Buona sera!
Ecco a voi il nono capitolo della storia. Spero vi piaccia!
Lady Anderson
Cap. 9 – LONTANO DA TUTTO
Era
incredibile quanto fosse bella la riserva di Denali. Una distesa sconfinata di
alberi si apriva davanti a i miei occhi come un grande oceano verde e bianco,
immobile nel silenzio di quella mattina. Di
tanto in tanto qualche piccolo animaletto correva qua e là, saltando
agile in mezzo alla neve illuminata
dalla pallida luce del sole. Iniziò di nuovo a nevicare. I fiocchi soffici
turbinavano nell’aria, trasportati dal vento in ogni direzione per poi posarsi
delicati al suolo. Attirata da quei movimenti così improvvisi allungai una
mano, facendovi posare sopra qualche cristallo di ghiaccio che si sciolse
immediatamente al calore della mia pelle. All’improvviso, sentii dei passi
delicati e leggeri avvicinarsi dietro di me, ovattati dalla neve che ricopriva
interamente il terreno. Una donna alta, bellissima, dai lunghi capelli
biondo-rossicci mi comparì accanto, senza dire una parola. Anche lei imitò il
mio gesto; levò la mano pallida e perfetta davanti a sé, osservando in
silenzio quei piccoli punti bianchi che erano rimasti sul suo palmo. Sospirò,
prima di sedersi. “Nessie...Come stai?”, mi
chiese, passandomi un braccio dietro la schiena. Mi limitai ad alzare le spalle,
ancora con lo sguardo fisso davanti a me. “Tua madre
ha chiamato di nuovo...È molto preoccupata, dovresti parlarle.”.
Annuii, in silenzio. Lei mi studiò per qualche minuto, prima di parlare di
nuovo. Mi costrinse a guardarla, accarezzandomi il viso delicatamente. Con un
dito mi sfiorò leggera gli zigomi, calcando la forma delle occhiaie viola scuro
che ormai da qualche giorno avevano trovato posto sotto i miei occhi. “Da
quanto tempo non mangi?” “Più di due settimane, credo.”, le risposi mentalmente,
approfittando del nostro contatto fisico. Lei sospirò di nuovo, scuotendo la
testa. “Ti vado a preparare qualcosa. O preferisci
cacciare? Ti accompagno, se vuoi...” “No,
Tanya, non importa. Non ho fame.”. Si alzò e incrociò le braccia
al petto, guardandomi con aria di rimprovero. “Non
puoi continuare così, Renesmee. Anche se sei una mezza-vampira non devi
sottovalutare il tuo bisogno di nutrimento. Che intenzioni hai?”. Alzai
gli occhi verso di lei, prima di rivolgere la mia attenzione ad un ciuffo
d’erba che spuntava solitario dalla neve. “Tanya...se
lui non ce la dovesse fare, io...io non...”. Non riuscii a proseguire.
La voce mi si spense in gola appena pensai a quello che mi ero lasciata dietro,
scappando via come una codarda da una realtà che non volevo accettare. Tanya mi
fissò con il suo scintillante sguardo d’ambra, seria. “Adesso
non iniziare a fare la bambina, Nessie. Sai bene quanto me che non gli succederà
niente, non se Carlisle si prende cura di lui.”. Calcò per bene
l’ultima frase, in modo da farmi capire direttamente che, se le cosse fossero
andate male, Nathe sarebbe diventato uno di noi. Un vampiro. Quell’immagine si
formò nella mia testa subito dopo: vidi il suo corpo diventare sempre più
pallido e perfetto, mentre la sua voce diveniva ancora più bella di quanto non
lo fosse già, mentre mi accarezzava una guancia con la sua mano ghiacciata. Ma
quello che mi fece impaurire fu la consapevolezza che non avrei mai più rivisto
i suoi occhi verde tenue. Nella mia mente si erano fatti rosso scarlatto…Gli
stessi che avevano avuto tutti i componenti della mia famiglia. Gli stessi che
aveva Aro. Scossi violentemente la testa, scacciando via quella visione che mi
aveva provocato di nuovo le lacrime. “Non voglio che
diventi così...” “Nessie, non ti preoccupare...Vedrai che si riprenderà.”.
