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Autore: melania    11/11/2009    16 recensioni
Una notte come le altre. Un futon caldo in cui dormire. Una finestra a separarlo dalla pioggia che imperversa fuori. Poi...il suono di un campanello che interrompe il silenzio. E la sua vita.
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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AIUTAMI

°11°

 

 

*E infine eccoci qui. Sembra impossibile eppure questa storia è giunta al termine. Ci sono voluti anni (letteralmente) per poterla terminare. Sono cresciuta insieme alla trama e ai personaggi, ho riversato parte di me stessa e delle mie esperienze in questa storia. Sono maturata insieme a Kaede e Hanamichi…e tutto questo si può intravedere nella mia scrittura, nei cambiamenti che inevitabilmente vi sono stati. *

*Ringrazio tutte le persone che in questi anni mi hanno seguita e commentata…e anche un pensiero a tutti coloro che ho “perso” durante il percorso, colpa della mia lentezza nel postare nuovi capitoli e della mia pigrizia. Vi ringrazio di cuore.*

*Vi lascio alla lettura, spero sia gradita.*

*Ringraziamenti più dettagliati, spiegazioni, note finali: tutto a fondo pagina.*

*P.S. Ho ri-postato tutti i capitoli precedenti, donandogli (per quanto possibile e senza intaccare il mio metodo di scrittura precedente), una formattazione delle pagine omogenea e correggendo i vari errori ortografici e di battitura che si sono succeduti nel tempo.*

* °NOTA IMPORTANTE°:

In questo capitolo, a differenza dei precedenti, cambierà il POW! Saranno la voce e i pensieri di Hanamichi a caratterizzare la conclusione di questa storia. Avevo deciso sin dall’inizio che Hana avrebbe portato a termine quest’avventura…ed eccolo qui. Spero di non dispiacervi con questo cambiamento.*

*Un bacio.*

*Melania*

 

 

 

 

 

 

 

*******************************************************************

 

 

 

 

 

 

 

 

“Se questo è il legame, come poterlo tagliare, come?

Come, se persino le mie ossa hanno sete delle tue ossa...”

Pablo Neruda - Sete di te m'incalza

 

 

Mi dondolo svogliatamente sull’altalena. In questo parchetto, a quest’ora della mattina, ci sono poche persone. Davanti a me, su una panchina verde incrostata, è seduto un anziano. Ha le mani posate in grembo, una giacca leggera aperta sul petto, gli occhi persi nel cielo. Ogni ruga del suo viso racconta una storia, uno stato d’animo, una risata che quell’uomo ha vissuto, assaporato, subito.

Come sarò, io, da vecchio? Le cicatrici sulle mie braccia diverranno sbiadite sulla pelle raggrinzita delle braccia? Saranno slavate, dimenticate?

Riuscirò un giorno a dimenticare il male che mi sono inflitto? O forse, come mi ha detto Katsuragi-sensei , porterò questo ricordo con me, fino alla fine?

Perché…cosa c’è di più orribile della delusione verso se stessi? Il giudizio degli altri puoi non ascoltarlo. Puoi decidere di circondarti di solitudine, immergerti nel dolore. Puoi decidere di non specchiarti negli occhi delle altre persone…di leggere nei loro occhi lo scherno, la compassione…la delusione.

Ma verso se stessi? Quale partita non è mai stata persa in partenza a tali condizioni?

Ovunque vai…sei circondato dai tuoi pensieri…e quelli non puoi cancellarli. Puoi sbattere la testa con forza contro un muro; puoi ubriacarti fino a perdere coscienza di chi sei e Cosa sei; puoi procurarti un dolore fisico tale da dimenticare per pochi, maledetti minuti, che cosa hai fatto e perché stai scappando dai tuoi stessi ricordi. Ma tutto dura troppo poco. Istanti brevi. Rarefatti. Scompaiono e riemerge la delusione. Il disgusto verso se stessi.

 

Il primo giorno che mi tagliai…fu per caso. Non riuscivo più a vedere, sopportare la mia immagine riflessa sullo specchio. Vivevo in Comunità…mi ricordo che quel giorno ero ritornato verso le due di notte…ero scappato, svincolato al coprifuoco…come accadeva da mesi ormai. Ero andato a ubriacarmi con Yohei e l’Armata in un pub seminascosto fra le vie periferiche di Kanagawa. Un postaccio, odorava di sigaretta e muffa e aria stantia. Ma servivano gli alcolici anche ai minorenni…condizione che lo rendeva il nostro preferito.

Mi ero arrampicato sull’albero vicino alla finestra della camera, singola ovviamente. Le Assistenti Sociali ripetevano incessantemente che ero un “cattivo soggetto”, che era meglio isolarmi. Io ne ero contento…nessuno mi rompeva, potevo fare ciò che volevo.

Come quella notte.

Barcollavo, ubriaco fradicio; a un tratto un piede era scivolato dal ramo sottostante e avevo penzolato per pochi secondi nel vuoto, afferrato con forza a un altro ramo. Con la lucidità derivata dall’adrenalina messasi in circolo per la paura, avevo pensato per un istante, a come sarebbe stato lasciarsi nel vuoto. E mentre scuotendo la testa, mi rimettevo in equilibrio e finalmente raggiungevo la mia camera, cercavo di immaginarmi come avrebbero trovato il mio corpo, il giorno dopo, ai piedi dell’albero.

Che ossa mi sarei sfracellato? Sarei morto subito?

E con questi pensieri in testa entro entrato nel bagno della camera. Avevo acceso la luce e mi ero guardato allo specchio. Ricordo che sgranai gli occhi…non so perché proprio quel giorno, ma lì, in quei secondi interminabili, vidi davanti a me una persona che non conoscevo. Che cosa ero diventato? Il mio aspetto era spaventoso e i lividi freschi sul viso (una scazzottata provocata ad arte all’interno del pub), mi conferivano un’aria grottesca. Delusione. Cocente, sfrenata, devastante. Crudele.

 

 

 

Davanti a me l’assassino di mio padre.

 

 

 

Davanti a me Hanamichi Sakuragi.

 

 

Forse gridai. Non ricordo…ma il pugno che scagliai contro lo specchio fu forte. Il dolore immediato. Liberatorio. Osservai affascinato i tagli che si allargavano lungo le mie dita…dei frammenti di vetro erano entrati nella carne delle mani.

Prima di vomitare sul pavimento sentii l’urlo di un altro ragazzo che era entrato di corsa in camera dopo aver sentito il rumore. Poi svenni.

 

 

 

 

 

Il giorno dopo mi svegliai con un mal di testa doloroso…ma con lucidità folle di aver trovato una risposta al Vuoto che m’inghiottiva.

Dopo la scuola passai da un konbini (nota 1)…e comprai un taglierino azzurro. Semplice, adatto per intagliare il legno, la carta colorata.

 

 

 

 

Le mie braccia.

 

 

 

 

Un Assistente Sociale un giorno mi scoprì…non ero ancora diventato esperto e preso dal piacere orgiastico, avevo esagerato con i tagli ed ero svenuto a mensa. Lei se ne accorse e mi mandò dallo psicologo della Comunità. Non ricordo nulla del breve colloquio che avemmo…solo il suo sguardo. Sembrava annoiato, dirmi “Perché mi fai questo? Perché mi devi dare un problema da risolvere?”.

 

Alla fine si decise di mandarmi in una casa comunale nella periferia di Kanagawa. Con la scusa che ero cresciuto, potevano tenermi lontano dai loro occhi. Anche se morivo…non gliene fregava nulla a nessuno. Ero un elemento perso per la società…se non ti vedo, tu non esisti.

 

 

 

 

 

 

Mi fermo, punto le scarpe da ginnastica contro il terreno. Ho un po’ freddo, indosso solo una maglietta a maniche corte…eppure poter mostrare le mie braccia, non vergognarmi delle cicatrici, ha il sapore della libertà.

Della guarigione.

 

Anche se domani, quando arriverò da te, sarò ben raffreddato.

Ridacchio leggermente, immaginando la tua espressione corrucciata. Il solo pensiero che domani potremo rivederci…e stare insieme.

Kaede il cuore mi batte più forte…che sciocco do’hao eh? Tu non sei sdolcinato né particolarmente romantico…eppure i tuoi abbracci e i tuoi occhi sono il miele più dolce.

 

 

 

 

 

 

Mi allontano lanciando un ultimo sguardo al vecchio. Cosa guarderà? Che cosa starà pensando? Sono stato sempre incuriosito dagli anziani…eppure la mia figura e il mio sguardo da teppista non mi hanno mai molto aiutato nell’interazione con loro. Faccio per girare il viso quando il vecchio posa lo sguardo su di me e mi sorride. Penso di arrossire come uno scemo, mimando una sottospecie di lieve inchino, mentre sveltendo il passo, varco il cancello metallico del parchetto. Beh a volte ci sono anche delle sorprese eh…

 

 

Quel parchetto per me è sempre stato…speciale. Non era lontano dalla Comunità e a volte, dopo che uscivo dalla scuola, andavo lì per giocare con gli altri bambini. Era bello e piacevole poter confondersi con gli altri…in quelle vasche di sabbia eravamo tutti uguali, non era importante avere dei genitori o meno. Eravamo noi la “mamma” o il “papà” di turno, o l’”esploratore” o l’”astronauta”.

 

 

 

In quel parchetto io potevo essere chiunque.

 

 

 

Raccontavo agli altri bambini che mia madre era la cuoca più brava del mondo e che mio padre era un importante uomini d’affari. E tutti mi credevano e m’invidiavano. Katsumi-san, l’assistente sociale alla quale ero assegnato, mi raccomandava sempre di non raccontare quelle bugie. Ma a me non importava. Ero testardo…e ingenuo. Un giorno un bambino mi prese in giro gridandomi che la sua mamma gli aveva detto che in realtà ero un orfano. Gli altri bambini mi guardavano sorpresi, curiosi. Piansi molto quel giorno. Ma poi passò tutto. I bambini dimenticano, io finsi di dimenticare. Continuavo a giocare…a volte da solo.

