tragicamente uguali, gemelle,
speculari alle sue.
La
consapevolezza non gli dava il conforto sperato, perché era come non trovare le
parole dinnanzi a se stesso e a nessun altro.
-
Sei un’indovina? – Fernand incrociò le braccia sul petto,
sospettoso.
Perplesso,
vide Ambrosie allungare la mano pallida verso di lui e sollevargli dolcemente il
viso verso di sé, sì da ottenere la piena visuale sulla sua gola. Fernand si
ritrasse di scatto.
-
Posso sapere cos’ho, stavolta, e che cosa ti prende? Cos’è preso a tutti voi, a
dire il vero, che nelle ultime ventiquattro ore sembrate trovare nel mio collo
la fonte principale del vostro interesse… – sogghignò – Temete forse i
vampiri?
Ambrosie
scosse candidamente la testa bionda. Una luce placidamente sarcastica, annidata
in fondo alle iridi, che forse in un’altra occasione l’avrebbe mandato su tutte
le furie. Tacitamente, sadicamente provocatoria. E sembrava esserne non poco
consapevole.
-
No, niente “vampiri”, stavolta – dichiarò Ambrosie con fare condiscendente, una
residua venatura d’ironia a percorrerne i lineamenti – Oh, giudica tu! – si
risolse infine, brandendo uno specchio dinnanzi a sé e puntandolo verso suo
fratello.
Fernand
vide distintamente i propri occhi dilatarsi e spiccare lucidi nell’accesso di
rossore che gli era esploso repentino sulle gote, e di lì fino alla radice dei
capelli, nell’istante in cui tutta la sua attenzione fu calamitata dall’isoletta
color cremisi che spezzava, ampia e frastagliata come una chiazza di vino, la
superficie immacolata della gola.
Il
primo impulso fu di portarsi le mani dinnanzi alla bocca a trattenere
un’imprecazione, quando vide sua sorella scoppiare a ridere nel modo che sua
madre avrebbe di certo apostrofato come “del tutto sconveniente per una
signora”.
Fernand
si tirò il bavero della giacca fin sotto il mento e, per un istante, temette che
il palpitare furioso del sangue sulle tempie degenerasse in un
collasso.
-
Oh, accidenti a lui! È… Cazzo! È
orribile! – esplose un istante dopo, mordendosi il labbro.
Ambrosie
si deterse distrattamente le lacrime che le erano affiorate sulle
ciglia.
-
Dio, Fernand! Eviterò d’infilare il coltello ancora più a fondo, ma permettimi
di dire che era da un bel pezzo che non ti trovavo divertente fino a questo
punto!
-
Grazie tante! – ribatté Fernand con una punta d’asprezza.
Si
sentiva ridicolo. Ridicolamente colto in flagrante e puntualmente
deriso.
-
Continua, avanti, continua a “divertirti”! – le sibilò con voce gelida – Caso
mai, nel frattempo m’ingegnerò a trovare il modo più rapido e indolore per
sprofondare sotto le mattonelle.
-
Non è così grave, sul serio – ora Ambrosie cercava di tamponare il suo
imbarazzo, dopo l’infelice exploit – A patto che tutto ciò resti fra noi,
s’intende – puntualizzò, ricomponendosi di fretta.
Fernand
chiuse gli occhi, a disagio, assecondando in silenzio l’iniziativa della ragazza
di coprire alla meglio l’impronta dispettosa della sua ultima serata sotto uno
strato di cipria. Gli risistemò premurosamente il nodo della
cravatta.
-
Ecco, così va decisamente meglio – decretò con malcelata ironia, lo sguardo che
vagava critico sulla sua opera.
Fernand
deglutì a fatica, considerando fra sé quanto l’attenzione esercitata dalla punta
delle proprie scarpe rivestisse per lui l’alternativa del tutto provvidenziale
per evitare ulteriori scambi di sguardi nel giro di qualche istante. Avrebbe
preferito che la sua riluttanza immotivata crollasse dal suo volto come una
maschera di creta, lasciandogli il sollievo di condividere la sua inesprimibile,
irrazionale angoscia con la persona che più di tutte, nell’arco della sua vita,
fosse riuscita a frugare in fondo alle sue reticenze, a vedere oltre lo specchio
dei suoi occhi sfuggenti. Ma le parole non gli affioravano nella testa, come
quando aveva maldestramente esortato Dorian a chiarire le sue ennesime
ambiguità. Il buio.
-
Dove sei stata, Ambrosie?
Fernand
tacque. Non era una richiesta originale, e lui conosceva la risposta, la stessa
che in capo a qualche istante gli si era modellata nella mente come un marchio.
Per un attimo fu sfiorato dalla sensazione angustiante di essere stato
tragicamente tagliato fuori dai suoi orizzonti.
Erano
cambiate troppe cose, in quella manciata d’ore. Non abbastanza da dividere le
loro vie, considerò in uno sprazzo di sollievo misto a pungente rammarico.
Doveva riguadagnare terreno, disperatamente, urgentemente: almeno con lei,
adesso che era in tempo. Aveva già rischiato di perdere Dorian, di mettere
azzardatamente a repentaglio le sue uniche certezze, i suoi capisaldi – o chissà
che non avessero già provveduto da soli, a logorare tutto.
-
Ti assicuro che è tutto a posto, Fernand – lo precedette Ambrosie – Fra noi non
cambia nulla. Tu, piuttosto. Se è come ho compreso, giurami che non dovrò temere
da un momento all’altro di essere chiamata “zia”! No, no, aspetta – lo incalzò –
Una ragione dev’esserci per forza, e prego, prego che tu non venga a dirmi che
non si tratti di quella… Com’è che si chiamava? Clothilde… Che ti abbia seguito
appositamente fin qui e messo nuovamente gli occhi addosso – avesse voluto Dio
che fossero stati soltanto gli occhi,
quella volta…?
-
Perché ora vuoi ritirare fuori quella maledetta faccenda? Non ti è mai andata
giù, è così. Dopo tanto tempo. Quando la smetterai? – Fernand sorrise,
sibillino.
Sapeva
che Ambrosie non diceva sul serio, malgrado avesse ritirato fuori l’argomento
del tutto a sproposito e senza alcun preavviso. Sapeva che non l’avrebbe
spuntata facilmente, stavolta, perché quasi di certo lei aveva ancora un asso
nella manica. Neppure Ambrosie avrebbe però potuto contare su solide garanzie di
vittoria.
- È
completamente diverso – proruppe la ragazza, e Fernand fu certo di aver scorto
sulle sue guance un luccichio di fiera indignazione.
-
Completamente diverso, stavolta, capisci? Avevi sedici anni. Quella… Clothilde –
sputò fuori quel nome quasi si trattasse di qualcosa di sgradevolmente
dolciastro incollato alla lingua – Aveva spudoratamente approfittato della
situazione, alla festa del borgo. Ricordi? Ti aveva attirato nel vecchio fienile
e… Di certo avrà avuto di che gloriarsi, con le sue degne comari – concluse con
un velo di divertita acidità che Fernand avvertì insopportabilmente
caustico.
-
Sei incorreggibile – il ragazzo sollevò gli occhi al cielo – Ad ogni modo… Non
mi era piaciuto veramente. Sei più felice, ora? Poi… Non lo so. So soltanto che
qualche mese più tardi Clothilde andava in sposa a quel giovane marchese di
città, e da lì non seppi più nulla. Mercanti da generazioni, esattamente come
nostro padre, prima che cadesse in disgrazia. Poi, per loro, la svolta: si
legano al duca Alphonse du Lac, seguono il suo astro nascente e investono parte
delle proprie rendite nell’acquisto del titolo nobiliare; a quel punto, non
restava che maritare le figlie con ottimi partiti dal nome altisonante, ed ecco
che i sacrifici di una vita intera trovano il loro giusto coronamento su tutti i
fronti. Fine delle trattative. Come vedi, fra me e lei non fu che uno scambio
equo.
-
Da quando sei diventato cinico, Fernand? Non volevo che stessi male, tutto qui –
la voce di Ambrosie si era addolcita – E non lo voglio nemmeno
adesso.