Mi alzai, incapace di sostenere ancora quella conversazione. Tanya capì le mie
intenzioni, così si avviò verso casa. Dopo qualche attimo si fermò. “Kate
e Garrett hanno comprato una bella pizza gigante. Se vuoi, puoi aiutarci a non
buttarla via.”, disse senza voltarsi, per poi sparire dietro la porta.
Era
notte fonda ormai, quando decisi di andare a sdraiarmi un po’ sul letto
preparato apposta per me da Tanya, nella sua stanza. Dovevo ammettere che mi
sentivo leggermente meglio, dopo aver mangiato una pizza che avrebbe sfamato
come minimo cinque persone. Rimasi a fissare il soffitto buio per qualche
minuto, prima di accendere il mio cellulare. Non appena i messaggi di avviso che
qualcuno mi aveva cercato finirono di arrivare, composi velocemente il numero di
mio padre. Dopo neanche mezzo squillo mi rispose: “Renesmee,
tesoro…Stai bene?” “Ciao papà.”.
Sentendo la mia voce strascicata rimase in silenzio per qualche secondo. “Torna
a casa…Per favore…Tua madre sta impazzendo.”,
mi supplicò, prima che la mamma gli strappasse il telefono di mano. “Piccola
mia, ti prego…”, disse singhiozzando, incapace di versare lacrime.
Presi un respiro profondo. “Nathe?”.
Ancora silenzio. “Non ci sono novità.”,
mi rispose la mamma, con la voce spezzata. “Renesmee
ti imploro…Vieni a casa…” “Per adesso no, mamma. Voglio ancora stare
qui…Lontana da tutto. Ci sentiamo presto. Vi voglio bene.” “No, Nessie,
aspetta!”. Chiusi la chiamata e spensi di
nuovo il cellulare. Mi schiacciai il cuscino sulla faccia, in modo da soffocare
il respiro accelerato che mi stava facendo esplodere i polmoni. Poco dopo, il
bussare alla porta della camera mi fece sobbalzare. Mi asciugai in fretta le
lacrime e andai ad aprire. Tanya rimase immobile sulla soglia, silenziosa come
sempre. Mi prese per una mano e mi abbracciò forte, concedendomi la sua spalla
per sfogare tutta la mia frustrazione. Quando Tanya si accorse che mi ero
calmata un po’ sciolse l’abbraccio, guardandomi dolcemente. “Nessie,
ti va di vedere una cosa?”, mi chiese,
avviandosi fuori dalla stanza. Era ovvio che voleva essere seguita. Uscimmo di
casa, sprofondando nel buio ghiacciato di Denali. Ad un certo punto iniziò a
correre, così feci lo stesso. Dopo qualche minuto arrivammo sulla cima di un
crinale. Lo spettacolo che mi si parò davanti agli occhi non poteva essere
paragonato con nient’altro: da quel punto si poteva vedere l’intera riserva.
“Tanya…Perché mi hai portata qui?”.
Lei non rispose, limitandosi a sorridere. Poco dopo alzò gli occhi verso il
cielo, come se fosse estasiata. Delle lingue di fuoco verdi e viola si
estendevano fino all’orizzonte, muovendosi impercettibili sullo sfondo nero
della notte. “È l’Aurora Boreale. La vediamo
spesso da queste parti.”, disse Tanya, dando conferma alla mia ipotesi
inespressa. Non avevo mai visto niente di simile, nonostante fossimo venuti
tante volte alla riserva. “È…È semplicemente
bellissima.” “Io vengo sempre qui quando non voglio pensare.”.
Capii subito a cosa si riferiva. “Grazie, Tanya. Per
tutto quello che state facendo per me.”. Lei mi sorrise di nuovo, prima
di darmi un bacio sui capelli e sparire silenziosa nel buio. Era vero. Non
volevo pensare a niente. Rimanendo incantata da quello che avevo davanti agli
occhi svuotai la mente, riuscendo ad estraniarmi da tutto il resto. Forse quella
notte sarei riuscita a dormire.