 

Dopo l’adozione non venni qua per anni. Con mio padre abitavamo in un’altra zona di Kanagawa. Era una palazzina dai mattoni gialli. Mi piaceva molto. L’appartamento non era molto grande, ma avevo una camera tutta mia. Quando litigavamo con mio padre, mi rifugiavo lì. La cucina profumava sempre di pietanze diverse perché lui lavorava come cuoco in un ristorante del Centro. A volte, nei momenti di “tregua” m’insegnava a cucinare. Io spesso sbuffavo, lo deridevo, gridavo che a me non fregava un cazzo della cucina…ma in realtà, ascoltavo attento tutto ciò che mi diceva. E durante la giornata, quando era al lavoro, mi esercitavo di nascosto in cucina. La notte, prima di uscire a fare baldoria, gli lasciavo sulla tavola apparecchiata l’ultima pietanza che mi aveva insegnato. Non era una regola scritta…ma sapevo che gli faceva piacere tornare a casa la sera, stanco, e trovare qualcosa pronto da mangiare…cucinato da me. Se il giorno dopo, a colazione, cercava di dirmi qualcosa a riguardo della mia gentilezza, m’incavolavo e affermavo che lo facevo solo per pietà nei suoi confronti e del suo stupido e miserabile lavoro. Lui sorrideva e alla fine me ne uscivo da casa sbattendo la porta.

Dopo mesi di quel teatrino, smise di accennare qualsiasi tipo di ringraziamento. Ma la mattina, accanto alla ciotola del riso, trovavo sempre un post-it con sopra un numero. Era il suo voto a ciò che avevo cucinato la sera prima. Io non mostravo nessun tipo di emozione mentre lo accartocciavo ma dentro di me esultavo, perché i voti erano sempre alti. Ero felice che lui fosse fiero di me e del suo insegnamento.

 

 

Gli volevo un bene dell’anima.

 

 

 

Dopo la sua morte…dovetti tornare in Comunità.

E quel parchetto rientrò a far parte della mia quotidianità. Andavo lì per fumare. E in seguito per tagliarmi, prima che mi trasferissi nella Casa Popolare.

 

E lì andai…anche quel giorno. Avevamo litigato pesantemente con Yohei. Avevo deciso di allontanarmi da lui e dal Guntai, dal loro affetto.

 

 

 

Non sopportavo l’idea di mentirgli.

 

 

Avevo incominciato a tagliarmi e i ricordi di mio padre mi distruggevano giorno dopo giorno. Un conto era mentire alla squadra o alle persone che non mi conoscevano bene…la parte del buffone ormai non richiedeva più particolare sforzo, s’ingranava da sola ed io ero spettatore quanto chi mi osservava e interagiva con me. Ma con i miei amici…non potevo più. E l’unica scelta era di allontanarmi da loro.

Ci offendemmo così tanto quel giorno…quando ci si vuole bene si conoscono tutti gli antri oscuri dell’altra persona.

 

 

Sai dove colpire, dove affondare.

 

 

 

Quel giorno ci uccidemmo.

 

 

 

A vicenda.

 

 

Non ricordo più esattamente le parole che volarono…ma il dolore fu così lacerante, che pensai che non ce l’avrei fatta a gettarmi tutto alle spalle. Mi rispecchiavo negli occhi di Yohei e sapevo che anche lui provava il medesimo dolore.

 

 

 

Come poter abbandonare un fratello?

 

 

Non ci picchiammo. Le nostre parole avevano già inferto ferite profonde. Yohei mi lanciò un’ultima occhiata velenosa e con sguardo risentito, mi diede le spalle, incamminandosi fuori dal parchetto. Io rimasi immobile: mi sembrava d’essere in un mondo ovattato, non avvertivo i suoni.

Incominciò a piovere…avevo letto distrattamente su un giornale che sarebbe arrivato un tifone nella serata. Eccolo. Mi bagnai completamente in pochi secondi. Indossavo solo una maglietta leggera e un paio di jeans. Il cappotto l’avevo lasciato nel bar, dove avevamo mangiato con il Guntai…e dove avevo deciso di chiudere quella relazione. Nell’agitazione mi ero anche dimenticato di prenderlo con me. Stavo morendo dal freddo. Yohei aveva raggiunto gli altri nel locale? Yohei…in quel momento mi resi conto di ciò che avevo fatto. Incominciai a piangere. Non riuscivo più a vedere nulla, non sapevo se per le lacrime o per l’acqua fredda che scorreva lungo il mio viso.

In uno stato di confusione latente uscii dal parchetto camminando in strada. In realtà non vedevo nulla di ciò che mi circondava. Era tutto così grigio. E slavato. E camminai. Camminai per ore. Poi, a un tratto, mi ritrovai davanti alla tua casa.

 

 

 

 

 

Non poteva essere una coincidenza.

 

 

 

 

 

Ormai era da più di un anno che ti osservavo. Di nascosto. Mi ero innamorato di te. Non ti conoscevo quasi…eppure avvertivo un legame fra noi due.

 

 

Che ore potevano essere? Non m’importava. Stavo malissimo. La tua porta in quel momento mi sembrava un’oasi di pace. Un abbraccio caldo. Non ragionai su ciò che stavo facendo. Mi attaccai con disperazione al citofono. Non m’importava se in concreto a scuola non facevamo altro che insultarci e che non mi avevi mai dato ad intendere di avere un qualche tipo di interesse o simpatia nei miei confronti.

 

 

Volevo vederti.

 

 

 

E poi mi apristi.

 

 

 

 

 

 

 

E il resto è storia.

 

 

 

 

-          Hanamichi Sakuragi!

Il mio nome risuona nella sala gremita di ragazzi, riecheggiando fra il brusio, il mio cervello.

Mi alzo lentamente lanciando uno sguardo d’intesa con Yohei, poi a passo cadenzato e leggermente strafottente mi avvicino al palchetto, davanti al professor Yoshida. La sua mano mi porge una coccarda rossa, me la appunta sulla divisa dello Shohoku, all’altezza del cuore, sorridendomi. E il suo sorriso, lo so, è sincero. Se sia in realtà contento perché finalmente lasci questa scuola insieme alla mia fama di teppista o se sia soddisfatto che un “soggetto” come me si sia diplomato con ottimi voti non posso affermarlo con sicurezza. Ma in fondo non m’interessa.

-          Congratulazioni Sakuragi. Renda orgoglioso l’Istituto Shohoku.

 

-          Grazie… - m’inchino lievemente, sorridendo.

 

 

 

E in questi pochi secondi penso a te.

 

 

 

 

Kaede, cosa starai facendo in questo momento? Dormirai?

 

 

Oggi dovresti essere qui accanto a me.

 

 

Dovremmo essere insieme a ritirare questi diplomi.

 

 

 

Ma tu non ci sei e mancano ancora svariati mesi alla tua cerimonia di diplomazione. Indosserai anche tu quelle casacche lunghe e scure? Immagino già l’espressione contrariata che assumerà il tuo viso. E il tuo adorabile broncio che incresperà le tue morbide labbra. E il cappellino in testa? Imperdibile.

 

 

Mi giro e ritornando a sedermi penso che fino all’anno scorso non avrei mai pensato di arrivare fino a questo punto. Nei giorni più dolorosi sapevo che avrei lasciato la scuola prima di diplomarmi…o che sarei morto prima. Lo sapevo. Volevo crederci. In fondo mi piaceva pensare di non avere nessuna speranza…

 

 

 

Ma poi…ci sei stato solo tu.

 

E la promessa che ci siamo scambiati ha strappato un significato alla mia esistenza.

Ha delineato con tinte forti un futuro a cui finalmente potevo agognare.

Una felicità alla quale finalmente potevo accedere anch’io.

Non ero più il ragazzo rinchiuso nel monolocale, immerso nel suo sangue.

 

 

 

 

Non ero più quel ragazzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non sono più quel ragazzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E devo ringraziare solo te Kaede. Solo te.

 

 

 

 

 

 

 

Mi siedo con un tonfo sulla sedia di plastica. Avverto la pacca di una mano sulla spalla. Mi giro leggermente e vedo il sorriso compiaciuto di Yohei.

-          Ce l’hai fatta Tensai.

-          Avevi dubbi?

 

 

 

 

***

 

 

 

 

L’aria primaverile è fresca sul mio viso. Chiudo gli occhi lentamente, il tiepido sole che mi accarezza, il largo viale alberato che si staglia all’orizzonte. Fra pochi minuti i cancelli della scuola si chiuderanno…eppure qui sul terrazzo sembra di essere immersi in una realtà alternativa, che scorre immobile, piacevole. Con gli occhi chiusi posso immaginare di non essere qui, e l’aria satura del profumo dei ciliegi in fiore diviene sbiadita nel mio olfatto…non sono qui.

 

 

 

O almeno…non vorrei essere qui.

 

 

A un tratto il cellulare incomincia a vibrare nella mia tasca.

Con un sorriso premo il tasto verde portandomelo all’orecchio.

-          Pensavo che avrei dovuto aspettare l’intera giornata per ricevere una tua chiamata…

Avverto solo uno sbuffo dall’altro capo della chiamata.

-          Stavi ancora dormendo volpaccia? Che ore sono lì a New York?

 

-          Mh…le 7…

Immagino il suo viso mezzo addormentato…è il momento della giornata in cui Kaede è quasi intrattabile…eppure adoro il suo broncio, i suoi occhi assonnati…i suoi capelli scompigliati, la sua lentezza impacciata nel svegliarsi. Penso sia l’unica persona capace di essere affascinante in un frangente simile.

-          Beh…non mi dici nulla? – e incomincio a dondolare gongolante sulle gambe.

 

-          Mh…no, non mi sembra… - e anche se non lo posso vedere, riesco lo stesso a immaginare il suo sorrisetto ironico.

 

 

-          Baka kitsune!

 

-          Pff…do’hao. Ah sì…congratulazioni per il diploma.

 

 

-          Cos’è quel tono di sufficienza? Ti ricordo che fra i due, ora sono io quello con un attestato maggiore.

 

-          Solo per poco…e solamente perché in Giappone sono consegnati prima…se no l’avrei preso già da un pezzo anch’io…

E continuiamo a punzecchiarci.

