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Autore: GirlWithTheGun    06/11/2009    3 recensioni
Elisa e Colin non sanno cosa volere dalla vita. Elisa e Colin non sanno se volerla, la vita. Si risvegliano quindicenni e confusi in un universo dove l'unica lente per vedere, sentire e amare è la violenza. Una violenza nascosta nell'anima, che riempie, madre di domande senza risposte e di silenzi assordanti.
Elisa vorrebbe avere ottant’anni, vorrebbe non vedere il buio del nulla nel suo futuro, non avere paura e non essere nata delusa, vorrebbe capire qual è il giorno maledetto in cui ha cominciato a pensare.
Colin si trascina dietro la memoria di un padre suicida, sogna un mare che mangia vive le persone, non riesce ad identificare quel desiderio caotico di libertà che lo infiamma.
"Ma cosa siamo se possiamo esaltarci e distruggerci così? Perché siamo, dove siamo, sperduti negli angoli degli universi e schiantati nelle nostre tragedie di cartone.Esistenze misere che non si accendono mai, lampadine spente che non conoscono la luce. Ma io voglio brillare! Io voglio brillare!".
A tutti i Catchers In The Rye.
Genere: Romantico, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Exit Music (For a Film)

 

La bella storia della mia caduta libera comincia il sei agosto del duemilacinque. Adesso che sono qui a pensarci sulla banchina della metro mi sembra tutto molto surreale. In questi quattro anni mi è capitato di rovinarmi la testa con questo pensiero parecchie volte, nei posti più impensabili, anche al cesso. Che poi qualcuno potrebbe considerare dissacrante pensare alla morte del proprio padre mentre si piscia. Io invece credo sia stato il modo più giusto, tra tutti quelli che ho sperimentato. Lì, con il cazzo in mano, ero immobile nell’atto più antico e più naturale del mondo. Pisciare viene anche prima del sesso. Prima di tante altre cose, insomma. E anche la morte è così naturale, che a pensarci non mi sembra nemmeno una brutta cosa. Anche se tecnicamente spararsi un buco in testa non è naturalissimo, però alla fine sempre di morte si parla, no? Con queste cose le differenze è inutile farle. Inutile attaccarsi ai cavilli. Tanto anche il suicidio porta sempre dalla stessa parte: sottoterra.
Mio padre era costantemente malinconico. Non sono mai riuscito a capire perché, ma in fondo questa cosa qui un po’ mi piaceva, anche. Sembrava proprio una di quelle persone che nascondono dentro qualche abisso insondabile. Chili e chili di nero. Non riesco nemmeno a rendere bene l’idea con il pensiero. Come se mio padre fosse sempre stato una tela spessa e bianca, come se qualcuno l’avesse cucito di proposito a forma di sacchetto, e nemmeno tanto grande. E come se, a quella stessa persona a cui era venuta la brutta idea di cucirlo malamente, senza nemmeno dargli il tempo di spiegarsi, fosse venuto in mente di scagliare all’interno di questo piccolo sacchetto, il mare. Ma un mare di quelli in tempesta. Di quelli che te li figuri con il cielo plumbeo, l’acqua color ferro e gigantesche onde fameliche. Un mare perennemente in burrasca. Mio padre era un po’ così. Era quel sacchetto. Io lo guardavo negli occhi e vedevo la schiuma cattiva delle onde che lo mangiava lentamente. Quasi sentivo il rumore dell’acqua che gli si fracassava contro le costole, nei polmoni. Ma non potevo farci niente. Forse era per via della mamma che se n’è andata, o per le sue origini irlandesi. Non lo so. Ma del resto non ho mai capito come abbia fatto mio padre a finire qui, in Italia, a vivere a Milano e a lavorare come magazziniere tutta la notte. Accadono delle cose inspiegabili, certe volte. Come se ci fosse qualcuno che cala dall’alto situazioni già belle e pronte e le affibbia al primo che passa. 