La
mattina dopo mi fu particolarmente difficile svegliarmi. Finalmente, dopo circa
due settimane di insonnia, ero riuscita a passare più di tre ore consecutive
nel letto, concedendomi un po’ di sonno. L’odore forte del caffé invase i
miei sensi, così mi costrinsi ad aprire leggermente gli occhi. “Mamma...”,
mormorai a mezza voce. Nessuna comparsa repentina sulla porta. Strano...Dove si
era cacciata? La stanza era completamente buia, e mi ci volle qualche secondo
prima di mettere a fuoco tutto quanto e rendermi conto che non ero in camera
mia. Già...Casa mia era a più di 2000 chilometri di distanza da dove mi
trovavo adesso. Sospirai, passandomi una mano sul viso prima di alzarmi. Dopo
essermi vestita e sistemata andai nella grande e luminosa cucina-soggiorno di
Tanya e la sua famiglia. Tutta scena, ovviamente...“Buon
giorno Nessie! Hai dormito bene?”, mi salutò Kate, sorridente. “Buon
giorno anche a te...Diciamo di si, mi sono riposata un po’.”. Lei mi
passò una mano sui capelli e mezzo millesimo di secondo dopo mi mise sotto il
naso una bella tazza di caffé fumante. “Tieni...Bella
mi ha detto che la mattina fai sempre colazione così...”. Sorseggiai
un bel po’ di quella bontà bollente. “Hai sentito
la mamma?”. Kate si sedette di fronte a me, poggiandosi sui gomiti. “Si...Ha
chiamato un paio di volte mentre dormivi. Mi ha chiesto se ti eri ripresa almeno
un pochino...”. Ci pensai un attimo su. “Credo
di riuscire a sopravvivere...”, dissi in un sussurro, prima di
immergermi di nuovo nella mia tazza. Kate rimase a farmi compagnia finché non
ebbi finito; nel frattempo era arrivato anche Garrett. “Nessie,
noi andiamo in città. Fra poco dovrebbe rientrare anche Tanya, è uscita
stanotte per la caccia...Hai bisogno di qualcosa?”, mi chiese
gentilmente il grosso compagno di Kate. “No, Garrett,
ti ringrazio. Divertitevi!”. Lui mi sorrise ed uscì, sparendo
all’istante seguito dalla sua bella. Mi guardai intorno, cercando invano
qualcosa da fare. Analizzai tutti i titoli dei film riposti ordinatamente sugli
scaffali del soggiorno, senza trovare niente che mi potesse vagamente
interessare. Dopo qualche minuto tornai in camera e presi il cellulare. Rimasi a
fissarlo per un po’, prima di accenderlo e sorbirmi l’arrivo di una trentina
di messaggi che mi dicevano che mi avevano cercato. Come se non lo sapessi...Scorsi
velocemente la lista, tanto per dare conferma ai fatti. Mamma,mamma, mamma,
nonna Esme, zia Alice, Amy, Amy, Jacob, Papà, mamma, zia Rosalie e via
discorrendo. Senza pensarci troppo composi il numero di mia madre. Dopo tre
squilli mi rispose: “Renesmee, piccola mia...”
“Ciao mamma. Scusa se non mi sono fatta sentire.” “Come stai, tesoro?
Siamo tutti molto preoccupati per te, sai?”. E via col senso di colpa.
Si vedeva proprio che questa era una cosa che mi aveva trasmesso...Era brava
quanto me a farmi sentire uno schifo. “Mi dispiace,
mamma.”. Durante una sua piccola pausa sentii altre voci. Riuscii a
distinguere quella di nonno Carlisle e quella di papà, oltre a due voci
maschili che non conoscevo. “Dove sei adesso,
mamma?”. Lei sospirò, rimanendo in silenzio per qualche attimo. “Siamo
in ospedale. Siamo passati a trovare Nathe...” “Ah...”, sussurrai,
improvvisamente incapace di parlare. “Ci sono novità?”,
domandai, con un filo di voce. “No, per adesso è...”.
La mamma si bloccò. Non capendo il motivo di quel suo silenzio mi spaventai. “Mamma...”.