-
Ma ora è passato, avrai compreso. Non è stata un’esperienza edificante, sono
d’accordo con te. Ma, come vedi, sono ancora in piedi – sentenziò Fernand – E tu
non hai motivo di rinverdire la vecchia sagra della
gelosia.
-
Lo so – gli occhi di Ambrosie si assottigliarono minacciosamente – Mi limito
soltanto a ripagarti con la stessa moneta.
Fernand
fu scosso da un lampo d’irritazione.
-
Ah, bene, tutto comincia a quadrare. E noto con piacere come si siano invertiti
i ruoli. E se è davvero qui che vuoi arrivare, puoi tranquillamente scordartelo,
sorella cara, che riveda da cima a fondo le mie considerazioni su Raphäel
Lemoine e su quel tuo insano e pericoloso capriccio!
-
Ho forse fatto il suo nome? – la ragazza si volse alla finestra, offrendogli il
profilo, le labbra irrigidite in un’espressione dura.
Sarebbe
parsa quasi buffa, gli occhi grandi, i lineamenti minuti e quell’espressione
grave dipinta sul viso.
-
Lasciami scegliere la mia felicità, te ne supplico, Fernand! – la sua voce
sembrava essersi accesa in un pigolio supplicante, quasi insolito su quelle
labbra capricciose – Non asserragliarti in posizioni di principio che potrebbero
portarti soltanto a cozzare contro il muro che tu stesso hai sollevato! – lo
redarguì.
Fernand
fu preso dall’impulso di afferrarla, di stringere le dita su quel polso sottile.
Tuttavia, un istintivo sfioramento fu sufficiente a farlo ritrarre come se la
sua pelle scottasse. E avvertì la vecchia ferita bruciare come sotto una
manciata di sale.
-
Non dire così, perché non è così! – serrò le mascelle, trattenendo un singulto
isterico – La tua felicità? Come ti
vengono in mente certe cose? Raphäel non è quello che sembra. Ci sta giocando
tutti come tante graziose marionette. Scusami se insisto, ma del resto non
sappiamo che obbiettivi ha con noi, non abbiamo alcuna garanzia. E lui agisce
indisturbato: sa tutto di noi, è libero di rigirarci a suo
piacimento.
- A
che devo l’ennesima filippica, Fernand? – Ambrosie lo fronteggiò con espressione
tagliente – È sempre lo stesso discorso. Giorni, settimane, mesi! Hai paura che
ti porti via la tua sorellina. Che mi illuda di qualcosa e poi getti tutto nel
dimenticatoio. Che io m’intestardisca e punti i piedi fino a scontrarmi con la
cruda realtà. E allora… Povera Ambrosie, la piccola, sciocca, sentimentale
idealista! È ciò che pensi.
-
Forse, perché in fondo lo sei. E lui
ha già illuso tutti – mormorò Fernand con voce strascicata, l’unghia del pollice
stretta fra i denti, sì da poter negare all’occorrenza.
Socchiuse
le palpebre, aspettandosi da un momento all’altro uno scoppio d’ira, seguito
dall’ennesima, esasperante discussione priva di un approdo concreto. L’ultima di
una triste serie. O uno scappellotto sulla nuca.
Invece,
con sua sorpresa, Ambrosie gli sorrise cameratescamente, l’espressione sagace
che le era così diabolicamente congeniale quando si trattava di architettare
fantasiosi complotti come fra le spire di un gioco affascinante e pericoloso,
adrenalina in punta di dita.
Cosa
si erano messi in testa, quel giorno?
Sarebbe
stato bello scherzare all’infinito, poter giocare ancora ai ribelli, vivere
tutto come un sogno da bambini viziati, le cui conseguenze non sarebbero giunte
a disturbarli durante la veglia.
-
Ti amo, fratello mio – Ambrosie lo strinse fra le braccia, e i capelli biondi
danzarono fra le sue dita.
La
sovrastava. Fernand considerò che avrebbe potuto avvolgerla completamente fra le
sue braccia, come una bambola insospettabilmente riottosa. Forse, era ancora lui
il fratello
maggiore.
-
Una volta, però, non eri molto più alto di me – gli soffiò la ragazza,
delicatezza estrema che fluiva dalle labbra, un sussurro vagamente delirante –
Ora no. Sei diventato un uomo. Ho fiducia in te. E… Lui avrà compreso.
Per
poco Fernand non si sentì mancare.
-
Come fai a sapere che…?!
-
Che è un lui? Parole tue – seguitò a
pungolarlo Ambrosie, le iridi indagatrici fisse sul suo
viso.
Fernand
roteò gli occhi verso il cielo.
-
Rettifico: tu non sei una donna, sei una specie di inquisitore. Ma… Cosa cambia
per te, in fin dei conti?
-
Cambia tutto, Fernand. Cambia che sei innamorato. E… tutto questo, in verità,
non mi rende più tranquilla.
-
Forse ho risolto un certo tuo problema basilare, Ambrosie: non volevi correre il
rischio che un’altra donna ti mettesse da parte. Astuta…
-
Basta pensare questo di me, Fernand! – Ambrosie si riscosse, un luccichio di
collera in fondo alle pupille – Non c’entra nulla. Che razza di opinione
schifosa e becera ti sei fatto di me? Pensi davvero che sia così egocentrica e
meschina?
-
No, non lo penso, a dire il vero – Fernand arretrò d’un passo, la mano che
correva istintiva a sistemare la lunga ciocca bionda che le era caduta sul viso
– Penso solo che non vi sia sistema più facile per farti
arrabbiare.
-
Va’ al diavolo!
-
Come sta Raphäel? – azzardò Fernand.
-
Certe domande suonano quasi imbarazzanti, sulla tua bocca – il volto di Ambrosie
era tornato serio.
-
Anche se non gode esattamente delle mie simpatie, ciò non significa che debba
passarsela male, non credi?
La
ragazza scosse il capo.
-
No, comunque sia. Non se la passa meglio del solito, a dire il vero. Cosa
pensavi? Non è ancora iniziata la stagione della mietitura. Ora come ora, non ha
un’occupazione – concluse con malcelato nervosismo.
-
Già. Ed ora, pare che se ne sia messa in testa un’altra delle sue: diventare
medico. Ci pensi? Raphäel medico! Cosa farà? Venderà sua nonna per entrare nella
corporazione? Non che voglia fare il guastafeste, ma… è
strano.
-
La sua forza di volontà è ammirevole, invece. Non lo sottovaluterei. È strano
che abbia studiato. Che sia così… colto. Sa un sacco di cose che non
immagineresti. E si esprime quasi come un nobile. Eppure, da quando lo conosco,
non ha svolto che lavori di bassa manovalanza, come se volesse ostinatamente
restare nell’ombra.
-
Che tipo! L’ho sempre detto che per me nascondeva
qualcosa.
-
Se n’è andato di casa. Non ha vissuto sempre in questa
città.
-
Pare sia nata una nuova usanza, tra quelli che amano sfidare lo spauracchio
della miseria: partire in cerca di grane – ribatté Fernand, avvertendo per la
prima volta quello strano ragazzo affine, in una certa misura, alla sua
realtà.
-
Tu, per lo meno, quando la situazione ha iniziato a pesarti, hai trovato il
pretesto buono per andartene: curare gli affari in città per conto di nostro
padre – constatò Ambrosie – Lui, invece… Sembra scollegato da tutto, sospeso
nell’aria. Tutto ostinatamente alla giornata.
-
Avrà avuto qualche guaio con la giustizia là dove viveva prima, suppongo.
Conoscendolo anche solo superficialmente, non scarterei l’ipotesi. Qualcosa di
cui non vuole parlare, chissà. Anche se ci sono troppe cose di cui “non si vuol
parlare”, a dire il vero; e lui non è un’eccezione.
-
Un motivo in meno per venire a fare il solletico al duca da vicino, se ci pensi
– ribatté logicamente la ragazza.
Fernand
si alzò di scatto.
-
Perché stiamo qua a interrogarci su cosa Raphäel abbia combinato in passato per
comportarsi in tutto e per tutto come un reietto che cerca di ridare un’assurda
parvenza di normalità alla sua vita?
-
Non lo so. Vorrei solo aiutarlo.
