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Autore: GirlWithTheGun    11/11/2009    1 recensioni
Elisa e Colin non sanno cosa volere dalla vita. Elisa e Colin non sanno se volerla, la vita. Si risvegliano quindicenni e confusi in un universo dove l'unica lente per vedere, sentire e amare è la violenza. Una violenza nascosta nell'anima, che riempie, madre di domande senza risposte e di silenzi assordanti.
Elisa vorrebbe avere ottant’anni, vorrebbe non vedere il buio del nulla nel suo futuro, non avere paura e non essere nata delusa, vorrebbe capire qual è il giorno maledetto in cui ha cominciato a pensare.
Colin si trascina dietro la memoria di un padre suicida, sogna un mare che mangia vive le persone, non riesce ad identificare quel desiderio caotico di libertà che lo infiamma.
"Ma cosa siamo se possiamo esaltarci e distruggerci così? Perché siamo, dove siamo, sperduti negli angoli degli universi e schiantati nelle nostre tragedie di cartone.Esistenze misere che non si accendono mai, lampadine spente che non conoscono la luce. Ma io voglio brillare! Io voglio brillare!".
A tutti i Catchers In The Rye.
Genere: Romantico, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gypsy Death & You

 

Scendo gli scalini di corsa, con il rischio di schiantarmi per terra ad ogni pianerottolo. Come un proiettile. Mi lancio giù quasi ad occhi chiusi. Cazzo, mi sembra di essere impazzita. E’ come un gioco da bambini, dall’ottavo al pianterreno senza interruzione, sollevando baccano, polvere, proteste. Ma chissà se mi sentono i condomini, attaccati con le flebo alla tv, chissà se si accorgono che fuori passo io, matta come un cavallo matto.
È proprio dalla tv che sto scappando. Ultimamente mi capita spesso. Mi succede di guardarla per sbaglio, mentre mia madre prepara la cena, e sento di andare fuori di testa. Tipo che vorrei tapparmi le orecchie, tapparmi gli occhi, o scaraventarla giù dal nostro balcone striminzito.
Maledetta tv, maledetti tutti. Anche mia madre, cazzo.
Ci sono questi momenti qui, in cui tutto sembra scorrermi dentro più veloce. Il sangue, i respiri, l’agonia. Avrei bisogno di ballare, cantare. Qualsiasi cosa. Potrei diventare od essere qualsiasi cosa. Invece, cazzo, eccomi qui che mi scapicollo giù dalle scale. Rinchiusa in un corpo da quindicenne disfatta. Cristo, voglio piangere, dimenticare che non avrò mai niente da dimenticare.
Mai, mai come adesso, mi sento viva, e mi fa male, mi brucia sulla pelle. Voglio dare fuoco al mondo.
E invece corri, cazzo, adesso corri. Che non ti vede, non ti conosce mai nessuno. Che sono tutti chiusi dietro i muri di cemento e invece tu scappi con l’aria fredda in faccia.
Non riesco a tenere ferme le gambe, mi sento prigioniera. Corro, scappo, volo, non lo so. Fino alla fermata del tram. Che ho voglia di vedere il Naviglio morire nella sua acqua putrescente.
Cammino, da sola. Ma vorrei ancora cantare, e ogni musica che ascolto mi sembra quella giusta per ballarci su. E mi immagino grandi discoteche, artisti di strada che si scatenano negli angoli delle vie. E so che ogni fotogramma che vedo in questa mia testa di merda me l’hanno già propinato, confezionato su misura. Che non c’è niente di originale, qui dentro. Niente. Il tutto mi mette troppa angoscia e mi ritrovo seduta sul gradino di un portone, a guardare spaesata il tempo che mi passa denso davanti al naso. Ho bisogno di una pausa.
Giuro, non capisco. Cosa mi è successo quando è successo perché è successo. Perché voglio di più perché so che non posso avere di più.
Fanculo. Le lacrime sono sprecate, qui. C’è da guardare le luci sospese sopra i ponti, i passanti con le facce brutte.
Me la passeggio. Poi succede che ho voglia di qualcosa di dolce e compro una crepe, mi vizio. Me ne sto seduta fuori dal negozio, vestita da profuga, con il pigiama sotto la felpa.
Mentre mangio i miei bei quadratini farciti di Nutella, guardo il maxischermo sospeso davanti ai miei occhi. E penso che qui i fatti sono due. O mi manca qualcosa che loro, gli altri, hanno. Tipo un regolatore di emozioni e di pensieri o qualche stronzata del genere. Oppure ho qualcosa in più, qualcosa che non dovrei avere, ma non qualcosa di positivo. E forse è anche peggio.
Succede tutto molto in fretta. Mentre me ne sto qui ad ingozzarmi di cioccolato artificiale, arriva lui. Sembra sbucare fuori dall’asfalto, tipo come un fungo metropolitano o chessò io. E’ il ragazzo della pioggia, il Kurt Cobain dei poveri. Si veste proprio alla cazzo di cane, ed è una cosa fantastica da guardare. Ti fanno male gli occhi.
Non so cosa gli passa per la sua folle testa, non lo so. Ma mi vede, e mi si siede accanto. E la cosa più bella di tutte è che non parliamo. Non parliamo mai. Ci guardiamo e basta, vicini, con i respiri condensati a farci compagnia. Per gentilezza, gli lascio l’ultimo angolo di crepe. Lui lo mangia, non ringrazia.
Poi mi alzo con l’aria di chi se ne sta andando, e lui biascica qualcosa, tipo che vorrebbe accompagnarmi per un po’. Gli sento l’alito, che sa di alcol. Gli dico si. Sembriamo una bella coppia di fattoni, passeggiamo sul Naviglio, e non c’entriamo un cazzo con tutti questi adulti grandi e chic che ci camminano incontro, e nemmeno con tutti gli altri. Siamo noi. Siamo persi.
Lui barcolla un po’, mi prende la mano. Ed io lo guido. Comincia a raccontarmi una favola bellissima, su un cagnolino bianco. Io sto ad ascoltarlo e mi sembra di vedergli gli occhi lucidi. Ma forse solo perché è zuppo di rum o quello che è. O forse perché adesso tutto è lucido, bagnato dalla pioggia.
Ci fermiamo sotto un balcone, per paura di bagnarci. Che io certe paure non le capisco. Perché abbiamo paura di bagnarci?
E all’improvviso ci accorgiamo delle foto di Alda Merini attaccate ad un cancello. Io lo sapevo, che viveva qui. Anche lui. Ci perdiamo a leggere le lettere che sono appese, come foglie morte, infilzate ai fiori. Dico ad alta voce che anche lei aveva qualcosa in più, qualcosa che non doveva avere. E lui risponde che infatti ha passato metà della sua vita in manicomio. Probabilmente anche io passerò metà della mia vita in manicomio, se deciderò di sopravvivere alla fine del mese. O magari no. Ma non riuscirò mai a scrivere niente di interessante, sicuramente. Niente di così geniale e bello. Sarò solo una pazza come tanti. Cerco di spiegare questa mia idea. E ridiamo, ridiamo, ma ci viene anche un po’ da piangere.
Non lo so. Io penso che ci stanno abbandonando tutti, in linea generale. Anche lei, se n’è andata. Penso che ci dovrebbe essere un ricambio di menti, invece c’è solo buio, adesso. E quando se ne andranno tutti per davvero, cosa rimarrà? Barbara D’Urso e Platinette, Bossi e D’Alema, la Santanchè e il Grande Fratello. E poi ne arriveranno di peggiori, e i peggiori saremo noi. Che poi alla fine le cose che non ci piacciono sono sempre le stesse per tutti. E anche questo mi fa paura. Io ho paura, cazzo, ho paura. Mi scappa di dirlo ad alta voce.
Kurt, che poi si chiama Colin, ma io lo chiamerò sempre Kurt, mi abbraccia. Ubriaco fradicio e sincero. Ce ne stiamo immobili sotto l’acquazzone, fin quando ci si gelano le dita. Forse ci siamo già ammalati e non lo sappiamo. Forse sarà suina e moriremo senza ausili. O forse tra una settimana saremo ancora qui così, stretti.
Poi lui senza dire nulla mi abbandona e se ne va senza voltarsi. Resto un po’ a guardarlo allontanarsi, poi me ne vado anch’io, con le mani in tasca.
C’è che mia madre doveva farmi nascere cagnolino. Cagnolino, e bianco. Lo ha detto anche Kurt.