 

 

 

Questo è il nostro rapporto. Siamo maturati in quest’anno lontani…eppure certi atteggiamenti non cambiano mai. Ci piace comportarci così, anche se ormai non ce ne sarebbe più bisogno.

Dopo il mio resoconto dettagliato della cerimonia, seguito da qualche suo sbuffo e mugolio, penso che sia il caso di chiudere la chiamata, avrà già speso un bel po’ e penso debba anche andare a scuola.

 

-          Che lezioni hai oggi? Non sei in ritardo?

 

-          No tranquillo, sono veloce lo sai.

 

 

-          Se lo dici tu...- e ripenso alle biciclette rotte e alle varie giustificazioni che ha dovuto fornire al dormitorio dove vive…

 

-          Do’hao…

 

 

-          Baka…fai attenzione…buona giornata.

 

-          Mh…anche a te.

 

 

-          Hana…

 

-          Mh?

 

 

-         

 

-         

 

 

-          Ti aspetto.

 

Sì aspettami. Arriverò.

 

 

 

 

Le valigie sono già pronte…in realtà non ho molto da portare con me. In fondo non possedevo nulla d’indispensabile oltre agli utensili di cucina di mio padre…ho deciso di dedicare ieri e oggi per salutare questa città, le strade, le poche persone che mi lascerò indietro. La squadra. Quest’anno non abbiamo fatto un campionato incredibile come quello dell’anno scorso, ma in fondo, senza Kaede e i sempai Akagi e Kogure era inevitabile. Ho salutato tutti, ho abbracciato Anzai-san ringraziandolo di tutto ciò che ha fatto per me e Kaede.

 

Ieri ho salutato Watanabe-san…l’ho ringraziato con calore per la concessione di avermi fatto lavorare nel suo locale e per la comprensione che mi ha sempre rivolto.

Aveva gli occhi lucidi mentre borbottava con voce arrochita di stare attento negli Stati Uniti, che non era come il Giappone…di non farmi mettere i piedi in testa da quegli “yankee”, e discorsi simili.

Ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale…ha combattuto nell’Esercito Giapponese, probabilmente ha ucciso soldati americani…non gli ho mai chiesto di quel periodo della sua vita, non m’interessava. Ma ora comprendo che dietro le sue parole ci devono essere antichi rancori…forse avrei potuto prestare più attenzione ai suoi ricordi nei mesi passati. Gli ho sorriso, dicendogli di non preoccuparsi. In fondo sono un Tensai…no?

Avrei voluto abbracciarlo, ma non era il caso. Gli ho promesso che gli avrei scritto e mentre mi chiudevo la porta del locale dietro le spalle, ho pensato che stava terminando definitivamente un periodo della mia vita.

 

Nell’aria è rimasto impalpabile per pochi secondi l’odore del legno di pino e del tabacco…poi si è dissolto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi avvicino alla spiaggia. L’odore della salsedine è forte, nella risacca ci sono montagnole di alghe…ieri il mare era mosso. Mi sfilo le scarpe e incomincio ad affondare i piedi nella sabbia. Mi ricordo di quel giorno che venimmo insieme qui con Akito….sembra siano passati anni.

Non c’eravamo ancora chiariti, ti confessai del mio essere orfano. Forse la prima volta che ci guardammo con occhi diversi…tutto grazie a quel bambino. Facemmo anche un castello di sabbia…proprio qui.

 

La sabbia scorre leggera fra le mie dita aperte…mi siedo. Cambio idea…mi distendo completamente. Chiudo gli occhi…dalla strada arrivano a intermittenza i rumori del traffico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ti ricordi la prima volta che sono venuto a trovarti?

Avevo ritirato la mia valigia e tentoni, in mezzo alla folla vociante e colorata, cercavo la tua figura.

Mi sono sentito poche volte perso in vita mia…quando trovai mio padre morto nel salotto di casa…quando mi tagliai la prima volta…e quel giorno.

Sì…in un Paese che non mi apparteneva, in un aeroporto immenso, in mezzo a centinaia di persone che non conoscevo e che parlavano lingue a me non familiari. Ho compreso che cosa significhi sentirsi solo in mezzo alla folla. Di nuovo.

 

 

 

 

Essere circondati dall’umanità eppure non farne parte.

 

 

 

 

E poi a un tratto una mano ha raggiunto la mia, stringendola. Una mano che mi ha accarezzato per mesi, che mi ha picchiato con violenza…la tua mano, le tue dita. E quando mi sono girato c’eri tu…bellissimo. Non ci vedevamo da sei mesi, un’eternità. E siamo rimasti immobili, i nostri occhi incatenati, le labbra serrate, imbarazzate. C’eravamo sentiti quasi ogni giorno in quel lungo periodo…eppure rivedersi…

 

Era come avere davanti a noi uno sconosciuto. Sapevamo che eravamo noi, i tuoi capelli d’ebano, i tuoi occhi azzurri e profondi, il tuo corpo sinuoso dalla pelle lattea.

Le persone ci urtavano, le vite degli altri ci accarezzavano mentre si allontanavano, a noi non importava. Stavamo ricreando un legame, un legame visivo, olfattivo…perso nei mesi. Cosa ci importava di tutto il resto?

 

 

E poi, forse all’unisono, ci siamo abbracciati con forza. E il tuo profumo, l’odore della tua pelle candida Kaede, mi ha invaso le narici, e penso di essermi emozionato come un bambino. Gli occhi lucidi, le braccia intorno al tuo corpo, strette strette, nemmeno fossi un naufrago in mezzo al mare.

 

 

 

E quel giorno compresi che non era importante essere in un Paese straniero e sentirsi smarriti, non comprendere la lingua, essere lontani dal Giappone o dalla propria casa.

 

Eri tu la mia “casa”, le tue braccia che mi stringevano la delimitavano, e le tue labbra morbide contro le mie la illuminavano. Ho pensato di essere davvero innamorato di te e mi sono quasi spaventato. E lo smarrimento era anche nei tuoi occhi, continuavamo a stringerci, consci di un sentimento che, nonostante la lontananza, non era diminuito né affievolito…anzi.

 

 

 

Rinforzato, maturato.

 

La nostra promessa si era compiuta.

 

 

 

Perché…di paure ne avevamo molte. Non ce l’eravamo confessate e anche quando ti avevo accusato di aver paura di trasferiti negli Stati Uniti, nelle mie parole c’erano anche le mie paure.

Credevamo nella nostra relazione. Ma non potevamo ignorare la nostra giovane età, le migliaglia di chilometri che ci avrebbero separati, e le diverse esperienze che avremmo affrontato da soli.

 

 

Chi ci assicurava che il nostro sentimento non sarebbe mutato, scomparso…e in quei secondi interminabili, davanti l’uno all’altro, cercavamo dentro di noi la risposta a questa domanda.

 

Forse sorpresi da questo legame che ci univa, stretti. Per ora infrangibile.

 

 

 

 

 

 

Avevamo preso un autobus, un po’ storditi dalla presenza reciproca. Io immerso nel panorama che mi circondava, tu dalla mia immagine non familiare in posti che vedevi e vivevi tutti i giorni.

 

 

Nel dormitorio del college non c’era nessuno quando eravamo arrivati. Avevi spiegato brevemente al portiere la situazione e lui con sguardo infastidito ti aveva detto di toglierti dai piedi o qualcosa del genere. Non ho mai capito perché a fare questo lavoro sono sempre le persone più burbere e antipatiche di questo mondo. Ma tu dovevi essere abituato al suo comportamento, mi avevi afferrato per la giacca e trascinato dentro l’ascensore che portava ai piani superiori.

Poi ricordo solo le tue labbra esigenti contro le mie, la valigia dimenticata sul pavimento, le nostre lingue che si cercavano, affamate. I secondi interminabili che ci avrebbero portato al quinto piano e le tue mani calde sotto la mia maglietta verde. C’eravamo staccati quando si erano aperte le ante dell’ascensore…e quasi di corsa, sbandando come ubriachi, avevamo percorso il corridoio. Non riuscivo a guardarmi attorno, a vedere cosa mi circondava. Avevo il tuo sapore in bocca…la felicità sulla lingua. Nel corpo. Avevo bisogno di te. Solo in quel momento mi resi conto di quanto avessi bisogno di te. Come avevamo fatto a stare sei mesi lontani, distanti. Come cavolo avevamo fatto. Ora non riuscivo a capirlo, a capacitarmene. Avvertivo solo l’urgenza di entrare nella tua camera e perdermi fra le tue braccia. Dopo avremmo parlato, ci saremmo raccontati tutto ciò che volevamo. Ma in quel momento avevo solo bisogno di te sopra di me, delle tue carezze e del tuo amore.

Alla fine, dopo un’attesa che mi era sembrata interminabile, c’eravamo fermati davanti ad una porta, la Tua porta e con mano tremante avevi infilato la chiave metallica nella serratura.

 

 

 

 

Un “tlack” e finalmente entravamo nel nostro Mondo Privato.

 

 

 

 

 

Non mi ero nemmeno guardato attorno e tu eri già contro di me, la mia schiena pressata contro la porta di legno. Scricchiolava mentre ci divoravamo le labbra, le bocche. Eravamo cosi pressati l’uno contro l’altro che non riuscivamo a sfilarci le magliette, i vestiti. Poi eri sceso lungo il mio collo, mordendo leccando ed io non ero più riuscito a tenere gli occhi aperti.

Quando li avevo riaperti, spalancati, tu eri già in ginocchio davanti a me, a leccare il mio piacere perlaceo, i miei jeans e i boxer abbassati lungo le caviglie. Non riuscivo più a sorreggermi in piedi e tu mi avevi quasi preso in braccio e fatto distendere sul letto vicino. Poi avevi finito di spogliarti e mentre ammiravo estasiato e col fiato corto il tuo corpo perfetto, ti stavi infilando un preservativo rosso lungo il tuo pene congestionato. Trovai quel colore curioso ma ogni ulteriore pensiero scomparve nell’istante in cui scivolasti in me. Sussurrasti solo “Hanamichi” con voce roca, impastata dall’eccitazione e anche da un senso di completezza, contro il mio orecchio. Finalmente eravamo di nuovo insieme.