-
Non sai nulla di lui. Raphäel Lemoine, provenienza non si sa, condizione
personale non si sa, vent’anni o giù di lì.
-
Ventuno. Ha ventun anni – lo corresse meccanicamente
Ambrosie.
-
Questa te la concedo – Fernand sollevò gli occhi al cielo, spazientito,
folgorato all’improvviso dal desiderio pressante di lasciar cadere il discorso
quanto prima.
Qualunque
cosa, considerò in un fulmineo accesso d’imbarazzo incandescente: persino il
resoconto del suo ultimo incontro con Dorian – non aveva racimolato neppure il
coraggio di fare il suo nome. Persino quella sarebbe stata un’alternativa degna
di considerazione, pur di abbandonare le acque torbide in cui si stava
inoltrando.
-
Avevo ragione, dunque? – proseguì tuttavia, sforzandosi di contenere entro i
limiti dell’impercettibilità quella sottile venatura d’accusa che gli
serpeggiava nella voce – Resta il fatto che non sai quasi nulla di lui,
Ambrosie. Non più di quello che sappiamo tutti, per lo meno. Tranne il fatto che
è affascinante, che sembra avere un seguito in città; e, se si trattasse solo di
questo, di certo non morirebbe per non aver mai nulla di appropriato da dire per
tirarsi fuori d’impiccio.
-
Per te è davvero così importante… sapere di lui? – indagò la
ragazza.
-
Se vuoi metterla su questo piano, sì, lo è eccome. Vorrei soltanto togliermi il
dubbio che Raphäel non sia veramente dei nostri. O che nutra qualche interesse
personale.
-
Accantonando per un attimo Raphäel e quel che lo riguarda, al momento c’è
dell’altro a cui pensare. Auguste. Ci ha convocati tutti in mattinata, nel caso
nessuno ti avesse ancora riferito il messaggio. E a quanto ho capito, pare abbia
in serbo qualcosa di urgente. Per tutti – mormorò la ragazza, a
bruciapelo.
Fernand
sentì un ammasso gelido stringergli la spina dorsale, per poi annidarsi
tenacemente all’altezza della nuca. Le labbra asciutte, cercò di controllare il
tremito nella voce.
-
C-come lo sai? Chi ti ha detto… – abbozzò.
-
Raphäel. Era con lui. È proprio qui che volevo arrivare.
-
Già… – Fernand annuì, disorientato.
Auguste
aveva in mente qualcosa. Di nuovo. Aveva deciso da solo. Fernand
tremò.
-
Ho paura, Ambrosie. Ho paura di ciò che può essergli saltato in mente stavolta.
Se le cose stanno come temo, allora sarà meglio raggiungerlo quanto prima –
concluse.
* *
*
Un
fluire discontinuo di sensazioni, sprazzi isolati e confusi di coscienza a
rimestargli nella mente. Nessuna riflessione, nessun pensiero articolato su un
filo lineare.
Solo
il ricordo di quel delirio vibrante in bilico tra voluttà e repulsione,
l’immagine delle due donne dal volto dipinto nel suo stesso letto, due maschere
inquietanti e sfuggenti che vorticavano davanti ai suoi
occhi.
Poi,
il breve paradosso di un istante tranquillo, quando aveva riaperto gli occhi,
ormai mattino inoltrato, la mente sgombra, annebbiata. Accoccolata contro il suo
corpo nudo, reduce della notte trascorsa, la ragazza dai capelli scuri si era
stretta a lui nella nebbia del sonno. L’aveva sentita mugolare qualche frase
incomprensibile; “sei bello”, o qualcosa del genere.
E
forse era stato allora che l’improvvisata impalcatura di nebbia che velava le
sue percezioni si era disciolta dinnanzi ai suoi occhi. Ed era tornata la
consapevolezza, prepotente come un’ossessione. Nel turbinio ingannevole di un
istante, gli era balenato nella mente che nessuno gliel’aveva mai detto. Che era
bello. Tranne Lucien.
Aveva
tentato di scacciare l’idea dalla mente, si era riappropriato della sua roba e,
senza una parola, aveva calcato con passi furiosi il percorso tortuoso che
l’aveva riportato a casa.
Poi,
ricordava solo di essere stato male, l’alcool che gli ribolliva ancora nelle
vene, o forse un fastidioso residuo ancorato al cervello. Emilie non era
tornata.
E
lui aveva maturato la sua decisione sulla scia un istinto sbagliato che,
martellandogli nella coscienza, ogni volta tentava di ispirargli la scelta
giusta. La scelta
giusta!
Restava
solo da attendere che i suoi compagni si facessero vivi, e anche stavolta
sarebbe andata, scivolando via tra le dita.
Respirò
profondamente, gli occhi socchiusi nella luce troppo intensa che gli scavava
voragini di pulsante dolore alle tempie.
Fu
uno schianto improvviso a schiaffeggiargli brutalmente la realtà sulla faccia. E
no, non sarebbe stato facile.
Buongiorno,
Auguste! È una bella giornata, dopotutto.
-
Perché l’hai fatto, Dorian, perché l’hai fatto?
Auguste
si premette le mani sulla fronte, una fitta prepotente che gli esplodeva nel
cranio. Era bastata una maledetta porta sbattuta a farlo
sobbalzare.
-
Cos’avrei fatto di male, stavolta?
-
Accidenti a te e a quella diavolo di porta!
Strizzò
le palpebre, quasi a impedire che gli salissero le lacrime agli occhi. Dorian
indugiava intorno a lui mantenendo una certa distanza, come se temesse di
scalfirlo o di esserne scalfito. Trattenne il fiato.
-
Stai bene, Auguste? – Dorian si era fatto coraggio e gli aveva posato una mano
amichevole sulla spalla.
Ora
sembrava seriamente preoccupato.
-
Mi rispondi, Auguste? Cosa ti prende?
Auguste
provò a riaprire prudentemente gli occhi. L’aspetto di Dorian aveva in sé un
impatto notevole, e del malessere di due notti prima pareva non conservare altro
che la fasciatura alla mano. La febbre gli era calata un po’ troppo in fretta
del previsto, a dire il vero, e sul suo volto erano scomparsi quasi del tutto i
segni di quella leggera estenuazione che gli aveva percorso i lineamenti, quando
l’aveva sorpreso in preda ai brividi, raggomitolato sul pavimento, di fianco
alla suggestiva pozza di sangue di una ferita da niente. Era davvero bastato
così poco a mandare entrambi nel panico?
-
Hai bevuto di nuovo, è così – constatò il giovane con voce
piatta.
-
Da cosa puoi dedurlo, stavolta? – Auguste considerò quanto non fosse una cattiva
idea guadagnare un po’ di tempo.
-
Hai un aspetto orribile.
Auguste
per poco non scoppiò a ridere di fronte a quell’aristocratico nasetto a punta
che si arricciava impercettibilmente. Era quanto mai consolidato che Dorian non
possedesse esattamente il dono della diplomazia, e da certe sue uscite in
particolare non era poi così difficile dedurre che, sotto molti aspetti, fosse
ancora un ragazzino. Un ragazzino cresciuto male, spezzato e sospeso a metà,
considerò in una punta di sordo rimorso. Gli faceva quasi
tenerezza.
-
Ti ringrazio. La faccia, comunque, me la sono lavata,
stamattina.
-
Non ti sei preso la briga di guardarti bene allo specchio, a quanto
sembra.
Auguste
inspirò profondamente, fingendosi oltremodo seccato.
-
Sempre più divertente, Dorian.
-
Oh, insomma! Lo dicevo per te. Volevo… che ti distraessi per qualche attimo su
qualcosa di poco importante – Dorian aveva preso a tormentarsi nervosamente le
dita, a disagio – Hai bisogno di qualcosa? Di un bicchiere d’acqua, di
distenderti…
Auguste
scosse il capo.
-
No, Dorian. Ti ringrazio.
-
Perché ci hai convocati, se non ti senti bene?
-
Tra un po’ starò meglio – lo precedette Auguste,
sibillino.
Dorian
incrociò le braccia sul petto, il volto stranito.
-
Hai vinto. Ed io continuo a non capire nulla.