I giorni sono scarni, se ne vanno via uno dopo l’altro e sembrano pezzi di un puzzle che non esiste. Ho la nausea di qualcosa, senza sapere cosa, ma anche una specie di peso all’altezza dello stomaco. Sono sempre più silenziosa e i miei non sanno che pesci prendere. Mio padre vorrebbe stare tranquillo, mia madre mi ama con un amore che noi esseri umani non siamo in grado di spiegare, nel nostro essere limitati e storpi. A scuola sento il mio cervello appassire, assieme a quelli degli altri. Avrei tante domande, ma non è mai il momento giusto per farle. E poi sembra che fare domande sia solo una mia prerogativa. Come se volessi dar fastidio. Invece vorrei solo delle risposte. Vorrei un dibattito, non lo so, parlo a caso, un’ora per discutere tra noi di grandi temi. Qualcosa. Ma forse sono solo io a volere queste cose, e allora sto zitta, lancio le molliche di pane fuori dalla finestra e guardo i piccioni ingozzarsi.
Kurt non viene a scuola da abbastanza. Forse non ne ha voglia. Forse è suina per davvero. A me piace pensare che sia scappato da qualche parte, a fare quello che più gli piace. Tipo a Barcellona a vendere bracciali o a rubare portafogli nelle Ramblas. Mi sembra il tipo giusto per questo genere di cose.
Martedì diciassette manifestazione studentesca. Mi piacerebbe salire su una fontana e urlare quello che credo, quello che penso. Qualcuno mi ascolterebbe anche. Il problema è che non arriverei da nessuna parte. Vorrei davvero battermi per un’idea. Mettere su una rivoluzione, una ribellione di menti. Ma, come tutti quelli che ci hanno pensato prima di me, probabilmente ne ricaverei una pallottola in testa, una bomba nella macchina o un sequestro misterioso. Questo Paese è strano. Questo mondo è strano. O magari sono io ad avere paura.
Allora opto per la mia passeggiata nei corridoi, a guardare fuori dalle finestre il cielo milanese. C’è odore di termosifoni accesi e di bidelli, che adesso si chiamano commessi ma secondo me non ha senso tutto questo cambiar nomi.
Magari domani arriva il sole.

 

 

 

 

   
 
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