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Autore: Beatrix Bonnie    12/11/2009    3 recensioni
1939, Scozia.
Un ricco uomo di finanza è costretto a lasciare il proprio lavoro, la propria casa e la propria famiglia per militare nell'esercito inglese. Non è coraggioso, non è robusto, non ha mai imbracciato un fucile in vita sua. È debole, la guerra gli fa paura e lo rende un bambino. Tutto ciò che ha da offrire è una buona dose di ingegno e una vasta conoscenza in campo geografico e naturalistico. Basteranno a far di lui un eroe?
Nel frattempo la moglie, rimasta sola nell'immensa villa di famiglia, con un bambino di due anni tra le braccia e un altro nel ventre, deve affrontare i maggiori dell'esercito che hanno piantato l'accampamento in casa sua e che la insidiano di continuo. Attenderà speranzosa il ritorno del marito per sei lunghissimi anni, senza mai ricevere sue notizie.
Alla fine della guerra, Ulisse potrà finalmente tornare alla sua amata Itaca?
Storia classificata prima al contest "competition for long-fic published".
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Historia docet'
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Capitolo I



Giugno 1940


Il traballare del camion obbligava i suoi occupanti a sbattere in continuazione contro gli schienali dei sedili. Uno sbattere abituale ormai, quasi confortante. Era il segno che il motore andava ancora, che c'era ancora benzina, ma soprattutto significava che tutte le membra erano sufficientemente sensibili da avvertire il vibrare meccanico della panca di legno. Fitzgerald aveva imparato ad amarlo, perché indicava che per ora si trovava al sicuro sul camioncino, ma aveva anche imparato ad odiarlo, perché accompagnava da mesi gli attimi più terribili della sua vita. Stringeva tra le braccia intirizzite il fucile, come se fosse il suo amato figlioletto; lo abbracciava quasi, si aggrappava ad esso. Era rannicchiato su se stesso, gli occhi sgranati dal terrore, un elmetto verde troppo grande per lui che gli schiacciava i capelli neri sulla fronte.

Tremava, ma non a causa dello sconquassamento provocato dal camion.

«Mioddio, sembri uno scoiattolo spaurito.» disse una voce roca e profonda. Apparteneva al soldato che era seduto davanti a lui. Una montagna di uomo. Fitzgerald gli lanciò un'occhiata terrorizzata e la sua massa enorme lo spaventò ancora di più. Se l'intento del commilitone era quello di sdrammatizzare l'attesa a spezzare la tensione, ottenne esattamente l'effetto contrario: Fitzgerald cominciò a dondolare avanti e indietro, in preda ad una attacco di panico. «Ehi, scoiattolino, stai tranquillo! Mioddio, ma sei un ragazzino! Quanti anni hai? Ne dimostri quindici.» domandò ancora l'uomo.

Fitzgerald si concesse il lusso di rispondere: «Venticinque.»

«Santo cielo! Eddai, smettila di tremare. Facciamo fuori un po' di tedeschi e ce ne andiamo.» continuò quello, battendogli una pacca amichevole sulla spalla.

Per poco Fizgerald non cadde dalla scarna panca di legno. Sembrava che nemmeno capisse le parole che gli venivano rivolte, vista l'espressione di scioccata innocenza che aveva disegnata sul volto, gli occhi dilatati per il terrore e la bocca semiaperta. «Fuori...?» ripeté, senza nemmeno accorgersi. Non era una domanda, ma nemmeno un'affermazione: era la follia causata dalla paura cieca che lo invadeva.

Si sentì il rombo di un aereo che passava sopra la loro testa, poi un sibilo acuto e infine uno scoppio. Fitzgerald si guardò intorno, atterrito, ma non trovò altro che volti anonimi, maschere di uomini che un tempo avevano amato e sperato di vivere in pace. Una voce urlò qualcosa e tutti cominciarono a saltare giù dal furgone.

«Veloci, veloci!»

Fitzgerald per poco non cadde a terra e fu costretto ad appoggiare una mano sul terriccio per rimettersi in piedi. C'erano urla, scoppi, lampi improvvisi di luce. Quello era l'inferno. I pantaloni della sua divisa si inzupparono, ma lui nemmeno se ne rese conto. Era solo una reazione fisiologica spontanea del corpo, di fronte alla possibilità di morire. 'Svuotare la sacca' era il comando automatico che partiva involontariamente dal cervello quando si accorgeva che non aveva speranze di sopravvivenza. Un rivolo gli percorse la gamba fino allo scarpone. Cominciò ad ansimare, le gambe molli e le mani ancorate al fucile, la sua salvezza e la sua condanna.

«A destra, avanzare! Attenzione!» strillò il caporale.