-
Capirai tra un po’ – per un istante, Auguste sentì le forze venire
meno.
Si
prese il capo fra le mani, sorreggendosi sui gomiti.
-
Aspetta soltanto che arrivino gli altri. Solo questo –
soggiunse.
I
suoi occhi fissarono Dorian e, per un istante, Auguste sentì i propri lineamenti
modellarsi in uno strano sorriso, un fioco desiderio di fiducia che tuttavia
lasciò nuovamente spazio alla tristezza, non appena l’impulso
scomparve.
Vide
Dorian stringersi nelle spalle, scettico, per poi distogliere rapidamente lo
sguardo. Doveva essersi arreso all’evidenza.
-
Non puoi restare così – riprese in capo a una manciata di
secondi.
Auguste
scosse mestamente il capo; gli occhi chiusi, seguitò a massaggiarsi
distrattamente le tempie.
-
Aspetto che passi. Cos’altro faresti, al mio posto?
-
Non berrei? – azzardò il ragazzo.
-
Già, grazie per avermelo ricordato.
Dorian
scorse su di lui con lo sguardo venato di sottile sarcasmo. Poi, del tutto
inaspettatamente, Auguste si sentì strattonare pigramente per il risvolto della
marsina.
-
Ho trovato – Dorian stava escogitando qualcosa – Prova a levarti la giacca,
Auguste!
-
Uh?
-
Levati la giacca, ti dico!
Auguste
si lasciò andare a un sospiro teatrale.
- È
proprio necessario continuare a tormentarmi?
-
Starai meglio, dopo, te l’assicuro.
-
Non è il caldo né tanto meno la mia giacca, il problema, se non ci avessi fatto
caso – azzardò.
Ma
prima che avesse il tempo di sottrarsi ad un’estranea iniziativa, avvertì le sue
mani scorrere sui bottoni della giacca e scuoterlo per il colletto, come per
indurlo a sfilarsela del tutto. Auguste irrigidì le spalle, d’istinto, per poi
acconsentire in capo a qualche istante, persuaso che forse, se avesse finto di
assecondarlo, Dorian l’avrebbe lasciato un po’ in pace.
-
Si può sapere cos’avete tutti quanti, oggi, contro i miei vestiti? – proruppe,
di getto, per poi morsicarsi la lingua in capo a qualche istante, avvampando in
viso.
Era
meglio che nessuno sapesse. Dorian in particolar modo.
- A
cosa ti riferisci? – il ragazzo si sporse verso di lui, le iridi cerulee
percorse da una luce interrogativa.
- A
nulla, Dorian. Dimentica quello che ho detto!
Il
giovane scrollò le spalle.
-
Oh, come preferisci.
Auguste
inspirò profondamente, confidando in cuor suo che forse il mal di testa si
sarebbe attenuato almeno un po’, prima che giungessero gli altri. Aveva bisogno
della propria completa lucidità.
Il
suo cuore mancò un battito, quando, senza preavviso, sentì le mani di Dorian
scivolare come serpenti su di lui, scostargli i capelli ed ancorarsi saldamente
alle sue spalle, i pollici che affondavano decisi alla base del collo, scorrendo
fin sotto le scapole. Trasalì.
-
Dorian! Posso sapere cosa ti è saltato in mente stavolta?
-
Sta’ calmo, Auguste, e cerca di rilassarti! Salti su davvero per poco. E se
davvero sei sempre così… – gli insinuò con voce melliflua – Sempre sul “chi
vive” e con i nervi costantemente a pezzi, allora capisco davvero perché
invecchi in fretta. Beh, ora cerca solo di stare un po’ zitto! – la voce di
Dorian suonò imperativa – Sei così teso che mi sembra di massaggiare una lastra
di marmo.
Auguste
tentò di distogliere momentaneamente il fulcro delle proprie percezioni da
quelle dita divine che infierivano su di lui, scorrendo in tondo sulla cute che
rabbrividiva e sciogliendogli lentamente i muscoli del
collo.
-
Bravo, Dorian. Spiacente, ma io non sto invecchiando: non ancora, per lo meno; e
poi, dimmi un po’: per caso sei venuto fin qui per subissarmi di inutili
osservazioni che non hanno capo né piedi?
-
No. Ho solo visto che non stavi per niente bene e, come vedi, provo a fare ciò
che è nelle mie possibilità per aiutarti.
Auguste
fremette, in attesa di vibrare il suo prossimo affondo. Gli veniva da
ridere.
-
Sempre che non mi stia sbagliando, Dorian, ma non eri tu quello che fino
all’altro ieri pareva detestarmi in modo più che appassionato? – lo
pungolò.
Dorian
sussultò leggermente, circondando a piene mani le spalle di Auguste e indugiando
lentamente sulle clavicole in rilievo che spuntavano dallo scollo lento della
camicia.
-
Non ti sbagli affatto… – Auguste non poteva vedere Dorian in viso, tuttavia in
quel momento ebbe pressoché la certezza che un gran sorriso beffardo e
compiaciuto gli fosse affiorato sul volto – Ti detesto ancora, disperatamente e
con passione.
-
Bene – asserì con voce asciutta – Posso solo esserne felice, di stare in qualche
modo nei tuoi pensieri.
Un
affondo secco e repentino di dita risolute intervenne a strappargli un gemito
stupefatto, un attimo prima di convogliare la fredda tensione che gli percorreva
i muscoli in un turbinare di brividi lungo la schiena. Auguste serrò le
palpebre, un debole sussulto che moriva tra le labbra, testimone solitario
dell’ansito disperato che aveva prontamente ricacciato nel petto.
Tremò.
Smettila,
Dorian, smettila con questo gioco idiota! Ora.
Lo
udì ridacchiare sommessamente, presenza indecifrabile alle sue spalle, per poi
sfilargli il nastro dal codino, a tradimento.
Quel
gesto… Auguste avvertì per un istante uno spiacevole formicolio all’altezza
dello stomaco, un impercettibile lampo di disgusto. Annaspò a vuoto, l’impulso
di stracciargli dalle mani quello stupido nastro, ma Dorian fu più svelto.
Auguste deglutì a vuoto, quando avvertì la morbida consistenza del tessuto
stringergli dolcemente la gola. E il respiro di Dorian accarezzargli i
capelli.
-
Sei sorpreso, Auguste? – un sussurro strisciante gli solleticò l’orecchio – No,
non dimenarti, fa’ il bravo! E dimmi: sei proprio sicuro, in questa situazione,
che non saresti pronto a confessare… qualunque cosa desiderassi
chiederti?
Auguste
sbatté le palpebre, gli occhi umidi di lacrime soffocate, la paura che si
congelava in un groppo di tristezza e nessun altro pensiero nella mente. Dorian
stava impazzendo.
-
M-mi dispiace, Dorian, te lo giuro… – Auguste sentiva la pressione del laccio
aumentare, un fremito di terrore che gli attanagliava la
gola.
Corse
qua e là con lo sguardo, nel tentativo impossibile di infilare lo sguardo in
quello di Dorian e fissarlo in volto. Ma Dorian gli stava alle spalle,
seguitando imperterrito nella patetica farsa di tenerlo in pugno. Che magari,
chissà, non si sarebbe neppure rivelata una farsa.
Scusami,
piccolo, scusa per tutto! Se ti ho fatto impazzire. Se ho fatto di te qualcosa
che non saresti voluto essere. Perdonami, se ho reso tutto
difficile!
Il
respiro leggero che gli sfiorava la pelle scandiva i secondi con una quieta
regolarità che per lui profumava inspiegabilmente di diabolico. Come un
martellare ipnotico in fondo alla testa.
Poi,
l’incubo si diradò dinnanzi ai suoi occhi, così come le sue percezioni viziate
l’avevano evocato. Il nastro gli ricadde sulle ginocchia. Volse lo sguardo,
stranito. Dorian rideva fino alle lacrime, piegato in due sul basso tavolino di
legno.
-
Sei così suggestionabile, Auguste. Dio, davvero credevi
che…
Auguste
spalancò le palpebre, sbigottito. Poi venne la collera, una secchiata gelida in
pieno volto.