Facemmo l’amore in modo quasi violento, veloce, alla ricerca di un piacere totalizzante e immediato. Raggiungemmo l’orgasmo in un’esplosione di luce, tremando, stringendoci con forza l’uno contro l’altro. Ti lasciai dei graffi lungo i tuoi fianchi morbidi e candidi.

 

Dopo eravamo rimasti sotto il lenzuolo leggero, di fianco l’uno all’altro…la mia testa posava sulla tua spalla mentre mi accarezzavi lentamente il fianco con la mano libera. Era la luce calda del tramonto. Dalla finestra aperta entrava una leggera brezza estiva, insieme ai suoni ovattati della città. Ero a New York, non riuscivo ancora a crederci. Eravamo insieme.

 

Mi guardai finalmente intorno. La camera non era molto grande ma ti rispecchiava. Era ordinata, pulita. Su un lato c’era una libreria con i testi scolastici e qualche rivista sportiva. Sulla parete di fronte, vicino alla finestra e al letto, c’era la tua scrivania. Era sgombra, con una lampada arancione su un lato. T’immaginai il pomeriggio o la sera studiare lì sopra. Chino sui libri o mezzo addormentato, la testa appoggiata a una mano. E poi notai una foto, nell’angolo destro della scrivania. Era seminascosta da un vocabolario. Mi alzai sorpreso, facendo cigolare il letto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’ero io lì sopra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ero addormentato, disteso a pancia in giù sul mio letto. La schiena scoperta. La luce era chiara, doveva essere mattina presto. Mi girai sorpreso verso di te, ma tu distogliesti lo sguardo, imbarazzato. “E questa?” ti dissi, ma tu non rispondesti.

 

 

Tu sei così. Non sei dolce eppure hai dei gesti che spiazzano. Come quel giorno. Chissà quando me l’avevi scattata. E il pensiero che te la fossi portata negli Stati Uniti e che la tenessi sulla tua scrivania…mi rese felice. Tornai su quel letto e ti abbraccia forte forte. Tu borbottasti solo un “do’hao”, ma sorridevi, le guance lievemente color porpora.

 

 

In seguito, mi hai confessato che quella foto ti piaceva così tanto perché mostrava la mia parte più vulnerabile. Ti facevo tenerezza. Non sapevo se prenderlo come un complimento.

 

 

 

 

Girammo New York in quella settimana; la mattina andavi a scuola ma il pomeriggio eri solo mio. Mano nella mano, insolito per noi due... ma mi dicesti che in quella città erano più tolleranti. Ed era bellissimo non nascondersi.

 

 

Una notte mi portasti anche in un bar gay. “Cat Bar” (nota 2). Scoppiai a ridere come un matto. Il tuo sguardo mi rimproverava ma so che in fondo eri divertito anche tu. Come avevi fatto a trovare un bar con un nome simile? Semplicemente adorabile. Quanto ci baciammo durante quella serata? Non potevamo bere alcolici ma ci sentivamo mezzi ubriachi lo stesso.

 

 

 

È stata una settimana bellissima. Semplicemente perfetta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi rialzo lentamente dalla sabbia. Un ultimo sguardo al mare, al blu accecante che rispecchia il cielo…e ricomincio a incamminarmi lungo le vie di Kanagawa.

 

 

 

Prima di partire…devo portare a termine un altro passo. Mi fermo dinanzi ad un negozio. La vetrina rispecchia la mia immagine…sospiro. Devo farlo…

 

 

 

 

 

 

 

 

Entro e penso che ora sia davvero tutto finito . Il passato alle spalle…il passato alle spalle.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Il bagaglio l’ho consegnato. Osservo il tabellone delle partenze…fra un’oretta parto. Il volo per Pechino (nota 3) è in orario. Sono agitato come un bambino. E non so se essere più felice o impaurito da questo passo che sto facendo.

 

A un tratto sento una manata sul collo. E quella mano pesante la riconoscerei fra mille.

-          Brutto mentecatto come ti sei permesso di alzarmi le mani! – e girandomi velocemente afferro Nozomi sollevandolo di qualche centimetro dal pavimento lucido dell’aeroporto.

 

-          Era una tentazione troppo forte! – ridacchia mentre mangiucchia un pezzo di merendina.

 

 

-          Hanamichi! A malapena ti riconoscevamo! Ma cosa hai fatto ai capelli? – mi giro e vedo avvicinarsi Yohei e gli altri.

 

-          Eh eh…- mi gratto un po’ imbarazzato la testa.

 

 

-          Ma Rukawa lo sa? Non è che non gli piacerai più e ti rimanderà indietro con il prossimo aereo?

E tutti ridono sguaiatamente mentre cerco di riportare un po’ di ordine gridando e inseguendoli. Dopo più di una sgridata da parte del personale dell’aeroporto, ci avviciniamo alla postazione per i controlli sul bagaglio a mano. Mi giro verso di loro…ci guardiamo un po’ tristemente. Abbraccio tutti con trasporto.

-          E per favore…fate attenzioni ai gatti…non deve mancargli nulla, intesi? Se no torno in Giappone e ve la faccio pagare!

 

-          Sì mamma-gatto, non ti preoccupare, saranno in ottime mani.

 

 

-          E soprattutto tu Yohei…quello era il gatto di Kaede. E’ un po’ stronzo ma in fondo è in gamba.

Ci sorridiamo, mentre gli altri continuano a prendere in giro il mio affetto verso quelle palle di pelo.

Mi mancheranno molto…ma non sapevo davvero come portarli con me. Mi sarebbe piaciuto fare una sorpresa a Kaede e riportargli Micky. Ma poi come avremmo fatto a tenerlo? Nei dormitori non è possibile avere degli animali…era questa la ragione che aveva portato Kaede a lasciarmi il suo amato-ruffiano gatto. Alla fine ho deciso di lasciare i miei gatti a questi tre idioti…con la promessa che li avrebbero curati fino a quando non avessero trovato qualcuno al quale regalarli (o, conoscendoli, venderli!), mentre a Yohei ho lasciato Micky. So che Kaede sarebbe stato d’accordo.

In fondo sono persone affidabili quando vogliono.

Anche se siamo stati divisi per vari mesi, quest’anno abbiamo recuperato il tempo perso. Sono stati gli unici veri amici che abbia mai avuto.

Quando abbraccio Yohei, mi sussurra che rimarremo per sempre legati, nonostante la lontananza. E che se combinerò qualche cazzata, lui sarà sempre pronto ad ascoltarmi.

Lo stringo più forte prima di separarci. Recupero lo zaino che avevo posato per terra.

-          Beh…devo andare se no quelli mi lasciano per terra.

 

-          Quanto dura il viaggio?

 

-          Diciotto ore.

 

-          Cazzo…non t’invidiamo proprio…

 

-          Ma lo danno almeno il cibo a bordo?

E tutti scoppiamo a ridere. Nozomi fa la faccia offesa, gridando che è una domanda più che legittima.

Con la promessa che manderò un sms a Yohei appena arriverò a Pechino, mi allontano da loro, facendo i vari controlli.

Dopo che ho superato le transenne, mi rigiro.

 

Eccoli lì…tutti e quattro. Mi salutano sorridendo come degli scemi. Gli occhi sono lucidi…ma penso che se glielo facessi notare si offenderebbero. Dei teppisti (veri o presunti) non piangono. Mai. Ma io mi sono lasciato il passato, tutto il passato, alle spalle…e posso permettermi le poche lacrime che scorrono sulle guance.

Un nuovo sorriso raggiante e dandogli la schiena, mi allontano, dirigendomi verso il gate.

 

 

 

 

Ho fatto una promessa a Kaede prima che partisse…e voglio mantenerla.

Ingoiando come un piatto prelibato sia il mio orgoglio sia la paura.

 

 

Con un grosso respiro, quasi in apnea, percorro il corridoio, scansando i vari studenti che mi lanciano occhiate perplesse.

Non pensavo che avrei rivisto più questa classe. Nonostante la rotazione trimestrale (nota 4), so che non l’ha cambiata. Certi “elementi” generalmente non sono spostati di classe in classe.

La porta scorrevole è socchiusa, benché sia la pausa pranzo. Sento il battito cardiaco aumentare. Sono stato poche volte così teso in vita mia. Non se entrare o meno…e se non ci fosse?

 

 

E se non volesse parlarmi?

 

 

 

A un tratto la porta si apre completamente e davanti a me compare una studentessa dai capelli corti. Arrossisce abbassando lo sguardo di colpo.

-          Sa…Sakuragi-kun…

 

-          Ciao… - sorrido leggermente cercando di eliminare mia onnipresente aria minacciosa, - c’è Yohei dentro?

 

 

-          Mito-kun? Mh.sì.

 

-          Me lo fai uscire?

 

 

-          Sì sì…- e arrossendo ancora di più, rientra in classe.

 

 

 

 

 

 

Passano vari minuti e sento l’ansia e l’aspettativa crescere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cazzo perché ci mette così tanto?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A un tratto la porta si riapre e compare lui.

 

 

Ci guardiamo negli occhi rimanendo in silenzio. Siamo entrambi imbarazzati e tesi…è da mesi che non ci parliamo…dopo quel giorno maledetto.

 

Cercando di non farmi tremare troppo la voce, gli chiedo di raggiungermi sopra in terrazza con gli altri. Un cenno con la mano a mo’ di saluto e gli volto le spalle, allontanandomi.

 

 

 

 

 

Il cuore in gola.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’aria è pulita e fresca. E’ fine febbraio e già si possono intravedere i segni imminenti della primavera. Le giornate si allungano giorno dopo giorno e incominciano a sbocciare i primi boccioli sugli alberi.

 

 

 

Respiro lentamente…risboccerà anche un’amicizia?

 

 

 

 

 

 

Sento dietro di me la porta metallica aprirsi. Vari passi concitati e loro sono qui.

 

 

Prendo un grosso respiro girandomi.

 

 

 

 

Eccoci…così vicini eppure così lontani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Guardo ognuno negli occhi. Yohei infila una mano nella tasca dei pantaloni, estraendo una sigaretta. Yūji gli passa l’accendino.