Fitzgerald si mosse come una macchinetta. Non sapeva nemmeno perché stava eseguendo gli ordini, quando dentro la sua testa una voce gli urlava di fuggire. Poi ci fu un boato enorme: era scoppiata una bomba lì vicino. Fitzgerald fu sbalzato lontano e atterrò dolente sul terriccio fangoso. Si coprì la testa con le braccia e rimase immobile sdraiato supino. Forse se non guardava quell'orrore di morte e sangue, prima o poi sarebbe sparito.

«Che diavolo fai, sei impazzito?» gridò una voce. Qualcuno lo afferrò per la giacca della divisa e lo sollevò da terra di peso, per tentare di rimetterlo in piedi. Fitzgerald riuscì appena in tempo ad afferrare il fucile e stringerlo a sé, come se potesse in qualche modo salvarlo da quella situazione. I suoi occhi sgranati riconobbero il soldato grosso che gli aveva rivolto la parola sul camion.

«Per Dio, scoiattolino, vuoi restare qui tutto il tempo? Alzati e combatti!» gli urlò contro l'uomo, afferrandolo per le spalle e scuotendolo avanti e indietro. «Ci stanno massacrando!»

Fiztgerald lo fissò con gli occhi sgranati, poi scoppiò a piangere. Due lacrime gli attraversarono il volto annerito e infangato, lasciando dietro di sé una striscia lucida.

L'avevano addestrato in quegli ultimi sei mesi, gli avevano insegnato ad eseguire gli ordini, a sparare con il fucile senza chiedere perché, ad essere pronto a morire per la patria, se necessario. Ma quella era la prima volta che lo sbattevano in guerra. In mezzo all'inferno.

Avrebbe voluto lasciarsi morire lì, crollare a terra senza reagire, permettere alle forze di abbandonarlo lentamente, come se dovesse dormire. Chissà, magari si sarebbe risvegliato in un prato così intensamente verde come quelli della sua amata Scozia e avrebbe scoperto che la guerra era solo un brutto sogno appartenente al passato.

L'uomo che l'aveva rialzato da terra, però, non sembrava dello stesso parere. A lui non importava un gran che di ammazzare i nazisti, ma l'avrebbe fatto senza farselo ripetere, se fosse stata l'unica cosa che gli avesse permesso di sopravvivere. E, al momento, sopravvivere sembrava davvero la cosa più sensata.

Non sapeva perché si fosse preso la briga di aiutare quel ranocchietto spaurito. Solo che... gli faceva pena. Sebbene lui fosse più giovane di ben due anni, l'altro gli arrivava sì e no alla spalla, smunto e magrino com'era. L'elmetto che portava in testa gli era troppo grande e finiva sempre per nascondere i suoi luminosi occhi azzurri, sgranati per la paura. La divisa enorme gli cadeva addosso in modo scomposto, infagottandolo e rendendo impacciati i suoi movimenti. Complici i tratti lineari e la totale assenza di barba, sembrava più che altro un bambino vestito con gli abiti da guerra del padre.

E ora se ne stava lì a guardarlo. Piangeva, addirittura! Se lo avesse abbandonato, sarebbe certamente morto. In barba a tutte le regole militari che gli avevano inculcato nella testa in quegli ultimi mesi, il giovanotto afferrò il compagno per la vita e se lo caricò di peso sulle spalle. Quello scalciò e probabilmente si lamentò, ma non poteva nulla contro di lui. Se lo portò via come avrebbe fatto con un sacco di patate. Nell'altro braccio teneva alto il fucile, pronto a colpire chiunque gli avesse sbarrato il passaggio, amico o nemico che fosse. Non c'era tempo per andare per il sottile: l'esercito inglese e francese era in rotta e i tedeschi sparavano a vista a qualsiasi cosa si muovesse che non indossasse la divisa nazista.

I soldati inglesi correvano in modo disordinato per il bosco, lontano dagli spari e dallo scoppio delle bombe. Nessuno sapeva dove andare, eppure c'era un istinto primordiale che li spingeva via da quel luogo di morte, verso una salvezza sperata ma non certa. Quelli feriti si trascinavano a terra, rantolavano ed arrancavano per riuscire a scappare, mossi da un impulso folle che moltiplicava le loro ultime gocce di forza. Il capitano e i caporali cercavano di dare disciplina a quella fuga disparata, ma nessuno più seguiva gli ordini.

«Il generale Alexander comanda di ritirarsi al villaggio di Dunkerque!» gridò uno dei caporali, cercando di avvertire quanti più uomini possibili. «Lì c'è la flotta che ci aspetta!»