-
Va’ in malora, stronzo! Ti sembra… Ti sembra divertente?
-
Non arrabbiarti, Auguste! Ti vengono le rughe… – Dorian era scivolato nuovamente
al suo fianco, reggendosi precariamente sullo schienale della
sedia.
Lo
accarezzò timidamente.
-
Era… La mia offerta di pace, se non sono inopportuno –
proseguì.
-
Tu sei sempre inopportuno – Auguste
se lo scrollò di dosso con un moto infastidito – Mi fa… rabbrividire la tua
superficialità. Cielo, ti rendi conto? Il fatto che sia capace di scherzare su…
Oh, non ti reputavo così sciocco!
-
Lo so, è stato di cattivo gusto, te lo concedo. Ma era una tentazione troppo
appetitosa, giocare con i tuoi nervi tesi. E, per inciso, nemmeno io ti reputavo
così sciocco da caderci con tutte e due le gambe.
-
Una tentazione veramente appetitosa, rubarmi dieci anni di vita – lo interruppe
Auguste, facendogli grottescamente il verso – Va bene, lo ammetto: ero davvero
spaventato, e tu sai essere orrendamente inquietante. E Auguste è un deficiente
che se la fa sotto. Ora che hai raggiunto il tuo scopo, puoi anche andartene
tranquillo all’inferno.
Dorian
tentava di recuperare un filo d’equilibrio, le membra rese fragili dall’accesso
di risa, finché non riuscì a sporgersi verso di lui e a schioccargli un bacio
sulla guancia.
-
Perdonami, davvero, ti giuro che sarà l’ultima volta che mi prendo gioco di
te.
-
Della mia salute mentale – lo corresse Auguste con voce
ghiaccia.
Sospirò,
gli occhi socchiusi a fessura, una maschera d’indignazione sul viso. Se almeno
fino a quel momento era riuscito a trattenere l’istinto di picchiarlo, con ogni
probabilità lo doveva soltanto a quel fragile luccichio d’innocenza offuscata in
fondo alle iridi, scevro di cattive intenzioni palesi, che aveva intercettato
mentre il suo sguardo si posava su di lui, inquadrato in quegli occhi dal taglio
malinconico.
-
Non… non potrei mai farti una cosa simile. E no, non scherzo stavolta – Dorian
sembrava meno intenzionato che mai a lasciarlo respirare.
Gli
si era nuovamente accostato come una presenza ingombrante, le mani che si
facevano timidamente strada sulle sue spalle, quasi a voler chiedergli perdono,
ricercando nel contatto casuale delle mani una qualche forma di sostegno e le
parole che faticava a trovare nella sua mente.
I
pensieri quasi certamente giravano a vuoto dinnanzi a lui senza lasciarsi
afferrare ed inquadrare nella forma di una frase.
-
Non è vero che ti detesto, Auguste. Cioè, qualche volta soltanto. D’accordo:
mentirei se dicessi di non averti detestato almeno una volta. Volevo soltanto
dire… – le sue labbra s’incresparono nell’incertezza, gli occhi si smarrirono –
Sei pur sempre l’uomo che mi ha salvato da morte certa. E credo di aver imparato
a volerti bene, in un certo qual modo, anche se sono in collera con te e non
accetterò mai le ragioni con cui cerchi di giustificare il tuo
silenzio.
-
Dorian, ti prego, basta così, basta, te ne supplico!
Auguste
si riscosse solo quando si rese conto di averlo attirato istintivamente a sé
nell’enfasi di troncare d’urgenza il discorso che l’aveva spinto a gettarglisi
addosso e gridargli contro. Fissò la testa bionda morbidamente accostata alla
sua spalla, e per un attimo sentì bruciare dentro di sé il desiderio irrazionale
che quel flusso di disorganiche e confuse considerazioni cessasse per sempre e
non tornasse mai più a tormentare la sua coscienza, il sonno e la
veglia.
Che
Dorian se ne stesse almeno un po’ tranquillo finché non fossero giunti gli
altri: gli sarebbe bastato questo.
Sospirò,
centellinando il fiato residuo che gli era rimasto nei polmoni. Lasciò vagare il
proprio sguardo fra le crepe della parete dinnanzi a sé, la consapevolezza di
quei pallidi occhi azzurri fermi su di lui che gli trasmettevano un’intrinseca
vulnerabilità direttamente sotto la pelle, per osmosi.
Vulnerabilità
dall’impatto sfuggente, delicata come i suoi colori, dissimulata nei lineamenti
sottili del volto ingannevolmente sereno; e quegli occhi malinconici, la
tristezza caliginosa in fondo alle pupille che emergeva come una chiazza di
sangue su una veste immacolata, inquietante stonatura nell’insieme, come un
terribile errore d’esecuzione a malapena percettibile.
-
È… è strano vederti degnarmi di qualcosa in più di uno sguardo di sufficienza –
le sopracciglia di Dorian s’inarcarono in un moto
sarcastico.
-
Pensi che ti sia ostile? – Auguste trasalì leggermente.
Il
ragazzo annuì vigorosamente, prima ancora che egli potesse terminare la
frase.
-
Sei ingiusto, Dorian – Auguste si riscosse appena, un mormorio impercettibile
intrappolato fra le labbra socchiuse – Non era così diverso cinque anni fa. Non
siamo sempre stati animati da sfiducia reciproca.
Distolse
il volto, cercando di sfuggire per un momento da quegli occhi che indugiavano
curiosi su di lui, una nube sospettosa sul viso.
-
Che motivo avresti avuto, per tenermi fra le braccia, mentre, fino a prova
contraria, nel periodo che intendi, te ne stavi a farti onestamente i fatti tuoi
Dio solo sa dove?
Auguste
mosse disperatamente lo sguardo intorno alla stanza, alla ricerca di un
diversivo, di un alleato che non arrivava. Dorian incalzava nell’ombra, e lui
stavolta non aveva pronti gli argini per contenere l’ennesima, legittima
irruzione da parte di quel ragazzo che lui stesso non aveva fatto altro che
prendere e rivoltare a suo piacimento, verità e menzogne sapientemente
intrecciate, nel desiderio egoistico e folle di tenerlo sotto quella malefica
campana di vetro fatta di abili distorsioni orchestrate ad hoc, con l’indefesso
terrore di affrontare le conseguenze reali e tangibili delle sue azioni, senza
maschere, una volta che avrebbe tolto il velo; perso in quell’assurda ossessione
che ancora la sua mente usava erroneamente denominare come
“proteggerlo”.
Un
raggio di sole, diretto, ruvido di polverosa foschia, rischiarò le guance di
Dorian, il viso così vicino al suo da descriverne contorni nitidi, rivelando
nelle iridi torbide la lecita sete di conoscenza perennemente frustrata dagli
esiti delle ricerche, come un’equazione sospesa nel vuoto.
Auguste
artigliò convulsamente un lembo della propria camicia, serrò le palpebre per non
gridare.
Maledetto
lui!
Maledetto
per quelle domande insidiose che gli ficcava a viva forza nella testa, fino a
farlo impazzire; maledetto per essere riuscito ancora una volta a prenderlo in
trappola, soli fra quelle quattro pareti e costretti a guardarsi in faccia.
Maledetto, perché aveva maledettamente ragione, e per quell’ossessione disperata
e legittima. E maledetto lui stesso per aver accettato la soluzione assurda che
quel giorno lontano la propria mente gli aveva suggerito: voltare la faccia
dall’altra parte e dissimulare quanto sapeva dentro ad un’assurda quanto
appetibile cornice di precarie bugie.
Non
era stata dissimile la sua reazione, cinque anni prima, la guerra civile che
infuriava sopra la sua testa, il suo nome sulla lista di proscrizione e un
groppo oscuro che gli annebbiava il cervello, quando si era stretto al braccio
di Lucien come per trovare la forza. La smania incontenibile ed il bisogno quasi
logistico di condividere almeno con
lui il recente segreto.
Attraverso
i passaggi sottostanti la città, di cui le fazioni ribelli si erano servite per
lungo tempo quali strategici collegamenti fra basi e nascondigli sotterranei
sparsi lungo l’intero raggio abitato, aveva condotto Lucien fino allo scantinato
della locanda dei Bertrand, punto di raccordo tra i cunicoli scavati nella
pietra.
