Gypsy
Death
& You
Scendo
gli scalini di corsa, con il rischio di schiantarmi per terra ad ogni
pianerottolo. Come un proiettile. Mi lancio giù quasi ad
occhi chiusi. Cazzo,
mi sembra di essere impazzita. E’ come un gioco da bambini,
dall’ottavo al
pianterreno senza interruzione, sollevando baccano, polvere, proteste.
Ma
chissà se mi sentono i condomini, attaccati con le flebo
alla tv, chissà se si
accorgono che fuori passo io, matta come un cavallo matto.
È
proprio dalla tv che sto scappando. Ultimamente mi capita spesso. Mi
succede di
guardarla per sbaglio, mentre mia madre prepara la cena, e sento di
andare
fuori di testa. Tipo che vorrei tapparmi le orecchie, tapparmi gli
occhi, o
scaraventarla giù dal nostro balcone striminzito.
Maledetta
tv, maledetti tutti. Anche mia madre, cazzo.
Ci
sono questi momenti qui, in cui tutto sembra scorrermi dentro
più veloce. Il
sangue, i respiri, l’agonia. Avrei bisogno di ballare,
cantare. Qualsiasi cosa.
Potrei diventare od essere qualsiasi cosa. Invece, cazzo, eccomi qui
che mi
scapicollo giù dalle scale. Rinchiusa in un corpo da
quindicenne disfatta.
Cristo, voglio piangere, dimenticare che non avrò mai niente
da dimenticare.
Mai,
mai come adesso, mi sento viva, e mi fa male, mi brucia sulla pelle.
Voglio
dare fuoco al mondo.
E
invece corri, cazzo, adesso corri. Che non ti vede, non ti conosce mai
nessuno.
Che sono tutti chiusi dietro i muri di cemento e invece tu scappi con
l’aria
fredda in faccia.
Non
riesco a tenere ferme le gambe, mi sento prigioniera. Corro, scappo,
volo, non
lo so. Fino alla fermata del tram. Che ho voglia di vedere il Naviglio
morire
nella sua acqua putrescente.
Cammino,
da sola. Ma vorrei ancora cantare, e ogni musica che ascolto mi sembra
quella
giusta per ballarci su. E mi immagino grandi discoteche, artisti di
strada che
si scatenano negli angoli delle vie. E so che ogni fotogramma che vedo
in
questa mia testa di merda me l’hanno già
propinato, confezionato su misura. Che
non c’è niente di originale, qui dentro. Niente.
Il tutto mi mette troppa
angoscia e mi ritrovo seduta sul gradino di un portone, a guardare
spaesata il
tempo che mi passa denso davanti al naso. Ho bisogno di una pausa.
Giuro,
non capisco. Cosa mi è successo quando è successo
perché è successo. Perché
voglio di più perché so che non posso avere di
più.
Fanculo.
Le lacrime sono sprecate, qui. C’è da guardare le
luci sospese sopra i ponti, i
passanti con le facce brutte.
Me
la passeggio. Poi succede che ho voglia di qualcosa di dolce e compro
una
crepe, mi vizio. Me ne sto seduta fuori dal negozio, vestita da
profuga, con il
pigiama sotto la felpa.
Mentre
mangio i miei bei quadratini farciti di Nutella, guardo il maxischermo
sospeso
davanti ai miei occhi. E penso che qui i fatti sono due. O mi manca
qualcosa
che loro, gli altri, hanno. Tipo un regolatore di emozioni e di
pensieri o
qualche stronzata del genere. Oppure ho qualcosa in più,
qualcosa che non
dovrei avere, ma non qualcosa di positivo. E forse è anche
peggio.
Succede
tutto molto in fretta. Mentre me ne sto qui ad ingozzarmi di cioccolato
artificiale, arriva lui. Sembra sbucare fuori dall’asfalto,
tipo come un fungo
metropolitano o chessò io. E’ il ragazzo della
pioggia, il Kurt Cobain dei
poveri. Si veste proprio alla cazzo di cane, ed è una cosa
fantastica da guardare.
Ti fanno male gli occhi.
Non
so cosa gli passa per la sua folle testa, non lo so. Ma mi vede, e mi
si siede
accanto. E la cosa più bella di tutte è che non
parliamo. Non parliamo mai. Ci
guardiamo e basta, vicini, con i respiri condensati a farci compagnia.
Per
gentilezza, gli lascio l’ultimo angolo di crepe. Lui lo
mangia, non ringrazia.
Poi
mi alzo con l’aria di chi se ne sta andando, e lui biascica
qualcosa, tipo che
vorrebbe accompagnarmi per un po’. Gli sento
l’alito, che sa di alcol. Gli dico
si. Sembriamo una bella coppia di fattoni, passeggiamo sul Naviglio, e
non
c’entriamo un cazzo con tutti questi adulti grandi e chic che
ci camminano
incontro, e nemmeno con tutti gli altri. Siamo noi. Siamo persi.