 

 

 

 

Ok…ce la posso fare. Penso a Kaede, alle sue parole.

 

 

 

 

Devo fidarmi di loro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

M’inchino violentemente, di colpo, le mani strette a pugno contro i miei fianchi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-         PERDONATEMI!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando m’immaginavo questa scena, non pensavo certo di gridare…ma in fondo ora parte della tensione è passata. Rimango immobile, sento solo il silenzio dall’altra parte.

 

Mi risollevo in posizione eretta e fissando un punto imprecisato alle loro spalle, incomincio a sbottonarmi la giacca della divisa.

 

 

Mi fissano increduli e in parte perplessi.

 

 

 

Ho il fiato in gola, cerco di rimanere calmo. Getto la giacca per terra e incomincio a sbottonarmi la camicia.

 

 

Yohei alza una mano nella mia direzione, la sua espressione sempre più perplessa.

 

-          Hanamichi cosa stai facend…

 

Ma si blocca all’improvviso, gli occhi sgranati.

Degli ansiti sgomenti fuoriescono dalle loro labbra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con un ultimo fruscio la camicia scivola lungo i miei polsi, depositandosi sul pavimento tiepido della terrazza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E’ la prima volta che mostro le mie cicatrici a delle persone che non siano Kaede.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’aria è fredda, rabbrividisco. Cerco di non distogliere lo sguardo dai loro occhi increduli, ma è difficile.

 

 

Mi vergogno e per qualche secondo penso di aver fatto una cazzata.

 

 

Forse non erano pronti a questa verità.

 

 

Forse non capiranno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Faccio per chinarmi e riprendere la camicia quando Yohei mi si avvicina.

 

-          Perché non ce l’hai mai detto? Perché non ti sei fidato di noi?

 

Ci fronteggiamo, entrambi con il ricordo delle parole orribili che ci scagliammo, peggio di coltelli affilati.

 

-          Mi dispiace… - vorrei aggiungere altro, ma ho un groppo in gola.

 

 

 

 

 

Yohei mi sorride e avvicinandosi agli altri, quasi all’unisono, s’inchinano verso di me, gridando un perdono che non serve.

 

 

-          Scusaci…in fondo è stata colpa nostra…se fossimo stati dei veri amici, avremmo dovuto comprendere che c’era qualcosa che non andava. Invece abbiamo preferito voltarti le spalle e prendere per vero ciò che ci avevi detto. Mi dispiace tantissimo Hana…

 

 

 

 

 

 

 

Yohei mi abbraccia di colpo. Mi rilasso contro il suo corpo riconoscendo il suo odore di tabacco e brillantina da quattro soldi.

 

Vedo gli altri annuire.

 

-          Per fortuna… - Chūichirō sospira scuotendo la testa – Rukawa è stato più attento di noi.

 

Sorrido, arrossendo violentemente.

 

 

 

 

 

 

 

Gli altri mi guardano sorpresi.

 

-          Hana…c’è qualcosa che devi dirci?

 

 

E scoppiano a ridere. Arrossisco ancora di più ma alla fine incomincio a ridere anch’io.

 

E ridendo, sembra che tutto passi via. Questi mesi lontani, il dolore, l’abbandono. Yohei mi riabbraccia, dandomi delle pacche sulla schiena, complimentandosi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla fine ci ritroviamo tutti e cinque seduti contro il muretto della scuola, mentre racconto tutto ciò che è successo in questi mesi.

 

La mia malattia, le mie bugie, l’aiuto di Kaede, la nostra relazione, la sua partenza verso gli Stati Uniti, la mia promessa di raggiungerlo dopo il diploma, le mie sedute di terapia con uno psicologo.

 

E mentre racconto, fra occhiate tristi e momenti d’ilarità avverto un calore invadermi.

 

Sono di nuovo con loro. E avendo Yohei accanto, mi rendo conto di quanto mi siano davvero mancati.

 

 

 

 

Alla fine del mio racconto, rimaniamo in silenzio. Ma non è un silenzio imbarazzato…è solo la manifestazione di una complicità ritrovata, di un’amicizia mai dimenticata.

 

 

 

 

Yohei sospira alzandosi, stiracchiandosi la schiena.

 

 

 

Incomincia a levarsi la giacca della divisa e gli altri lo imitano. Io rimango seduto, guardandoli perplesso.

Mito mi sorride, arrotolandosi la camicia intorno agli avambracci.

 

-          Anche noi dobbiamo dirti una cosa. Però, prima di picchiarci, sappi che mi sono già scusato con Rukawa e che lui mi ha tirato un bel gancio che non scorderò tanto facilmente.

 

 

 

Eh? Cosa c’entra Kaede?

 

 

 

 

 

 

 

Il mio sguardo smarrito deve essere chiaro perché avverto Nozomi ridacchiare.

 

 

-          Penso che tu ricordi del giorno in cui Rukawa entrò in palestra pieno di lividi…

 

 

 

 

“Chi ti ha picchiato?”

“Te l’ho detto prima…sono inciampato. Nelle scale. Dormo troppo…lo dici anche tu no?” (nota 5)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sgrano gli occhi. Mi alzo di scatto.

 

-         ERAVATE STATI VOI! BRUTTI DEFICIENTI MA IO VI AMMAZZO!!!

 

-          Ve l’avevo detto che si sarebbe incazzato…- Nozomi incomincia a indietreggiare comicamente verso la ringhiera della terrazza.

 

 

In pochi secondi è il caos.

 

 

Ci scazzottiamo senza pensieri, solo per il gusto di picchiarci, come ai vecchi tempi. Era da tanto che non provavo queste emozioni. E poi…in fondo devo fargliela pagare per aver solo pensato di poter intaccare la perfezione di Kaede.

 

 

Mi ricordo ancora di quel giorno. Ero rimasto sconvolto davanti a tutti quei lividi…

 

 

 

 

Dopo vari minuti e mille pugni, siamo distesi sul pavimento, il fiato corto e ansante.

 

-          Hanamichi mi hai spaccato il naso…cazzo…

 

Volto la testa verso Yūji sogghignando.

 

-          La prossima volta ci penserai due volte prima di picchiare una volpe indifesa.

 

E tutti scoppiamo a ridere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Chiudo gli occhi, il pavimento tiepido contro la mia schiena, l’aria fredda…

 

 

 

 

Sono felice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ora…è finalmente tutto perfetto.

 

 

 

 

Pensando a questo giorno m’immaginavo una musica lenta e triste di sottofondo. Doveva sottolineare, il passaggio, la lontananza da ciò che conoscevo e l’immersione in un’acqua scura di cui non potevo intraprendere il fondo. Ma fra le note ci dovevano essere anche la speranza, l’adrenalina verso il Nuovo.

Ma ora nell’aria ci sono solo gli annunci delle hostess. E odore di caffè e pizza. E le grida di qualche bambino piccolo. La vita reale è così ordinaria e scontata rispetto alla fantasia.

 

Prima di salire sull’aereo do un’ultima occhiata alle mie spalle….vorrei poter pensare una frase d’effetto, qualcosa che sottolinei questa partenza. Ma la mente è solo rivolta al futuro e a te, Kaede.

 

Va bene così. Va anche bene così.

 

 

 

 

***

 

 

 

Sono davanti al nastro trasportatore. Guardo con apprensione fra le valigie che scorrono davanti ai miei occhi, ma non vedo la mia. Ho un sonno pazzesco e la schiena è completamente indolenzita. Dopo diciotto ore di viaggio posso dire di essere distrutto…se non sono arrivati neanche i bagagli penso che potrei avere un attacco omicida. Cazzo…questo nuova vita negli Stati Uniti sta iniziando davvero bene!

Dopo un’attesa interminabile finalmente le intravedo in mezzo a delle valigie rosa confetto. Ringrazio tutti gli dei possibili e immaginabili e spintonando – un po’ violentemente, lo ammetto – le persone vicino a me, le afferro con un’unica falcata. Sono solo due per fortuna.

Sbuffando m’incammino verso l’uscita. Nonostante sia stanchissimo, ho il cuore in gola. Stiamo per rivederci…affretto il passo e quando varco le porte scorrevoli, in mezzo alla folla ti cerco. Per la seconda e spero ultima volta nella mia vita.

 

 

 

 

 

 

Non voglio più essere lontano da te. Per molti anni a venire.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono investito dalle luci artificiali e dal vociare chiassoso delle persone…il mio povero mal di testa non ne guadagna molto. Socchiudendo gli occhi, cammino in mezzo a tutto questo casino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E poi ti vedo. Sei di spalle, ma potrei riconoscere la tua figura ovunque. Stai guardando gli orari degli arrivi internazionali su un monitor piatto. Mi avvicino sorridendo.

-         BAKA KITSUNE!

E nonostante il rumore che regna qui dentro, tu mi senti e ti volti.

 

 

 

 

Siamo di fronte ora e posso ben vedere l’espressione sorpresa che regna sul tuo viso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-          Di questo…non me ne avevi parlato…- avvicini una mano al mio viso e dopo aver accarezzato con il dorso delle dita la mia guancia, le passi fra i miei capelli…neri.

 

 

 

 

-          Mi piacerebbe attirare lo sguardo della gente come fai tu. È tutta una vita che ci provo…

-          E’ per questo che ti sei tinto i capelli?

-          Mmmmm….probabile…

-          Sono neri?

-          …..non me lo ricordo più…(nota 6)

 

 

 

 

-          Doveva essere una sorpresa – e ti sorrido complice -…non ne ho più bisogno. Ora il fascino del Tensai è al naturale…

Mi sorridi maliziosamente e per un attimo avverto il battito del mio cuore aumentare. Sei così bello Kaede.

-          Ora non potrò più chiamarti Scimmia Rossa …come farò….?

Sorridiamo e in un attimo sono tra le tue braccia. Mi sento sereno e felice, fiducioso verso il futuro. Sospiro, aumentando la stretta intorno alle tue spalle.

 

 

-          Okaeri Hana….(nota 7)

E non mi sono mai sentito così a casa come in questo momento.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

-          Sei sicuro che non ci siano problemi se rimango qui per un po’ di settimane?