Niente. “Mamma che sta succedendo?”,
riprovai, ma lei ancora non accennava a rispondermi. Dai rumori che sentivo al
cellulare capii che non erano problemi di linea. Ma allora che cosa poteva
essere? Rimasi in ascolto, non sapendo che altro fare. Quando sentii ciò che
chi era con la mamma stava dicendo mi si gelò il sangue nelle vene. “PRESTO,
PORTATE IL DEFIBRILLATORE! EDWARD, GLI ELETTRODI!”. Era il nonno. Un
rumore sinistro si aggiunse alle sue urla, mentre impartiva ordini a tutti i
presenti nella stanza. Il rumore continuo e assordante
dell’elettrocardiogramma mi trapanò i timpani e squarciò il petto da parte a
parte. “Al mio tre...Uno...Due...LIBERA!”, diceva il nonno, mentre
sentivo il mio cuore farsi sempre più pesante. “Dai,
dai, forza con l’ossigeno! Uno, due, LIBERA!”, continuava,
sovrastando con la voce quel maledetto suono. “Nathe...”,
sussurrai, prima di chiudere la chiamata. Il cellulare mi cadde dalle mani,
finendo rumorosamente sul parquet. Dopo qualche minuto di smarrimento ritrovai
la lucidità, così iniziai a raccogliere le poche cose e i pochi vestiti che mi
aveva dato Tanya, ficcandoli disordinatamente nello zaino. Quando finii in
camera mi avviai come un treno verso la porta, scontrandomi con una roccia non
appena provai ad uscire. “Ehi, Renesmee, dove stai
andando?”, mi chiese Tanya preoccupata, notando la mia espressione
sconvolta. “Tanya, io...Nathe....Devo tornare...”,
farfugliai confusa, preda di un panico che soltanto allora si stava impadronendo
completamente di me. Lei capì all’istante. “Passiamo dalla foresta.”, disse, iniziando a correre in mezzo
agli alberi ricoperti di neve. L’aeroporto di Anchorage distava sei ore da
Denali, in macchina. Per fortuna la nostra natura sovrannaturale ci consentì di
arrivare in poco più di due ore. Tanya si diresse subito al check-in,
allungando una banconota da 100 Dollari alla ragazza che sedeva annoiata dietro
il bancone. “Un biglietto di sola andata per Port
Angeles per il volo che sta per partire.”, disse, porgendole i soldi. “Mi
dispiace, signorina, temo che ormai sia troppo tardi. Deve aspettare il volo che
partirà fra tre ore.”. Tanya, impassibile, tirò fuori dalla tasca dei
pantaloni un rotolo di banconote legate con un elastico. “Me
lo da questo biglietto o no? Sa com’è, ho un po’ di fretta...”. La
ragazza strabuzzò gli occhi un paio di volte prima di stampare il biglietto,
rigorosamente in prima classe, e porgerlo alla mia accompagnatrice. “Ecco
a lei, signorina. Faccia buon viaggio.”. Disse la giovane, ancora con
la bocca aperta mentre prendeva i soldi e li nascondeva furtiva nella sua borsa.