- È
la taverna dei Bertrand… Non capisco, Auguste.
Lucien
l’aveva fissato con le iridi d’acquamarina visibilmente agitate da un
presentimento angoscioso, le orbite scure che spiccavano nitide sul volto livido
di troppe notti insonni.
L’aveva
rimproverato a lungo, ricordava, in seguito. L’aveva messo in guardia. Persino
lui.
-
Ti mostrerò una cosa, Lucien.
Tremante,
lasciando che la vista immersa nella penombra si abituasse al debole chiarore
della lucerna, l’aveva preceduto oltre le spesse tende rattoppate che riparavano
una porzione dell’ambiente.
Dinnanzi
a loro, un pagliericcio coperto da lenzuola lise e, sprofondato in
quell’improvvisato giaciglio, un giovane dai capelli biondi su un letto di
sangue e fuliggine, il respiro rantolante e la faccia
sporca.
Auguste
aveva trattenuto il fiato, in attesa di una reazione. Ricordava ancora il lampo
d’inquietudine rabbiosa che aveva attraversato il volto di Lucien. Rammentava
come si era portato le mani al volto, trasalendo; come si era rivoltato contro
di lui, il terrore che viaggiava nelle vene come adrenalina, spontaneamente
convogliato in un accesso di collera tale che, per un momento, Auguste aveva
temuto che lo colpisse.
-
Chi è questo ragazzo, Auguste? Sta molto male, cosa ci fa
qui?
- È
sopravvissuto all’incendio nelle carceri. È uscito vivo per miracolo. Un attimo
in più, e ci avremmo rimesso la pelle entrambi – solo una neutra constatazione
aveva trovato spazio sulle sue labbra tremanti.
-
Chi è questo ragazzo,
Auguste?
Stessa
domanda, stessa luce tagliente in fondo ad occhi intorbidati dal sospetto:
cinque anni di distanza. Prima Lucien, il suo Lou, ora Dorian in prima
persona.
Auguste
sentì il cuore contrarglisi dolorosamente nel petto, i ricordi che lo
sommergevano, sollecitando beffardi le sue percezioni annebbiate. Per un istante
temette di non riprendersi più, come se il torrente di lacrime che gli bruciava
negli occhi potesse tormentarlo in eterno, senza mai risolversi a scivolare
lungo le gote.
-
Osservalo meglio, Lucien! L’hai già visto; qualche settimana fa, ricordi? Era
con noi.
Aveva
scostato il telo da quella figuretta prostrata nell’incoscienza, i lunghi
capelli intrisi di sangue.
Lucien
aveva distolto lo sguardo, sbigottito, le parole congelate in fondo alla
gola.
-
Sì, è così come pensi, Lucien – l’aveva preceduto d’impulso, senza attendere
risposta, una lieve nota impertinente nella voce; e fu certo, almeno per un
istante, di essersi sentito egoisticamente fiero, come a stringere un trofeo –
Esattamente colui che temi che sia.
-
Tu sei pazzo, Auguste. Completamente pazzo!
-
Cos’avresti fatto tu, al mio posto? – rammentava di essere scattato in piedi,
fronteggiandolo quasi con rabbia – L’avresti lasciato morire? L’avresti
consegnato al duca Alphonse in cambio di un bel purosangue con cui abbandonare
la città in attesa di tempi migliori?
-
Ha bisogno di cure. Cure che noi non siamo nelle condizioni di garantirgli. È
ridotto male. E noi siamo in guerra, Auguste, ci siamo immersi fino agli occhi,
e là fuori c’è un esercito schierato, con il duca che smania di mettere le mani
su ogni ribelle ancora vivo in città: non possiamo tenerlo nascosto a lungo, a
meno che tu non voglia lasciarlo morire in questa
prigione.
-
No, ce la farà, invece. Lui vuole vivere, è caduto tra braccia sicure mentre gli
altri perivano, e non mollerà adesso. È un dono del cielo, non
capisci?
-
Ha perso molto sangue. Cosa vuoi fare di questo ragazzo,
Auguste?
-
Lui è uno di noi. Il miglior asso nella manica che potessimo desiderare. Il
problema, Lucien, più che la ferita alla testa, è che è rimasto esposto troppo a
lungo al fumo, prima che potessi raggiungerlo e caricarmelo sulle
spalle.
-
Cosa vuoi fare, Auguste?
-
Sarà più al sicuro quando i disordini saranno cessati e noi saremo lontani da
qui.
-
Ragioni su tempi troppo lunghi, Auguste. Sono questi, i giorni che potrebbero
essergli fatali.
-
Madame Bertrand e suo marito se ne prenderanno cura fino al nostro
ritorno.
-
Serve un medico, in questo momento, non una balia.
-
Rimandiamo la nostra partenza, Lucien: te ne prego!
-
Hai bisogno di lui?
-
No. Dorian ha solo diciotto anni. Non
deve morire. Sappiamo entrambi chi
è, ma nessuno deve sapere, tranne
noi. Il duca crede che sia morto, non è a lui che darà la
caccia.
-
Dorian. Lui è Dorian! Ne parli come se fosse un tuo vecchio amico o un fratello
di sangue. Per te è già uno di noi.
-
È uno di noi e starà con
noi.
E
poi più nulla, spezzoni confusi, trattative dell’ultimo minuto. Lucien l’aveva
stretto al petto, e da quel punto in poi non riusciva a riallacciare altri
ricordi frammentari, altri pezzi di discorsi rubati all’enfasi angosciosa di
quegli attimi.
Il
capo gli doleva, e la smania di riallacciare ogni tassello diveniva un peso
sempre più insopportabile ed assurdo, come scavarsi il cuore a mani
nude.
Dorian
era vivo e stava bene, seguitò a ripetersi come un mantra: era tutto ciò che
contava. Tutto sarebbe filato liscio, se lui avesse continuato a
tacere.
Avrebbe
continuato a mantenere la situazione perfettamente sotto controllo, scongiurando
ogni tentativo, da parte di quell’incosciente dai nervi in ebollizione, di
rovinare la sua opera d’arte, magari commettendo qualche sciocchezza e
offrendosi al duca su un piatto d’argento. Non avrebbe reso vana la sua fatica
di strapparlo alle fiamme, di nasconderlo, di proteggerlo, di crearlo dal nulla.
Dorian Alexandre Desgrais, che tentava di ribellarsi alla confortante cappa di
velluto da cui si era lasciato plagiare. Questo no, non dopo tutti i suoi
sforzi.
Lui
era il suo affanno, le sue lacrime; era il sangue di Lucien, in ultima istanza,
e il prodotto di tutto questo.
-
Fai l’uomo, Dorian, anziché il bambino, te ne prego! – si risolse, infine,
allontanandolo bruscamente da sé e ripristinando con il suo scatto gelido le
antiche distanze – Gli altri stanno per arrivare.
Ed
erano arrivati, puntuali al richiamo del loro stanco
mentore.
Ambrosie
e Fernand, stretti in un inquieto mutismo carico d’interrogativi circa quella
convocazione dalla pretenziosa ufficialità.
Raphäel
li seguiva a pochi passi, gli occhi vivaci incassati nelle orbite stanche,
carichi di un’ottimistica, fiduciosa perplessità, braccia incrociate sul petto.
In attesa di qualche trovata geniale che gli fosse balenata nella testa durante
la notte; qualcosa su cui profondere la sua energia, fosse stato uno spunto,
un’idea, magari un’inversione di rotta improvvisa e non per questo priva di una
sua ragion d’essere. Era un ragazzo giudizioso, Raphäel.
Non
vi era nulla di nuovo sotto il sole, d’altronde. Ma non stavolta, non per loro.
Chissà se avrebbero mai sospettato…
Si
schiarì la voce. Evitò accuratamente lo sguardo di Fernand che sentiva
bruciargli addosso con insistenza, frustrato da quella reciprocità negata con
indefessa, noncurante ostinazione.
Dorian
sedeva in disparte, come offeso dal suo atteggiamento che ora era tornato quello
di sempre, freddo e scostante, quasi un getto di veleno.