Insomma, mio padre si è ammazzato che era estate. Mi ricordo che erano i miei primi mesi di libera uscita. E per libera uscita intendo le sere passate nel cortile del mio condominio, a giocare a gavettoni con gli amici del quartiere. Quando le undici mi sembravano già notte. Ho questo ricordo di una serata bellissima. L’avevo trascorsa a giocare, a ridere, e non so nemmeno io a fare cosa. Ma ero felicissimo. E insomma, mi è capitato di guardare in alto, proprio alle undici di sera, e di riuscire a vedere le stelle. Lo giuro su tutti i santi, mi sono sentito un essere libero. Cazzo, non sono mai stato più libero in vita mia. Me ne stavo la, bagnato dalla testa ai piedi, con le braccia spalancate come un deficiente, a sorridere al cielo stellato. Ed ero libero. Cristo, ero LIBERO. Me lo sono sentito sulla pelle. Non lo dimenticherò mai, cazzo.
Si è sparato in testa mentre io ero al parco con la bici. La mia bici rossa. L’ha trovato la nonna, la mia nonna materna, nel garage. Che mi è sempre sembrato molto strano il fatto che i miei nonni si siano presi cura di noi, e invece mia madre ha lasciato me e mio padre soli come dei cani randagi ed è scappata con uno in Spagna, a fare tanti altri figli e a spedirmi cartoline per il mio compleanno. La verità è che gli adulti sono incasinati, distrutti più di noi. Che non sono in grado di spiegarti nulla, il più delle volte, e che spesso ti tocca accudirli, se non vuoi che appassiscano. Come le piante. Come mio padre. La pistola era del nonno, che non se lo perdona ancora, di essere stato carabiniere. Il garage adesso non lo usiamo più. Mio nonno lascia l’auto fuori da allora, e gli hanno spaccato il vetro un paio di volte, ma lui l’ha sempre portata a riparare senza fare un fiato. E poi la guida così poco.
Il giorno del funerale c’era un sole bellissimo, un caldo porco. Io so che a mio padre sarebbe piaciuto essere infilato in una barchetta e spinto al largo, nel suo mare irlandese. Gli sarebbe piaciuto colare a picco nell’acqua salata e finire mangiato dai pesci. Ma come fai a spiegare certe cose a due sessantenni? Invece marcisce dentro una bara e io non vado a trovarlo mai, perché secondo me non ha senso. E poi vedere la sua foto sulla lapide mi fa venire una fottuta voglia di piangere, e vaffanculo. Mia nonna gli porta sempre i fiori freschi ogni settimana, e torna con le lacrime agli occhi anche lei. Mio padre era buono, faceva ridere, quando gli andava, e raccontava sempre delle storie fantastiche, da rimanerci ore ad ascoltarlo. E poi la nonna dice sempre che era bellissimo, che sembrava un angelo. Io non riesco a capire cosa intende. Per me era mio padre e basta. Più di questo non saprei cosa dire.
Le sue sono state le prime sigarette che ho fumato. Aveva lasciato un pacco di Lucky Strike rosse, mezzo consumato, aperto sul comodino della nostra camera. E l’accendino era proprio lì accanto. Ne ho fumate tre, quattro, fin quando la nicotina mi ha fatto girare la testa sul serio, fin quando non mi sono spaventato e ho smesso. Cacasotto fottuto. Poi la paura non è più tornata. In compenso sentivo mio padre ad ogni tiro, sentivo come il suo odore, me lo trovavo accanto nei vortici di fumo grigiastro che mi aleggiava intorno. E non se n’è più andato. Vaffanculo papà. Mi senti?
Pensando pensando, sono quasi arrivato. Fuoriesco da sottoterra con le mani in tasca, inciampo un paio di volte. Ho questa grazia nel muovermi che mi sembra di essere un ippopotamo sui roller, cazzo. Inciampo e cado e faccio delle acrobazie tali che non riesco nemmeno a capacitarmene. Camminare seguendo una linea retta è un’impresa, per me. Anche da lucido.