Kaede richiude la stanza della camera alle sue spalle, scuotendo lievemente la testa.

-          Non farmi ripetere le stesse cose do’hao. Non ci sono problemi.

 

-          Ma secondo il regolamento di questo dormitorio…

 

 

-          Non ci sono problemi. Punto. Poggiale lì le valigie, ti ho creato un po’ di spazio nell’angolo.

 

-          Uffa…dicevo solo per precauzione! - posate le valigie mi stiracchio la schiena indolenzita… - non voglio crearti problemi. E soprattutto non voglio essere sbattuto fuori in strada all’improvviso.

 

 

-          Quanto sei idiota…

 

-          Grazie, sempre gentile… - mi affaccio al davanzale della finestra, perdendo lo sguardo sulla via trafficata che scorre fino all’orizzonte.

A un tratto sento le sue braccia cingermi la vita, la sua testa posarsi sulla mia spalla. Sono invaso dal suo profumo e dal tepore del suo petto.

 

 

-          È solo una situazione temporanea Hana.

E mi stringe contro di sé. Io socchiudo gli occhi, lasciandomi alla sua stretta. Chiudo gli occhi…ne abbiamo già parlato in questi mesi al telefono. Per qualche settimana vivrò qui nel dormitorio della sua scuola…nel frattempo, mentre Kaede frequenterà questi ultimi due mesetti prima del diploma, io mi cercherò un lavoretto…basta che guadagni qualcosa per potermi permettere una stanza da qualche parte. Kaede mi aveva accennato che un parente di un suo compagno di squadra potrebbe offrirmi un lavoro in un bar qui vicino. Non chiederei di meglio.

E poi…inizieremo l’università. Durante quest’anno, abbiamo entrambi studiato molto per entrare nella ***** University of New York. Oltre al superamento, con un punteggio ottimo, del TOEFL, dovevamo avere anche un livello d’istruzione molto elevato…tenendo conto che non siamo studenti di madre lingua inglese, è stato molto difficile…ma sembra che ce l’abbiamo fatta.

Per Kaede è stato più facile perché ormai è da quasi un anno che risiede qui negli Stati Uniti, ma io ho dovuto impegnarmi davvero seriamente nello studio per risollevare la media scolastica e studiare intensivamente l’inglese. Ma alla fine, forse a malincuore da parte del preside, sono riuscito ad ottenere una borsa di studio per trasferirmi qui. Ora dobbiamo solo aspettare solo delle lettere di conferma definitiva…spero solo che le cose incomincino a girare nel verso giusto.

Potremo vivere insieme nel dormitorio dell’università…non vedo l’ora di poter avere un po’ di spazio tutto nostro. E se lavorassimo entrambi, forse potremmo anche permetterci un piccolo appartamentino in affitto.

E poi poter giocare di nuovo insieme in squadra…sarebbe perfetto. Galvanizzante. La squadra di basket della ***** è rinomata da queste parti. Sarebbe un ottimo trampolino di lancio…

 

 

 

 

 

-          A cosa stai pensando…? – il sussurro vicino al mio orecchio, mi distoglie dai mille pensieri che invadono la mia testa. Troppe emozioni tutte insieme…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-          Sognavo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi da un bacio sulla guancia, strofinando il naso contro la mia pelle. Ridacchio leggermente, girandomi nel suo abbraccio.

-          Devo godermi questa tua fase dolce kitsune?

Lui non mi risponde, ma mi bacia con passione. Ci perdiamo nei nostri sapori poi con calma ci separiamo. Kaede mi abbraccia. Sento il suo affetto avvolgermi come una calda coperta trapuntata.

-          Sono solo…felice.

Sorrido contro il suo collo. Mi rilasso nel suo abbraccio, la testa leggera. Non riesco ancora a capacitarmi di essere qui, con lui.

-          Sarai stanco…vuoi dormire? - mi accarezza lentamente la schiena.

 

-          Mh…ammetto di aver bisogno di qualche ora di sonno…

 

 

-          Allora ti conviene dormire… più tardi non so se ne avrai il tempo… - il suo sussurro malizioso si perde sensuale sul mio collo.

 

-          Mh…mi sa che seguirò il tuo consiglio…

E lo bacio lentamente, assaggiando le sue labbra. Kaede mi passa una mano sul collo, mi accarezza i capelli, mi attira contro la sua bocca. E in pochi secondi ci baciamo con trasporto.

-          Ti conviene metterti a letto Hana...- sento le sue mani scendere sui jeans che indosso, accarezzare il sedere…siamo entrambi eccitati.

Basta poco, la tensione che c’è fra noi due sboccia sempre spontaneamente…con violenza. Dopo mesi, ancora di più.

 

Ci guardiamo negli occhi…ci desideriamo e in questo momento non m’interessa se ho solo tre ore di sonno alle spalle. Voglio sentire la sua pelle calda sulla mia…

Incominciamo a spogliarci lentamente, le magliette a maniche corte scivolano con un fruscio sul pavimento…gli bacio la pelle profumata fra la spalla e il collo mentre ci sbottoniamo i jeans a vicenda. Le sue dita scorrono sulla schiena, lungo i miei fianchi, li afferrano, facendo sfregare i nostri bacini. Abbiamo entrambi il respiro affrettato, ci baciamo come due affamati, le nostre mani scorrono sui nostri corpi, tracciamo delle forme che abbiamo sognato e agognato in questi mesi lontani…la pelle di Kaede è soda e calda e morbida e mi convinco, ancora di più, di essere totalmente stregato da questo corpo perfetto.

 

 

 

E ammaliato.

 

 

 

E innamorato.

 

 

 

 

 

Ci distendiamo nudi sul letto troppo piccolo per noi due. Sento le molle cigolare lievemente sotto il nostro peso, l’unico suono nell’aria calda e rarefatta dai nostri sospiri e ansimi. Ci accarezziamo a vicenda, mentre fra un respiro e un altro, continuiamo a baciarci, a rincorrere i nostri sospiri e i nostri sapori.

Mi distendo completamente sul letto trascinando sopra di me Kaede…inarco la schiena, spalancando le cosce, lo stringo contro di me. Amo sentire il suo corpo nudo sul mio. Kaede mi bacia il collo, avverto le sue mani accarezzarmi il petto, disegnare i miei muscoli, la schiena, le natiche. Fra le sue dita, sotto il suo sguardo innamorato, mi sento una persona perfetta.

 

-          Sei bellissimo…- soffia dentro il mio orecchio, mentre lo mordicchia delicatamente.

 

Arrossisco, mentre lo stringo contro di me.

Apre un cassetto di un mobiletto vicino al letto, da dove estrae una confezione di lubrificante e un preservativo.

-          Posso infilartelo io? – sorrido malizioso mentre s’inginocchia fra le mie gambe aperte.

Sorride porgendomi la bustina. Io la apro e incomincio a distenderlo sul suo pene, massaggiandolo lievemente. Kaede ansima socchiudendo gli occhi per qualche secondo, lasciandosi andare alle mie carezze, oscillando il bacino verso di esse, prima di fermare la mia mano.

 

 

-          Do’hao… - la sua voce è così roca da farmi rabbrividire di piacere. Sorrido innocentemente distendendomi di nuovo sulle lenzuola chiare, spalancando di più le gambe, mostrandomi completamente ai suoi occhi affamati e liquidi.

 

 

-          Ti stavo solo preparando meglio

 

 

 

Kaede sorride, facendo scivolare le mani sulle mie cosce, dietro le ginocchia, sollevandomi le gambe. Pone le mie caviglie sulle sue spalle. Mi bacia la pelle delicata dell’interno coscia, e dopo aver spalmato un po’ di lubrificante sul suo pene, mi penetra lentamente, attento a ogni mio ansito.

-          Non ne avevo bisogno…ahh…

Socchiudo gli occhi, ansimando lievemente per il fastidio e per il piacere che allo stesso tempo il suo corpo dentro di me, mi dona.

Kaede mi sorride dolcemente e chinandosi verso di me mi bacia sulle fronte…con questo movimento sembra penetrare ancora di più dentro di me, ansimo di piacere, le ginocchia quasi vicino alla mia testa.

-          Kaede…ah…Kaede…

E lui, come accogliendo la mia preghiera, incomincia a muoversi lentamente, assestando delle spinte profonde. Io afferro le lenzuola sotto di me, stringendole e stropicciandole. Chiudo gli occhi, la luce seppure non invadente, sembra accecare il mio sguardo. Avverto solo il pene di Kaede invadermi, aprirmi, spingere dentro il mio corpo e le scariche di piacere che dense e appaganti, mi annebbiano la mente.

A un tratto Kaede mi lascia le gambe, che libere, s’intrecciano dietro la sua schiena candida. Ci abbracciamo con forza mentre i nostri corpi danzano insieme. Passa una mano fra i miei capelli baciandomi mentre con l’altra mano incomincia ad accarezzare con foga la mia erezione. Il mio respiro si fa ancora più greve mentre le mie mani accarezzano incessantemente la sua schiena, le sue natiche, quasi a voler penetrare nella sua carne, spingendomi con forza contro il suo corpo.

Siamo entrambi quasi al limite, i nostri movimenti divengono veloci, scoordinati, rincorriamo un piacere che ci avvolge come fuoco. Nell’aria il cigolio del letto diviene prepotente, assordante.

E infine, con un mezzo grido soffocato fra le nostre labbra umide e gonfie, veniamo entrambi stringendoci spasmodicamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci riprendiamo lentamente, nell’aria ricomincio ad avvertire il rumore del traffico sottostante e il cinguettio degli uccellini, provenienti dalla finestra socchiusa. Quando facciamo l’amore, mi sembra di essere trasportato in una realtà alternativa dove esistiamo solo noi due.

Accarezzo la schiena leggermente sudata di Kaede, posandogli un bacio fra i capelli scompigliati. Avverto il suo sorriso contro il collo, mentre si solleva sulle braccia e mi bacia.

Esce lentamente dal mio corpo e dopo essersi sfilato il preservativo, mi abbraccia da dietro, ponendo il petto contro la mia schiena. Mi rilasso, avvertendo tutta la stanchezza del viaggio calarmi addosso, prepotente. Sbadiglio e Kaede sbuffa divertito.