-
Io… Abbandono il progetto.
* *
*
Buonasera
a tutti, ben ritrovati su queste pagine!
Capitolo
per alcuni versi “di passaggio” (alla faccia delle quindici pagine e rotte), ma
che mi ha permesso e di approfondire maggiormente il rapporto tra quei due
mattacchioni di Auguste e Dorian e di aprire finalmente qualche scorcio sul
passato di quest’ultimo. Un *piccolo* scorcio, vabbè… Ma questi son
dettagli.^^
Aggiornamento
che approda su questi lidi con più ritardo di quanto in realtà avessi previsto,
in effetti. Mea culpa, stavolta ho scassato un po’ anch’io, devo ammetterlo: il
capitolo era pressoché concluso, solo che poi sono ricominciate le lezioni, e da
lì è stata un po’ una salita. Non sono mancati scleri e perplessità di vario
genere, ma alla fine, come dire, ad avere la meglio è stata la mia indefessa
passione per questa storia che ormai viaggia per i due annetti e passa, dacché
vide la luce nella mia testolina e sul web, alla quale sono morbosamente
affezionata e che – lo dico con malcelato orgoglio – se non ci fosse stata,
forse io in primis sarei diversa da come sono, e forse non mi avrebbe permesso
di addentrarmi in punta di piedi nel mondo meraviglioso e affascinante della
scrittura che ormai sento parte di me.
Ringrazio
tutti coloro che seguono o che continuano a seguire questa storia, coloro che
hanno aggiunto Noir Trésor tra i
Preferiti e le Storie Seguite, nonché chi mi ha aggiunto tra gli Autori
Preferiti. Un *grazie* speciale va ovviamente a coloro che con le loro
impressioni hanno allietato il mio rientro dalle vacanze (ebbene sì, purtroppo
risale ad allora l’ultimo aggiornamento) nonché, in particolare, il mio
cuoricino di autrice perfezionista e capricciosa che, senza false modestie di
sorta, ammette in tutta sincerità che NT non sarebbe ciò che è senza i loro
commenti, analisi e incoraggiamenti.
In
particolare:
Fata:
fermo restando che attendo sempre con ansia di leggere le tue splendide
recensioni, fermo restando che quando mi scrivi che senti NT un po’ parte di te,
non posso che annuire commossa e versare pure qualche lacrimuccia di gioia in
proposito, poiché riconosco che senza i tuoi commenti, le tue stupende analisi,
la sensibilità con la quale leggi i
ragazzi di NT, le inedite angolature attraverso le quali, commento dopo
commento, mi permetti d’inquadrare i personaggi, i loro tormenti, i sentimenti,
il dipanarsi delle situazioni, questa storia non sarebbe ciò che è attualmente;
forse qualche volta avrei faticato un po’ di più a ritrovare il bandolo della
matassa. Forse io stessa non sentirei i pg esattamente nel modo in cui li sento.
Forse Auguste starebbe peggio. Insomma, *grazie*, in una sola parola. Fermo
restando tutto questo bel po’ po’ di cose, si diceva, ero rientrata la sera
stessa dalle vacanze estive, e ho acceso il pc. Ho trovato due meravigliosi
commenti di due meravigliose lettrici. Ho pianto. O, se non altro, devo esserci
andata vicina. Perché quando trovi qualcuno che ti regala letture così
appassionate, capaci quasi di svelarti in anteprima quelle pieghe che forse
ancora giacevano in una sorta di volteggiare nebuloso, c’è poco, davvero poco da
aggiungere. E credo che, forse, in questi casi, un semplice “grazie” sia un
pochino riduttivo.
Ora
proverò ad procedere un po’ con ordine a questa mia non breve risposta, se no chissà dove
andrei a parare. Questione vampiri: non ti sei sbagliata. E sì, la faccenda è
rimasta in ombra, in effetti, a favore di altre dinamiche. Volevo inizialmente
costruire il mondo, le trame necessarie ad accoglierli: così è cominciata. Sono
nati Auguste, Fernand, Dorian, Ambrosie… Catalizzando prepotentemente ogni
singola sfaccettatura della storia con le *loro* storie. Non che abbia tenuto
del tutto da parte la questione sovrannaturale, ecco, così come non ho potuto
fare a meno di disseminare messaggi tutt’altro che sublimali qua e là, ma ecco,
hai perfettamente ragione a dire che è stata la dimensione emotiva a farla da
padrona. Forse, in soldoni, è proprio lei l’incontrastata protagonista della
storia, si tratti nello specifico di umani, vampiri, di questo o quel
personaggio.
Dorian,
Fernand e Auguste: la triade che, nei fatti, s’impone nell’impianto della
storia. Dorian forse è “nato” con qualche mesetto di ritardo rispetto agli altri
due, Dorian come lo conosciamo ora, intendo, ma la cosa non fa poi una gran
differenza. Sembra quasi di vederlo lì che sgomita per “rubare lo scettro” agli
altri due. È “cresciuto” in questi ultimi mesi, a dir la verità, e ti dirò che
per me si rivela di volta in volta una sorpresa sempre maggiore trattare di lui,
riportare sulla carta la sua storia, i suoi tormenti, il contributo che con la
sua impronta sta donando a NT. Da certi punti di vista, lui è un mistero anche
per me, così enigmatico e contraddittorio, con la sua generosità quasi al
limite, ma trovo piacevolissimo “rigirarlo”, dipingerlo, scoprirlo, crearlo pian
piano. Dal tuo commento ho evinto che, fortunatamente, nonostante il tempo che
intercorra tra un capitolo e l’altro, nonché tra il momento in cui il
personaggio prese vita nella mia mente e ora, sono riuscita a mantenere IC
Fernand (e, esperienza, può succedere anche di mandare OOC un proprio pg
originale; è un po’ difficile, ma può succedere anche questo). Ciò non significa
che il più piccolino non sia destinato a crescere. Forse è cambiato leggermente
il mio modo di rapportarmi a lui… Diciamo che il rapporto autore-personaggio si
è “evoluto”, in un certo qual modo.
E
poi arriva Auguste. A volte penso che Auguste, sotto sotto, almeno un filino
debba detestarmi. Almeno qualche volta. O forse sarà il contrario, chissà.
Perché ogni volta che tutti siamo convinti che quest’uomo abbia toccato il
fondo, immediatamente lui, non contento di ciò, comincia a scavare. Dal momento
che i fatti lasciano pensare che abbia fatto tutto da solo e che la sottoscritta
c’entri nella misura in cui si è limitata a riportare per iscritto, declino
parzialmente sulla responsabilità dell’accaduto. Che poi, trattare di lui a
volte fa anche male. E chissà che mi direte di ciò che il signor de
Qua,
a dir la verità, ci starebbe bene anche qualche piccola riga di scuse causa
scleri assortiti su LJ e dintorni. Il momento nero c’è stato e non posso
negarlo. Posso però, in questo preciso istante, tirare un sospiro di sollievo e
ammettere che anche stavolta, incrociando le dita che tutto andasse bene, tra me
e il momento semi-depressivo, ho vinto ancora io. Almeno, spero. Che poi,
sarebbe un discorso anche lunghetto da riassumere, ma mi rendo conto a
posteriori di come NT in tutto il calderone di cattivi pensieri c’entrasse solo
e soltanto relativamente, e pure in una piccola percentuale. E che ha ragione
chi dice che smettendo di scrivere (o anche solo di condividere quanto scritto)
mi fregherei da sola, se è vero che NT e tutto quel che vi gira intorno
rappresentano una parte importante di me. E sul fatto che ciò è vero potrei
metterci la mano sul fuoco. A meno che proprio l’ispirazione non si
volatilizzasse così, da un momento all’altro. Ipotesi che reputo remota – e nel
dubbio, in mancanza d’altro, tocco ferro!
Che
poi, con lettori come voi, se parlassi di mancanza di riscontro sui generis, il
discorso somiglierebbe un po’ ad una bestemmia. Perché leggere queste due
recensioni è stata un’iniezione di adrenalina. Di gioia. Di autostima. Poi è
venuta la momentanea tempesta, anche se NT c’entrava soltanto di
sfuggita.