Lui
barcolla un po’, mi prende la mano. Ed io lo guido. Comincia
a raccontarmi una
favola bellissima, su un cagnolino bianco. Io sto ad ascoltarlo e mi
sembra di
vedergli gli occhi lucidi. Ma forse solo perché è
zuppo di rum o quello che è.
O forse perché adesso tutto è lucido, bagnato
dalla pioggia.
Ci
fermiamo sotto un balcone, per paura di bagnarci. Che io certe paure
non le
capisco. Perché abbiamo paura di bagnarci?
E
all’improvviso ci accorgiamo delle foto di Alda Merini
attaccate ad un
cancello. Io lo sapevo, che viveva qui. Anche lui. Ci perdiamo a
leggere le
lettere che sono appese, come foglie morte, infilzate ai fiori. Dico ad
alta
voce che anche lei aveva qualcosa in più, qualcosa che non
doveva avere. E lui
risponde che infatti ha passato metà della sua vita in
manicomio. Probabilmente
anche io passerò metà della mia vita in
manicomio, se deciderò di sopravvivere
alla fine del mese. O magari no. Ma non riuscirò mai a
scrivere niente di
interessante, sicuramente. Niente di così geniale e bello.
Sarò solo una pazza
come tanti. Cerco di spiegare questa mia idea. E ridiamo, ridiamo, ma
ci viene
anche un po’ da piangere.
Non
lo so. Io penso che ci stanno abbandonando tutti, in linea generale.
Anche lei,
se n’è andata. Penso che ci dovrebbe essere un
ricambio di menti, invece c’è
solo buio, adesso. E quando se ne andranno tutti per davvero, cosa
rimarrà?
Barbara D’Urso e Platinette, Bossi e D’Alema, la
Santanchè e il Grande
Fratello. E poi ne arriveranno di peggiori, e i peggiori saremo noi.
Che poi
alla fine le cose che non ci piacciono sono sempre le stesse per tutti.
E anche
questo mi fa paura. Io ho paura, cazzo, ho paura. Mi scappa di dirlo ad
alta
voce.
Kurt,
che poi si chiama Colin, ma io lo chiamerò sempre Kurt, mi
abbraccia. Ubriaco
fradicio e sincero. Ce ne stiamo immobili sotto l’acquazzone,
fin quando ci si
gelano le dita. Forse ci siamo già ammalati e non lo
sappiamo. Forse sarà suina
e moriremo senza ausili. O forse tra una settimana saremo ancora qui
così,
stretti.
Poi
lui senza dire nulla mi abbandona e se ne va senza voltarsi. Resto un
po’ a
guardarlo allontanarsi, poi me ne vado anch’io, con le mani
in tasca.
C’è
che mia madre doveva farmi nascere cagnolino. Cagnolino, e bianco. Lo
ha detto
anche Kurt.
I
giorni sono scarni, se ne vanno via uno dopo l’altro e
sembrano
pezzi di un puzzle che non esiste. Ho la nausea di qualcosa, senza
sapere cosa,
ma anche una specie di peso all’altezza dello stomaco. Sono
sempre più
silenziosa e i miei non sanno che pesci prendere. Mio padre vorrebbe
stare
tranquillo, mia madre mi ama con un amore che noi esseri umani non
siamo in
grado di spiegare, nel nostro essere limitati e storpi. A scuola sento
il mio
cervello appassire, assieme a quelli degli altri. Avrei tante domande,
ma non è
mai il momento giusto per farle. E poi sembra che fare domande sia solo
una mia
prerogativa. Come se volessi dar fastidio. Invece vorrei solo delle
risposte.
Vorrei un dibattito, non lo so, parlo a caso, un’ora per
discutere tra noi di
grandi temi. Qualcosa. Ma forse sono solo io a volere queste cose, e
allora sto
zitta, lancio le molliche di pane fuori dalla finestra e guardo i
piccioni
ingozzarsi.
Kurt
non viene a scuola da abbastanza. Forse non ne ha voglia. Forse
è suina per
davvero. A me piace pensare che sia scappato da qualche parte, a fare
quello che
più gli piace. Tipo a Barcellona a vendere bracciali o a
rubare portafogli
nelle Ramblas. Mi sembra il tipo giusto per questo genere di cose.
Martedì
diciassette manifestazione studentesca. Mi piacerebbe salire su una
fontana e
urlare quello che credo, quello che penso. Qualcuno mi ascolterebbe
anche. Il
problema è che non arriverei da nessuna parte. Vorrei
davvero battermi per
un’idea. Mettere su una rivoluzione, una ribellione di menti.
Ma, come tutti
quelli che ci hanno pensato prima di me, probabilmente ne ricaverei una
pallottola in testa, una bomba nella macchina o un sequestro
misterioso. Questo
Paese è strano. Questo mondo è strano. O magari
sono io ad avere paura.
Allora
opto per la mia passeggiata nei corridoi, a guardare fuori dalle
finestre il
cielo milanese. C’è odore di termosifoni accesi e
di bidelli, che adesso si
chiamano commessi ma secondo me non ha senso tutto questo cambiar nomi.
Magari
domani arriva il sole.