“Nessie, vieni!”. Tanya mi prese per mano e
si diresse a passo svelto verso il tunnel d’imbarco. Appena arrivammo
all’ingresso, lo stewart addetto chiese di mostrare i biglietti. “Tieni,
fammi sapere quando arrivi.”. L’abbracciai, sussurrandole la mia
gratitudine, prima di correre attraverso il tunnel e arrivare alla scala già
mezza ritirata dell’aereo. Una volta a bordo cercai il mio posto, troppo
preoccupata per stare a sentire la hostess che mi indicava dove fosse la prima
classe. Dopo averlo trovato mi accasciai sulla poltrona, incapace di togliermi
dalla testa le urla del nonno. Non so quanto tempo passò dal decollo, ma quando
la voce del pilota annunciò che stavamo per atterrare a Port Angeles scattai
sull’attenti. Attesi con impazienza che tutte le manovre venissero concluse, e
appena le hostess aprirono il portellone d’uscita mi fiondai fuori come un
fulmine. Iniziai a correre attraverso le sale d’attesa dell’aeroporto,
mormorando una serie di scuse a tutti i malcapitati che si trovavano sulla mia
strada. Riuscii a raggiungere l’uscita abbastanza in fretta, così cercai un
taxi; essendo pieno giorno non potevo correre in mezzo alle case. “All’ospedale
della città, per favore.”, dissi all’autista mezzo addormentato. Lui
mi guardò dallo specchietto retrovisore e ghignò. “Ehi,
bellezza, non sei troppo piccola per andare in giro da sola? I tuoi genitori non
dovrebbero lasciare incustodito un simile gioiello...”. E ti pareva. Ci
mancava solo il tassista maniaco. Avendo già i nervi a fior di pelle non
riuscii a trattenere un ringhio. “Le ho chiesto di
portarmi all’ospedale.”, ripetei, ignorando il suo sguardo viscido
che ancora mi fissava. “Siamo nervosetti o sbaglio?”, continuò, mellifluo.
Involontariamente scattai in avanti e gli spinsi la testa sul volante. “Mi
porti a quel maledetto ospedale o ti devo spezzare l’osso del collo?”.
Senza dire una parola accese il motore e partì. Dopo circa venticinque minuti
arrivammo a destinazione. Scesi velocemente dal taxi, buttando sul sedile un
paio di banconote da 100 Dollari e chiudendo un po’ troppo forte lo sportello.
Mentre mi dirigevo svelta verso l’ingresso della struttura sentii il tassista
borbottare frasi sconnesse, tra cui “pazza ragazzina viziata” e “ha un bel
posteriore”. Mi costrinsi con tutte le forze a non tornare indietro e
staccargli la testa a morsi, ripetendomi che non ero li per commettere un
omicidio. Mi precipitai in un ascensore che stava per chiudersi, spaventando la
signora che era dentro per il mio arrivo repentino. Arrivai al quinto piano dopo
un tempo che mi parve infinito. Quando le porte si aprirono l’odore acre di
medicinali e prodotti per la pulizia mi invase. Tra questi però riconobbi anche
un’altra fragranza. Un profumo dolciastro e familiare mi indicò che il nonno
era nel reparto. Raggiunsi a passo lento la camera in mezzo al corridoio,
rimanendo immobile come una statua sulla soglia della porta. Nathe era ancora
immobile nel letto, esattamente come lo avevo lasciato tre giorni prima.
L’unica differenza era che era a petto scoperto, con una marea di elettrodi
attaccati su tutto il torace, mentre un defibrillatore era stato sistemato
accanto alla macchina per l’ossigeno. Dopo qualche attimo entrai dentro,
silenziosa. Il bip che poche ore prima era diventato continuo adesso era di
nuovo li, lento e costante. Come se fossi un automa, mi avvicinai al letto con
le gambe che tremavano. Con un dito tracciai leggera il profilo del viso di
Nathe, spostandogli poi i capelli scompigliati dalla fronte. La mascherina
dell’ossigeno gli copriva metà faccia. Rivederlo in quelle condizioni mi fece
sprofondare nella tristezza più assoluta. Gli diedi un piccolo bacio,
allontanandomi poco dopo. Dei passi svelti si stavano avvicinando, accompagnati
da alcune voci concitate. “Mi raccomando, Alison,
controlla la pressione ogni mezz’ora e assicurati che l’ossigeno non
finisca. Mi occuperò io del resto...” “Sarà fatto, Dottor Cullen.”.
Neanche un minuto dopo mio nonno comparve sulla porta. Si fermò di colpo appena
mi vide, e l’infermiera che lo seguiva per poco non gli finiva addosso. “Renesmee...”,
sussurrò, mentre si precipitava verso di me e mi stringeva in un abbraccio che
avrebbe ridotto in polvere un normale essere umano. “Oh,
nonno...Sono stata una stupida ad andarmene...” “Ssshhh, va tutto bene
adesso.”, mi disse, dandomi un bacio sui capelli. “Alison,
grazie ma non ho più bisogno del tuo aiuto. Puoi andare.”.