I tedeschi li avevano letteralmente sbaragliati. La loro superiorità non era solo numerica, ma anche tattica: i loro uomini avevano alle spalle mesi di duro addestramento e soprattutto avevano una fede cieca nel Terzo Reich. Gli inglesi, invece, preferivano pensare prima alla propria sopravvivenza che alla difesa della Francia. Manco era la loro, di patria.

Il giovane soldato con Fitzgerald sulle spalle, cominciò a correre in direzione del villaggio. Non era certo che ci sarebbe arrivato, in realtà, soprattutto non con un fardello da portarsi dietro. In fin dei conti, nemmeno lo conosceva: avrebbe potuto abbandonarlo, ma sarebbe stato come condannarlo a morte certa. E lui non riusciva a farlo.

«Resisti, scoiattolino, ce la faremo!» lo incitò, con foga. Il ragazzo mugugnò qualcosa di incomprensibile: probabilmente era tramortito. Proprio in quel momento, una scarica di proiettili li raggiunse alle spalle. Il soldato inglese si gettò dietro una roccia, ma sapeva che quel nascondiglio non li avrebbe protetti a lungo. «Aspettami qui.» ordinò al compagno, posandolo a terra. Come se potesse andare da qualche parte, in quelle condizioni.

Dopodiché caricò il fucile e si sporse oltre la roccia. Non fu l'allenamento da soldato che aveva ricevuto ad aiutarlo, quanto la buona mira sviluppata in anni di caccia. Quando la strada fu finalmente libera, si caricò nuovamente il compagno sulle spalle e riprese la sua corsa disperata verso il porto.

«Ci siamo quasi!» esclamò eccitato, quando riconobbe le luci delle case in lontananza. La stanchezza cominciava a farsi sentire, ma non poteva cedere proprio ora che mancava così poco. Non si sentiva più le gambe, le spalle gli dolevano come non mai e credeva che le forze lo avrebbero abbandonato da un momento all'altro. Gli ultimi metri che lo separavano dal villaggio li percorse quasi strisciando.

Grazie al cielo, altri soldati li videro arrivare e corsero loro incontro per aiutarli. «Dove è ferito?» domandò uno, accennando a Fitzgerald.

«No, no. È solo svenuto.» rispose il ragazzo scuotendo la testa. I compagni, scambiandosi occhiate perplesse, li aiutarono a raggiungere il resto dell'esercito, dove sarebbero stati al sicuro.

Fitzgerald riprese conoscenza quando erano ormai già saliti a bordo. I suoi ricordi erano confusi, ma un volto continuava a fare capolino nella sua mente. «Ehi...» mormorò con un filo di voce.

Il soldato che l'aveva salvato, seduto al suo fianco in una squallida cabina della nave, si voltò verso di lui. «Oh, ti sei svegliato, scoiattolino.» esclamò, dandogli una pacca sulle spalle.

Fitzgerald si mise lentamente a sedere. «Sì.» sussurrò, massaggiandosi la testa. «Io... mi ricordo. Tu mi hai salvato la vita.»

Il ragazzo gli rivolse un sorriso sincero.

«Grazie.» mormorò Fitzgerald, con vera riconoscenza.

L'altro scoppiò a ridere. «Avanti, ci sarà tempo per ringraziare. Ora pensiamo a sopravvivere.» rispose.

«Dimmi almeno come ti chiami.»

«Josh, Josh Watson.» si presentò il ragazzo, tendendo la mano verso di lui.

Il giovane scozzese gliela strinse con riconoscenza. «Fitzgerald McBride. Piacere di conoscerti.»




Buongiorno a voi! (NB. è la stessa nota del prologo...)

Dopo anni che non toccavo questa storia, è cominciato un serio programma di risistemazione totale! Ho corretto, riscritto e allungato i primi due capitoli (trasformatisi in un beve prologo e in un capitolo più lungo del precedente); ho completato la storia e ora provvederò ad aggiornare regolarmente.

Spero che il racconto possa piacervi! Un paio di capitoli, contengono alcune scene di violenza... vi avvertirò all'inizio con una nota, ma spero comunque di non urtare la sensibilità di nessuno.

A presto,

Beatrix Bonnie


ps. Ho anche scoperto di recente, partecipando ad un contest, che tutte le volte che parla un personaggio diverso, bisognerebbe andare a capo. È una regola che mi scoccia parecchio, perché ho sempre odiato andare a capo in continuazione, e quindi ci ho impiegato parecchio ad accettarla, ma... è una REGOLA! Non ci posso fare niente, sono troppo ligia al mio dovere! Ergo, questa è la prima storia che rispetta tale norma... sistemerò anche quello che sto scrivendo o è in via di pubblicazione. Un applauso per me! XD


   
 
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