Mi abbandono al solito posto, in compagnia delle solite facce. Perlopiù è gente con la quale non ho veri rapporti. Al di fuori di questo contesto noi non esistiamo, non ci conosciamo. Oddio, magari a loro piacerebbe anche, ma io faccio un po’ lo stronzo. Forse è proprio per questo che mi tengono ancora in considerazione. Ce ne stiamo qui, passano illegalissime lattine di Coca riempite di non so cosa, qualche liquido che da in testa, di solito. Non lo so, io bevo. Mi piace fottutamente, bere. Dico. Quando sono triste. Il mondo si riempie di colori, e tutti sono pronti a parlare di tutto. Di guerra, di pace, di politica, di massimi sistemi, di rivoluzioni, ribellioni, Dio. E’ straordinario. Continuo a non capire perché da lucidi di queste cose non si parla. Ci comportiamo come se fossimo costantemente sotto effetto di narcotici mentali. Addormentati, ce ne stiamo la a parlare di un cazzo, a discutere di un cazzo, per ore intere. Poi aspettiamo di stordirci per parlare davvero di cose serie. Oppure è tutto al contrario. Forse è il metro con cui giudichiamo un argomento “serio”, che non va. Forse da ubriachi parliamo di stronzate, e da lucidi di quello che ha veramente peso. Insomma, la cosa mi mette angoscia comunque, a pensarci. Perciò non ci penso. Punto.
Però mi faccio un po’ schifo. E’ quasi arrendersi, certe volte. Sempre. È una cosa a metà, non avere il coraggio di passare al rimedio estremo e starsene qui, sospesi nello stordimento, a rincorrere gli autobus, a farli fermare apposta e poi ad andarsene, a cantare cosa, a parlare di cosa. Mi stimerei di più, se improvvisamente mi arrivasse tra capo e collo il coraggio di farla finita per davvero. O forse no. Ma comunque non potrei saperlo per più di una frazione di secondo. Così è ammazzarsi un po’ ogni ora, e condursi pateticamente verso una triste esistenza strascicante. A me cose di questo tipo non sono mai piaciute. Eppure eccomi qui, no?
Me ne torno a casa presto, con le sinapsi rallentate, fumando una sigaretta. Prendo l’autobus con il numero giusto, mi siedo in fondo, dove piace a me. Da qui riesco a leggere le parole di uno di quei cartellini pubblicitari che appendono in alto. Cos’è che c’è scritto? Il futuro a portata di click? O qualcosa del genere. Una stronzata. Chi è che lo vuole, un futuro a portata di click? Chi l’ha mai chiesto?
Penso alla canzone dei Radiohead con cui mi sto stracciando i timpani da stamattina a scuola. Dopo il momento finestra. Quella canzone che Yorke ha scritto per Romeo + Giulietta, o qualcosa del genere. Oggi fuggiamo, fuggiamo. Cantaci una canzone, una canzone per tenerci caldi. Ed è così lancinante, ascoltarla. Fa proprio un male fisico del cazzo.
Vorrei un paio di minuti per parlare con mio padre, adesso. Un paio di minuti che non posso avere, vaffanculo. Gli direi tipo ciao papà, qualche stronzata simile per rompere il ghiaccio. In fondo quando se n’è andato avevo undici anni, adesso, a quindici, mi sento un altro essere. Probabilmente dovremmo ricominciare daccapo a parlare e sarebbe complicato, ma bello. Come riscoprirsi a vicenda. Poi gli direi che oggi ho visto una ragazza, a scuola. La vedo spesso. Che è un po’ strana, si veste veramente malissimo, e proprio per questo mi piace guardarla. Come si muove in quelle maxitute e maximagliette, maxifelpe, maxicuffie spaziali. Ha proprio un faccino come quello delle bambole, con i capelli scuri e la frangetta spettinata. Sembra un cucciolo, o qualcosa del genere. Qualcosa di terribilmente tenero. O almeno così l’ho sempre vista… Poi oggi dalla finestra lei guardava la pioggia, io guardavo la pioggia, e invece ci guardavamo senza dire niente e ancora un po’ non lo sapevamo.
E sai una cosa, papà? Io la guardavo negli occhi e vedevo la schiuma cattiva delle onde che la mangiava lentamente. E sentivo il rumore del mare, papà. Cazzo, il rumore del mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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