L’infermiera mi gettò un’occhiataccia, prima di uscire e chiudersi la porta
della camera alle spalle. “Edward e Bella sanno che
sei tornata?” “No, sono partita senza dire niente a nessuno. Ma credo che
Tanya li abbia avvertiti...”. Il nonno annuì, iniziando a visitare
Nathe. Come se fossero stati chiamati, tutti i membri della mia famiglia
comparvero uno ad uno dalla porta. Mia madre e mio padre mi piombarono addosso
come dei siluri, stringendomi tra le loro braccia marmoree. Salutai anche gli
altri, porgendo loro le mie scuse per come mi ero comportata. “Adesso
che siamo tutti...”, sussurrai, cercando la loro attenzione. “Mi...Mi
spiegate perché stamani...”. Le parole mi morirono in bocca, al
ricordo di quello che era successo qualche ora prima. “Nathe
ha avuto una crisi, Nessie. Stava per andarsene.”, disse il nonno,
preoccupato. La mamma mi passò un braccio intorno ai fianchi, stringendomi a sé.
“Ma adesso sta...”, sussurrai, aggrappandomi
alla maglia di papà, cercando il suo sguardo. Sia lui che gli altri
sospirarono. Dopo qualche attimo di silenzio parlò: “Non
possiamo escludere la possibilità che ne abbia altre.”. La gola mi si
chiuse del tutto, mentre i singhiozzi iniziavano a scuotermi. “Il
Dottor Anderson ha avvertito anche Angela e Ben...Le possibilità che si
riprenda si sono abbassate...”. Se non fosse stato per la mamma che mi
sorreggeva sarei crollata in terra. Il nonno sospirò pesantemente e proseguì: “È
per questo che abbiamo iniziato a considerare la possibilità...”. Si
interruppe, cercando con gli occhi mio padre, che gli annuì in risposta. “...Della
trasformazione.”. Tutto intorno a me si fermò. All’improvviso
l’immagine di Nathe vampiro che mi era apparsa in testa mentre ero a Denali si
fece di nuovo strada dentro di me, provocandomi i brividi. Il nonno mi poggiò
le mani sulle spalle. “Nessie, non ti spaventare...Per
adesso è solo un’ipotesi in caso estremo.”. Lo fissai a lungo,
incapace di proferir parola. Tutto ad un tratto papà si voltò verso la porta. “Nessie,
noi dobbiamo andarcene. Sta arrivando Jacob insieme ad Amy...Ci vediamo dopo a
casa.”. Mi dette un bacio ghiacciato su una guancia e si volatilizzò,
quasi invisibile, seguito da tutti gli altri. La mamma si trattenne ancora un
attimo. “Per favore, non te ne andare un’altra
volta...” “Sta tranquilla mamma, non lo farò più.”. Mi accarezzò
dolcemente il viso e poi sparì. Rimasi di nuovo da sola nel silenzio della
stanza per pochi, lunghissimi minuti, prima che la porta si aprisse di colpo. “NESSIE!”.
Amy mi volò letteralmente in braccio, picchiandomi i pugni sulle spalle. Lo
faceva sempre quando era arrabbiata con me...“Perché
sei sparita così, eh? Ho passato tre giorni d’inferno, accidenti a te!”.