-          Se vuoi ora puoi anche dormire…non disturberò il tuo sonno…

 

-          Ah grazie…prima mi salti addosso e poi mi dici che posso anche dormire…

Mi stringe possessivo ed io ridacchio, chiudendo gli occhi.

-          Colpa del fascino naturale del Tensai… - sussurra canzonatorio contro il mio orecchio.

Cerco di mollargli una gomitata ma Kaede si scosta, bloccandomi le braccia. Per qualche secondo cerchiamo di prevalere sull’altro, i muscoli delle braccia tesi…alla fine con un borbottio mollo ogni resistenza. Sono troppo stanco…

Anche se mi è di spalle, posso immaginare il suo sorrisetto soddisfatto.

-          Solo per stavolta baka…il tensai deve recuperare le forze…

 

-          Sì sì…

 

 

 

 

Sbuffo per poi farmi riavvolgere dalle sue braccia. Bastano pochi minuti e la carezza ipnotica della sua mano fra i capelli e mi addormento.

 

 

Coccolato dal suo tepore e dal suo profumo.

 

 

A volte è piacevole perdere.

 

***

 

 

 

 

Nonostante abiti qui da ormai più di un mese, ho ancora bisogno della cartina per spostarmi. Mentre osservo le strade verdi e alberate, i negozi colorati intimi o chiassosi, mentre lo sguardo si perde lungo i grattacieli e il cielo azzurro, mentre gli odori della città s’intrecciano al suono melodioso di un violino utilizzato da un’artista di strada all’angolo…penso solo che questa città non mi appartenga ancora.

Non sono ancora parte di queste persone, di questo mondo. Devo ancora imparare i nomi delle strade…e a volte mi sento perso. Ma so che fra mesi, ripensando a questi giorni, sorriderò intenerito. Penserò solo a un ragazzo giovane che voleva rincorrere un sogno…e spero che per quel tempo lo avrò raggiunto.

 

 

 

 

Non mi manca il Giappone…non mi ha mai offerto la felicità che io pretendevo. Tranne l’averti conosciuto Kaede.

 

 

 

 

Sorrido mentre ripulisco i tavoli di legno…lo straccio umido scorre lentamente sulla superficie scura. Un movimento rilassante. La musica jazz in sottofondo accompagna i miei movimenti. Non ascoltavo questo tipo di musica quando ero in Giappone…ma da quando lavoro qui, devo dire che incomincia ad affascinarmi. Mi rilassa…e a quest’ora della giornata, il locale è per lo più vuoto. Sono le tre di pomeriggio…e ho finito per oggi il turno di lavoro. Riordino le sedie e le panche, raddrizzando i tavoli. I posacenere all’angolo e il menù in cartone al centro…finito.

Sospiro soddisfatto. Do un’occhiata verso l’unica cliente che al momento è presente nel locale. È una signora di mezza età, vestita semplicemente, legge un libro dalla copertina consunta. Non so come si chiama, ma viene qui ogni giorno. Mi avvicino, chiedendole se vuole che le riempia la tazza con altro caffè. Ma lei scuote la testa, sorridendomi. Mi porge mezzo dollaro, una “piccola mancia”, come dice lei. M’inchino leggermente imbarazzato, ringraziandola e vado dietro il bancone del locale, chiamando dal retrobottega Karl, il figlio del proprietario. Se ne esce con la camicia della divisa sbottonata e un mezzo sandwich ficcato in bocca. Sorridendogli l’avviso che me ne sto andando. Lui annuisce prendendo il mio grembiule nero che gli porgo e, facendomi un cenno della mano, mi saluta, ritornando nel retrobottega.

Prendo la cartella mettendomela a tracolla ed esco, con un argentino scampanellio della porta alle mie spalle.

 

 

Sono invaso dall’aria tiepida di giugno…respiro a pieni polmoni, per poi accorgermi che all’angolo della strada c’è Kaede, la schiena appoggiata a un palo della luce, lo zaino della scuola ai suoi piedi, due lattine in mano. Sorridendogli, attraverso la strada.

-          Eh tu cosa ci fai qui? Non avevi gli allenamenti questo pomeriggio?

 

-          No, il mister si è ammalato.

Mi porge la lattina sorridendomi lievemente. Io la prendo dandogli un bacio veloce sulla guancia e poi ci incamminiamo verso Central Park.

-          Com’è andata a scuola? Preoccupato per gli esami Kitsune…? Fossi in te dovresti… - e ridacchio strafottente, sorseggiando la bibita fresca.

 

-          Mh…sono sempre il numero uno. Non scordarlo.

 

 

-          Ma sentitelo… - faccio per continuare il mio sproloquio quando Kaede mi porge davanti al viso due buste bianche. Mi zittisco di colpo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-          Prima sono passato dalla segreteria…sono arrivate stamattina.

 

 

-          Oddio…sono quelle che penso? – incomincio a sudare lievemente, prendendole dalle sue mani. Noto subito lo stemma della ***** University of New York.

 

 

 

 

Socchiudo gli occhi…cazzo qui sopra c’è il nostro futuro. E se non siamo stati presi…o peggio…se è stato preso solo uno e non l’altro…cazzo cazzo cazzo…sicuramente non sono stato preso. Ok avevo superato il TOEFL con un ottimo punteggio, ma non significa nulla. Che cosa farò ora? È anche troppo tardi per potersi iscrivere a qualsiasi altra università. Sarò un peso per Kaede, svanirà il nostro sogno di giocare insieme in squadra…no no no! Maledizione…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kaede mi afferra la mano, interrompendo il mio monologo mentale concitato e solitario.

-          Hey…perché prima che tu vada in iperventilazione, non apriamo le buste? Respira do’hao…

 

 

Io sorrido nervoso annuendo. Nel frattempo siamo arrivati, percorriamo pochi metri in mezzo agli alberi maestosi, per poi sederci su una panchina.

Intorno a noi c’è la calma più assoluta. A quest’ora della giornata non ci sono molte persone: qualche ragazza che fa jogging, qualcuno con il cane a passeggio…qualche anziano che legge il giornale vicino al prato. Central Park è così grande che anche i suoni prepotenti del traffico di New York arrivano attutiti alle nostre orecchie. E oltre a qualche schiamazzo delle papere proveniente dal lago vicino, è solo il cinguettio degli uccellini a far da padrone nell’aria pre-estiva.

 

 

 

 

 

Tutto suggerisce di rilassarsi…eppure sento il cuore martellare sangue a un ritmo forsennato.

Finisco ciò che rimane della bibita in una sola sorsata per poi riportare l’attenzione sulle due buste che ho in mano. Guardo Kaede, anche lui è agitato, anche se non lo vuole dare a vedere. Ci osserviamo ancora per qualche minuto in silenzio poi io sbuffo spazientito.

-          Ok…ognuno apre la sua, o uno le apre tutte e due insieme…?

 

-          Dammele.

 

 

-          Tutte e due?

 

-          Sì.

 

 

-          No aspetta…voglio aprirle io.

Faccio per aprire la prima, la sua, ma mi fermo.

-          Senti…comunque vada…io ti amo ok? Giuro che se non siamo stati presi entrambi in quella cazzo di università, spacco tutto, altro che teppista. Gli faccio vedere io a questi qui.

Kaede mi guarda alzando un sopracciglio, sorridendo ironico. Poi si alza, dandomi le spalle, lo vedo con la coda dell’occhio camminare indietro e avanti, sorseggiare la sua bibita, che ormai sarà calda, vista l’intensità con cui stringe la lattina.

 

 

Prendo un grosso respiro e apro la sua busta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Leggo velocemente le poche righe prestampate su un foglio candido. Esulto dentro me stesso.

E’ stato preso!

 

Cerco di calmare il battito del mio cuore. Prendo l’altra busta, il respiro veloce. La apro lentamente estraendo il foglio. Strizzo gli occhi prima di poter leggere il contenuto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ti prego ti prego…ti prego.

In questi pochi secondi mi appello a tutto ciò che ho avuto di buono in questa vita…prego non sono bene chi, forse mio padre, forse me stesso.

Fa che sia stato preso…non distruggere anche questo mio sogno. Ti prego.

Apro finalmente gli occhi e il respiro mi si blocca in gola.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Avverto Kaede girarsi di scatto, al suono del mio singhiozzo.

-          Hana… - mi si avvicina, sedendosi di nuovo vicino a me. Mi abbraccia ed io mi faccio stringere contro il suo collo, le lacrime che scorrono calde lungo le guance… - fa nulla. Troveremo un’altra soluzione. Quest’anno possiamo anche lavorare e provare di nuovo l’anno prossimo a iscriverci al.

 

-          Siamo stati presi… - il mio sussurro spezzato interrompe le sue parole consolatorie.

 

 

-          Cosa?

 

-          Siamo stati presi…tutti e due.

Kaede mi stacca dalla sua spalla, prendendomi il viso fra le mani. Cerca una conferma nel mio sguardo liquido…poi mi sorride e mi bacia. La sua lingua invade con dolcezza la mia bocca, il sapore salato delle mie lacrime si mischia al sapore della bibita che entrambi abbiamo bevuto poco fa.

-          Mi spieghi allora perché cavolo stai piangendo? – mi asciuga con i polpastrelli le guance, gli occhi ed io scuoto la testa, sorridendo come uno scemo.

 

-          Sono così felice Kaede…

 

 

-          Stupido…stupido, stupido…- e mi abbraccia, gli occhi lucidi… - perché non credi di più in te stesso eh? Abbiamo lavorato, hai lavorato tanto per essere qui. Dovevamo entrare. Anzi era scontato.

Ridacchio contro il suo collo.

-          Giusto…la baka Kitsune è la numero uno del Giappone…ora vuole diventarlo anche negli Stati Uniti…non sarai un po’ troppo vanagloriosa volpetta?

 

-          Do’hao.

Rimaniamo abbracciati su questa panchina per un tempo indefinito.

Il sole è caldo, ci accarezza con dolce invadenza. Sono in pace con il mondo, sento di amare questo ragazzo con tutto me stesso. Penso che potrei morire felice anche ora.