Sulla
questione stile, che dire: lo stile è un po’ un mistero. La prima versione
(quella del 2007, diciamo, i primi capitoli non ancora riveduti e corretti)
presentava narratore onnisciente e talvolta PoV misti, almeno in una certa
misura; poi, da un certo momento in poi, ho provato ad usare PoV singoli, o
comunque più definiti, e in effetti, così, mi è sembrato di poter gestire meglio
la storia. Di dare un impatto a prima vista più professionale e soprattutto più
intimistico, più naturale, meno “forzato” dalla mano del narratore. Così ho
cercato di “riadattare” un po’ il tutto. Su Ysal mi pare circoli ancora la
vecchia stesura. L’ambientazione simil-Francia diciottesimo secolo, in effetti,
è stata un inconsapevole terno al lotto: per quanto difficile sia per me
ricondurre NT a un filone, a un genere ben definito, un po’ strizza l’occhio al
gotico-fantasy, anche se non del tutto. Generi che nella forma canonica
prediligono ambientazioni o richiami medievaleggianti. Qua c’è stata la prima,
inconsapevole inversione di tendenza, nel momento in cui ho scelto
l’ambientazione simil-settecentesca. Vi è poi da aggiungere che, appena
cominciato a scrivere NT, non avevo letto ancora le Cronache dei Vampiri della Rice (alle
quali va tutta la mia imperitura ammirazione).
Termino
qui, perché ci sarebbe davvero tanto da dire, se no non so a che ora finirò, e
perché credo che ormai sappia tutto ciò che penso in proposito. Un bacio, alla
prossima!^^
Witch:
ben ritrovata, tesoro!^^
Dunque,
dunque, come dicevo poc’anzi, in effetti contavo stavolta di accumulare meno
ritardo nell’aggiornamento. Eppure, eccomi qui (soprattutto perché adesso posso
cominciare con tutta tranquillità il prossimo capitolo… E sai a che mi riferisco
nello specifico!^^).
Innanzitutto,
mi ha fatto enormemente piacere leggere le tue opinioni a proposito di questi
ultimi due capitoli – che poi, erano l’uno il continuo dell’altro, per non
sfornare un mega capitolo di una trentina di pagine; quindi, condivido appieno
la scelta di recensirli insieme. Sono davvero molto felice che i due capitoli ti
abbiano impressionato positivamente, così come sono lieta del fatto che Dorian,
“colui che – nella mia mente – nacque dopo gli altri”, rientri fra le tue
preferenze: ho investito molto in questo personaggio, in effetti, e, non di
meno, ho finito per affezionarmici in maniera quasi morbosa. Nondimento, sono
felice di leggere i riscontri circa l’imporsi sulla scena di questo ragazzo un
po’ sfuggente. Trattare con Dorian, far luce sulle sue sfaccettature, devo
ammettere che si rivela di volta in volta qualcosa di diverso: questo
personaggio sembra vivere una dimensione emotiva tutta sua, forse anche
leggermente “sfasata” – come “sfasati” sono i suoi ricordi, ciò che dovrebbe
rappresentare per lui delle ideali radici in cui identificarsi –, ravvisabile
nelle sue reazioni, nei suoi mutevoli percorsi emotivi, nei suoi sbalzi, nel suo
vivere le sensazioni e le situazioni che via via gli si presentano in un
rimescolio cerebrale tutto suo, dagli esiti poco prevedibili. Diciamo che tende
a “metabolizzare” le cose a ritmi un po’ anomali, instabili: la percezione di un
sentimento evolve a ritmi forse eccessivi rispetto a quella che grosso modo
dovrebbe essere la norma. E lui è tanto capace di affezionarsi morbosamente a
qualcosa, quanto poi non dico a disinteressarsene rapidamente, ma se non altro a
lasciar evolvere, a sintetizzare e convertire il sentimento in qualcosa di
diverso. O forse è un espediente, un debole tentativo di difesa per non essere
scalfito dalla possibilità che un suo affetto non sia
contraccambiato.
Credo
che nel rapporto con Fernand l’ambiguità propria di Dorian emerga in tutta la
sua estensione: un po’ amico, un po’ amante, lo vuole, non lo vuole, lo attrae
nelle sue spire, poi si tira indietro, gli si concede per non dover concedergli
di essere il primo per lui. Qui c’è stato proprio un capovolgimento dei ruoli,
un lento virare dei sentimenti che Dorian nutre nei confronti di Fernand verso
approdi meno ingombranti e meno portatori d’illusioni e dolore di quanto avrebbe
potuto rivelarsi, almeno in teoria, un “innamoramento” sui generis. Nonostante
ciò, nulla nega che lui sia innamorato o che questo brusco convogliamento dei
suoi sentimenti verso porti apparentemente più sicuri sia stato per lui indolore
– anzi, credo che rinunciare simbolicamente e accettare il ruolo dell’amico al
cento per cento l’abbia scalfito nel profondo. Perché c’è l’ombra di Auguste fra
loro: Dorian lo sente, eppure lo accetta. E questo è sufficiente a scombussolare
il ruolo che avrebbe potuto ricoprire nella vita di
Fernand.
Non
posso non darti ragione, poi, quando dici che tra Dorian e Fernand è davvero
difficile stabilire chi sia più innocente. Dorian e il suo altruismo esasperato,
il suo modo singolare di “farsi da parte”, di annaspare alla ricerca di una
collocazione ideale in quel tessuto, o Fernand e la sua totale
confusione?
Fernand,
poveretto, è davvero perso: così poco consapevole di ciò che vuole
effettivamente, che quasi quasi ha fatto prima Dorian, dall’esterno, a cavargli
la verità di bocca senza bisogno di interrogarlo in proposito. O di fidarsi
ciecamente delle sue parole. L’ha capito prima Dorian di lui, che non sarebbe
stata la scelta ideale, almeno da un certo punto di vista, eppure il più giovane
dei due continua a navigare nel buio. A temere l’eventualità e a voler
strenuamente cercare un rifugio alternativo.
Che
dire poi di Auguste: una parte di lui sembra essere morta con Lucien. E, senza
di questa, lui naviga nel buio, quasi privo di difese da contrapporre alla
disperazione che si fa strada in lui senza accennare a qualche battuta
d’arresto. Auguste non è facile da rendere, in effetti: oltre ad andare per
conto suo, masochisticamente, il più delle volte, finisce pure per fare male.
Sente una grandissima responsabilità pendere sul suo capo, e mai come ora sente
questa responsabilità pesargli così enormemente. Dorian, Fernand, i ribelli, le
macerie nelle quali si aggira: per lui è come se tutto stia precipitando
lentamente in una miscela quasi letale. Per quanto riguarda il segreto di
Dorian, è il caso emblematico di quei punti oscuri che si è sempre ostinato a
serbare per sé, con tutte le insidie e il senso di colpa che la scelta poteva
comportare. Ancora una volta, Lucien era l’unica persona con la quale avesse la
possibilità di condividere parzialmente il suo fardello.
Il
particolare del piccolo pipistrello che sbatte le ali sulle imposte chiuse, lo
ammetto in tutta sincerità, è stato “vagamente” un colpo basso: non ho potuto
resistere a piazzarci il dettaglio ad hoc, il messaggio smaccatamente allusivo,
e in effetti è stato “suggestivo” e utile alla circostanza! Che poi, chiunque
sia il vampiro (ehm… Ehm!), pare avere giusto *due* preferenze quando si dedica
pazientemente alle sue scorribande al calar del sole. Spero che comunque la
questione vampiri (da cui, non per altro, la storia omaggia innanzitutto con la
scelta della categoria di scritti in cui è smistata), nel momento in cui
s’imporrà nel tessuto della storia, risulti all’altezza delle
aspettative.
Bene,
bene, ora è meglio che mi affretti a pubblicare, se no è sempre in agguato il
rischio di accumulare ulteriore ritardo…! Di molte cose si era già parlato, mi
sarò sicuramente ripetuta un’infinità di volte, ma il piacere di dilungarmi
ancora un po’ sulla questione NT, come sempre, è stato irrinunciabile e
voluta.
Alla
prossima, un bacio!^^