Non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire un sorriso. “Ci
sei mancata, Nessie.”, disse Jacob, scompigliandomi i capelli con la
sua mano enorme. Analizzai per qualche secondo i loro sguardi. Si, sarebbero
finiti insieme molto presto. Feci l’occhiolino a Jake, che mi sorrise di
rimando, prima di abbracciarmi. “Ho saputo di
stamattina...Mi dispiace.” “Spero solo che non peggiori ancora...”,
sospirai, di nuovo con quel groppo opprimente in gola. Rimasi in loro compagnia
fino a sera, assistendo alle visite ripetute da parte del nonno, fino a quando
non giunse l’ora di tornare a casa. Jacob accompagnò a malincuore
prima Amy e poi me, dato che gli avevo detto mentalmente che avrei dovuto
parlargli. Dopo un’abbondante cena salimmo in camera mia. “Dimmi
tutto, Nessie.” “Jacob...Oggi, quando sono tornata...Il nonno e papà mi
hanno detto una cosa.”. Lui mi guardò silenzioso, invitandomi con gli
occhi a proseguire. “Ecco...Se Nathe avrà altre
crisi...”. Respirai a fondo. “Hanno proposto
di trasformarlo.”. Jacob rimase immobile per qualche secondo. “Beh...Non
è una bella notizia? Voglio dire...In qualunque modo andranno le cose, lui si
riprenderà e tornerà da te. Qual è il problema?”. Mi avvicinai alla
finestra, tracciando con un dito dei disegni sul vetro appannato. “Ho
paura che non sia più lo stesso...”. Jacob si alzò e mi poggiò una
mano sulla schiena. “Andrà tutto bene, vedrai.
Carlisle lo aiuterà.”. Mi asciugai due lacrime solitarie che si erano
fatte strada sulle mie guance con il dorso della mano.
“Grazie, Jake...Ma dimmi un po’, come va con quella pazza di Amy?”.
Jacob spalancò gli occhi e iniziò a balbettare, imbarazzato. “Vieni,
Black, mi devi raccontare un sacco di cose!”, dissi sorridente,
invitandolo a sedersi sul letto. Restammo a parlare fino a notte fonda, fino a
quando lui non iniziò a sbadigliare. “Torno a casa,
Nessie...Sto davvero morendo di sonno. Ci sentiamo fra qualche ora!”,
mi salutò, schioccandomi un sonoro bacio sulla guancia prima di saltare dalla
finestra. Dopo che se ne fu andato scesi in salotto.
Notai che erano tutti molto preoccupati, e fissavano silenziosi il nonno
che parlava al cellulare. “Ok, ok, aumentate la
morfina. No, cercate di mantenere stabile la pressione. Sto arrivando.”,
disse, prima di correre nel suo studio. “Cos’è
successo?”. Papà mi guardò addolorato, e in quel momento capii. “Ha
avuto un’altra crisi, vero?”. Il silenzio di tutti i presenti mi bastò.
Appena il nonno mi sfrecciò accanto lo bloccai, tenendolo per la giacca. “Portami
con te, per favore.” “Nessie, sarebbe inutile. Il Dottor Anderson è riuscito a fermare la
crisi, sto andando solo a dare un’occhiata.” “Nonno...”, lo
implorai, ma lui si limitò ad accarezzarmi. Sparì in un attimo, mentre la zia
Alice mi teneva una mano. Attendemmo il suo ritorno per quasi tre ore. Quando la
porta d’ingresso si aprì scattammo tutti in piedi, in attesa di notizie. “Carlisle,
allora?”, domandò la nonna con un filo di voce. Lo sguardo del nonno
non prometteva niente di buono. Aspettò un po’ prima di parlare.
“Non ha avuto una crisi, ringraziando il Cielo, ma il sangue sta iniziando a
non circolare più, soprattutto nelle gambe. I vasi sanguigni si sono indeboliti
molto, c’è il rischio che collassino.”. Il
nonno fece un respiro profondo e poi proseguì, la voce ridotta ad un sussurro:
“Non credo che reggerà ad un altro peggioramento.”. Mi sentii
morire. L’aria non mi arrivava più da nessuna parte. “Allora
dovrà essere trasformato?”, chiese mio padre, funereo. Il nonno si
voltò verso il grosso camino e chinò la testa, in segno di sconfitta. “La
Medicina non può fare più niente per salvarlo.”. Calò un silenzio
fatale all’interno del salotto. I miei diventarono delle statue, mentre io non
riuscivo a capacitarmi di quelle parole. Mi portai le mani sul viso, nascondendo
le lacrime che scendevano furiose dai miei occhi. “Chi...Chi
lo farà?”, sussurrò la mamma, con la voce spezzata dalla
preoccupazione. “Credo...Ci penserò io.”,
rispose il nonno, con una nota di dolore. “No.”.
All’improvviso mi alzai, determinata come mai prima di allora. “Lo
trasformerò io.”.