 

 

 

 

 

 

 

Kaede alla fine interrompe l’abbraccio, si alza. Posso vedere nei suoi occhi la felicità…l’ho visto poche volte con quello sguardo. Si gira verso di me e mi porge la mano.

-          Che ne dici di one-to-one nel parchetto vicino al dormitorio?

Rido raggiante, intrecciando le dita con le sue.

-          Ti batterò volpaccia, preparati! Sono così pieno di energie che potrei giocare fino a sera!

-          Ma davvero? – e il suo sguardo ironico mi fa ridere ancora più forte.

Ci incamminiamo fuori dal parco, le dita intrecciate.

Oggi abbiamo superato uno dei primi muri…a poco a poco abbatteremo tutti gli altri.

Al pensiero di cosa ci aspetta…sento di nuovo le emozioni scorrere impazzite dentro il mio corpo.

 

 

 

 

Vorrei correre e gridare come un pazzo in mezzo alla strada, se solo questo potesse dimostrare la mia contentezza in questo momento.

 

 

 

 

Kaede mi osserva di sottecchi, lo so, e il suo mezzo sorriso soddisfatto sulle labbra è il più bel regalo che potessi ricevere. È fiero di me ed io sono così contento per lui, per noi.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

La nostra storia è iniziata in un giorno di pioggia. Da un “aiutami” sussurrato per terra, in mezzo a dei vetri rotti di uno specchio infranto. Se quel giorno avessi saputo che sarei arrivato fino a qui…no, non avrei mai potuto pensare un finale di questo genere.

Sai Kaede….io non so se riusciremo a portare avanti tutti i nostri sogni, in fondo i muri da abbattere sono molti e alti. Ma m’impegno a eliminare mattone per mattone ogni difficoltà…e voglio farlo insieme con te.

Siamo giovani è vero e anche inesperti. Ma abbiamo sulle spalle molto dolore e so che possediamo una maturità e anche una disillusione verso la vita, che non ci fregheranno sulla strada che stiamo intraprendendo.

Il nostro legame è forte.

E ci amiamo cazzo.

 

 

 

 

 

 

 

Che altro ci importa?

 

 

 

 

“Gli occhi hanno sete,

perchè esistono i tuoi occhi.
La bocca ha sete,

perchè esistono i tuoi baci.
L'anima è accesa di queste braccia che ti amano.
Il corpo, incendio vivo che brucerà il tuo corpo.
Di sete.

Sete infinita.

Sete che cerca la tua sete.
E in essa si distrugge

come l'acqua nel fuoco.”

Pablo Neruda - Sete di te m'incalza

 

 

 

 

 

 

 

Fine

 

 

 

 

 

Note

 

Nota 1: I konbini (コンビニ) sono una tipologia di supermercati economici molto diffusa in Giappone. Vendono un po’ di tutto (dal mangiare a prodotti per la casa e cancelleria, ecc.), e forniscono anche vari servizi al loro interno (pagamento delle bollette, invii di fax e simili). Per ulteriori chiarificazioni: http://arigato.blogosfere.it/2006/02/konbini-il-picc.html.

Nota 2: Giuro che esiste! ^^ Stavo cercando su Google® dei locali gay a New York per farli frequentare dai nostri protagonisti, quando mi sono imbattuta in questo bar. Ho pensato “E’ il Destino”.

Nota 3: Allora…ho utilizzato un volo ipotetico (consultando Expedia®), a condizione che partisse da Tōkyō (Aeroporto Narita) e che arrivasse a New York (Aeroporto JFK). Gli scali in teoria sono vari…quello che ho preso in considerazione fa scalo a Pechino.

Nota 4: L’anno scolastico in Giappone è suddiviso (per quante ne so), in tre semestri. Alla fine di ogni semestre c’è un esame che si deve sostenere e un conseguente rimescolamento delle classi (in base al punteggio ottenuto); pertanto può capitare di cambiare classe durante l’anno scolastico (a volte capita di vedere queste scenette in alcuni anime o nei manga).

Nota 5: Dal capitolo 7.

Nota 6: Dal capitolo 5.

Nota 7: Letteralmente Okaeri (お帰り) significa “Ben tornato - a casa”. Lo si utilizza rispondendo all’esclamazione Tadaima(su) (ただいま)()“Sono tornato – a casa”. In questa scena mi piaceva la sfumatura intima e familiare della frase detta da Kaede e non riuscivo a trovare un corrispettivo in italiano che mi convincesse…per questo motivo ho lasciato l’esclamazione in giapponese.

 

Ringraziamenti

Come ho scritto all’inizio di questo capitolo, ringrazio tutte le persone che hanno letto e seguito questa storia in questi anni e in particolare le persone che hanno commentato (con una pazienza che, io stessa ammetto, a volte non possiedo), rigorosamente in ordine cronologico:

-          Angels Island

-          Elrohir

-          Lucylu

-          Shak4

-          Brinarap

-          Stateira

-          Kiba91

-          Hinao85

-          Stellina stronza

-          Yumi

-          Ruki

-          Hinao

-          Kate91

-          Seika

-          Airis

-          Kei_Saiyu

-          Releuse83

-          Cristie

-          Cla21

-          Kiromi

-          Kirara90

-          Isots

-          Dea73

-          Fri

-          Lucy6

-          Shooting star

-          Demia87

-          Eruannie87

-          Ladyhellsing

-          Lua

-          _ichigo85_

-          MissChroma

-          AkiChan83

-          Shin_86

Grazie di cuore.

 

 

Chiarimenti

ORIGINE DELLA STORIA. Non so se a qualcuno interessi, ma mi piacerebbe ugualmente descrivere come sia nata questa fan fiction.

Quando incomincia a scriverla mi ero appena trasferita in un’altra città, molto lontana da quella in cui ero nata e cresciuta, per proseguire con gli studi universitari. Stavo inseguendo un progetto e un sogno (come tuttora continuo a fare). Il cambiamento era stato repentino e, sotto alcuni punti di vista, devastante. Avevo dovuto rinunciare alla mia quotidianità e agli affetti più cari per potermi trasferire e nei primi tempi, mi chiedevo con angoscia se ne fosse valsa la pena. Detto questo, è ben intuibile come la partenza di Kaede, la sua scelta, fosse inevitabile nella trama. A molte persone, forse, sarebbe piaciuto leggere una svolta diversa nella storia e che Kaede scegliesse Hanamichi e che rimanesse in Giappone. Ma, in parte per le mie stesse scelte personali, ho pensato che ciò non fosse conciliabile con la crescita emotiva che volevo passasse il suo personaggio. E poi, in fondo, sono stata anche buona no? Ho pensato che un happy ending spesso sia piacevole da leggere e che rincuori. In conclusione, penso che una persona debba fare delle scelte, inseguire i suoi sogni e soprattutto vivere sereno.

Ammetto di essermi anche in parte ispirata (ma solo per il tema dell’autolesionismo) al manga yaoi “Cut” di Tōko Kawaii (http://www.ilbazardimari.net/manga/c/cut.html) , di cui consiglio la lettura. ^_-

 

LA MALATTIA DI HANAMICHI. Dalla tristezza e dalla malinconia per la lontananza dalle persone a cui volevo bene, è nata la malattia di Hanamichi. Ci tengo a precisare, a scopo informativo ^_^;;, che nel mio caso non si è concretizzata nella violenza a cui ho fatto sottoporre Hana. Non ho mai conosciuto delle persone che si pratichino delle ferite volontariamente sul loro corpo…spero pertanto di non aver trattato questo tema con troppa superficialità. Ho cercato di immedesimarmi in questo tipo di dolore lacerante…spero che nessuno si sia sentito offeso da questo tema.

In quest’ultimo capitolo accenno al fatto che Hana abbia seguito una terapia con uno psicologo (l’immaginario Katsuragi-sensei). In Giappone, per quanto ho studiato, le teorie psicoanalitiche sono relativamente nuove…e, sinceramente, non saprei nemmeno affermare quanto sono sviluppate e diffuse (l’unico libro che ho letto dove si parlava di psicoanalisi è “Musica” di Yukio Mishima - http://www.liberonweb.com/asp/libro.asp?ISBN=880781272X- di cui consiglio, anche in questo caso, la lettura). In questo caso mi sono presa un’altra licenza da scrittrice (mmm….mi sa che me ne sono prese troppe in questa storia! ^_^;;;), pertanto non ho voluto troppo approfondire quest’aspetto. Le sedute con questo psicologo (servizio fornito dalla scuola - almeno in Italia – o un privato, decidete voi), sono solo servite a Hanamichi per affrontare ciò che era successo e a prendere coscienza di ciò che si era fatto. Per il resto, ho pensato spettasse a lui, dopo, cercare di “guarire”. Nello scorso capitolo, Kaede accenna al fatto che Hana si svegli la notte per poi sfiorarsi le braccia…non volevo dare una nota pessimista alla sua “guarigione”, ma penso che quando si siano passati dei momenti così dolorosi, non sia facile buttarsi tutto alle spalle.

I CAPELLI DI HANAMICHI. Ok ok…neanche io riesco a immaginarmi Hana senza i suoi meravigliosi capelli rossi…ma in fondo si cresce no? ^_^ (non linciatemi!). Ho pensato che il ritorno al colore naturale coincidesse con una nuova maturità, un passaggio inevitabile. E poi, non significa che Hana in un futuro non debba ritingerseli no? ^_^

I GATTI. Penso si sia capito che mi piacciono i gatti? ^_^;; Nella storia compaiono in quasi tutti i capitoli, sia con il personaggio di Micky (che poi poverino, viene abbandonato sul suolo giapponese!), sia con i gattini randagi di Hanamichi. Mi affascina l’immagine di due ragazzi grandi che hanno a che fare con degli esserini così piccoli! *_* Nella storia sono stato un mezzo attraverso il quale sconfiggere, in qualche modo, la solitudine di Hana e Kaede.

 

Conclusione

Bhe…come concludere? Grazie ancora e arrivederci alla prossima fan fiction! ^o^/ (in cantiere…forse si intitolerà “Pillole” ma è solo un titolo provvisorio).

Un bacione!

 

*Melania*

   
 
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