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Autore: GirlWithTheGun    18/11/2009    2 recensioni
Elisa e Colin non sanno cosa volere dalla vita. Elisa e Colin non sanno se volerla, la vita. Si risvegliano quindicenni e confusi in un universo dove l'unica lente per vedere, sentire e amare è la violenza. Una violenza nascosta nell'anima, che riempie, madre di domande senza risposte e di silenzi assordanti.
Elisa vorrebbe avere ottant’anni, vorrebbe non vedere il buio del nulla nel suo futuro, non avere paura e non essere nata delusa, vorrebbe capire qual è il giorno maledetto in cui ha cominciato a pensare.
Colin si trascina dietro la memoria di un padre suicida, sogna un mare che mangia vive le persone, non riesce ad identificare quel desiderio caotico di libertà che lo infiamma.
"Ma cosa siamo se possiamo esaltarci e distruggerci così? Perché siamo, dove siamo, sperduti negli angoli degli universi e schiantati nelle nostre tragedie di cartone.Esistenze misere che non si accendono mai, lampadine spente che non conoscono la luce. Ma io voglio brillare! Io voglio brillare!".
A tutti i Catchers In The Rye.
Genere: Romantico, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tir Nel Cortile

 

Ci sono cose che pesano, pesano. Ci sono cose che schiacciano.
Ansima la nebbia tra le case, e tutto sembra disegnato sullo sfondo. Ci sono dei momenti di silenzio surreale, mi ascolto respirare male. Fare cose senza senso. Come non andare a scuola per una settimana, simulando una febbre da cavallo per la nonna, e poi tornarci quando finalmente è arrivata per davvero – la febbre -. Avrò tipo trentotto o giù di lì. Ho messo il giubbotto imbottito, la sciarpa. Ho i pantaloni del pigiama sotto i jeans. Ho la cartella vuota per non fare fatica. Ma continuo ad avere un freddo disperato, dei brividi strani in tutto il corpo, e la debolezza nelle ossa. Non ho voglia di esistere, stamattina. Sono sicuro che capita a tutti, di svegliarsi con il desiderio inespresso di ammuffire sotto le coperte. Mi sento poco lucido, poco pronto alla parola. Annebbiato anch’io.
Fuori da scuola c’è una grande agitazione, ricordo appena il perché. Martedì. Gruppi di compagni che schiamazzano. Marco mi lancia un saluto da lontano, io, senza farci troppo caso, mi guardo intorno. Eccola, penso. Se ne sta lì a parlare con una ragazza piena di capelli rosso carota. Ride, sorride, dondola avanti e indietro, le mani nelle tasche della tuta. C’è qualcosa che stona, in tutta questa sua allegria. La felicità non si estende agli occhi. Dico, fa increspare le palpebre, le fa socchiudere, ma non accende le pupille. Lei è come una lampadina difettosa.
Marco mi salta addosso, mi parla tutto contento, lancia qualche frase come “cazzo oggi non entriamo, manifestazione”, “cazzo ma io al corteo non ci voglio andare, chi se ne fotte, ci facciamo un giro in centro”, “cazzo ma ce l’hai l’accendino?”. Cazzo, no che non ce l’ho. L’ho dimenticato. Mi trascina con lui a cercarne uno, a tampinare passanti innocenti. Senza rendercene conto siamo nel bel mezzo di un grosso gruppo, ci muoviamo insieme agli altri. Lei l’ho persa di vista, e forse non riuscirò a ritrovarla, in mezzo a tutto questo casino. Intanto Marco mi racconta i suoi sogni erotici e pretende un’interpretazione attendibile. Lui è notoriamente imbecille ed io anonimamente febbricitante.
Uno scambio di battute che è un programma.
“Ma secondo me vuol dire qualcosa, no, che non era tutta nuda”.
“Beh, può essere”.
“Insomma aveva ‘ste mutandine verdi con dei disegni rossi. Tipo peperoni. Che cazzo c’entrano i peperoni?”.
“Mah”.
“Magari tipo che ho mangiato pesante?”.
Ride di gusto. Afferro vagamente che deve ritenersi molto spiritoso, in questo momento. Io barcollo per un giramento di testa improvviso.
“Si, ma una porcona, eh. Ti giuro, da panico. Oh, mi senti?”.
“Si, si”.
“Poi però alla fine non so com’è, ma quando ha finito mi ha detto che era passata solo per salutarmi”.
Ha lo sguardo interrogativo puntato su di me, Marco.
“Cazzo ne so, chiamala. Uscite insieme”.
Une delle risposte più insulse della mia breve esistenza. Anche perché adesso ho serie difficoltà a ricordarmi la domanda. Probabilmente perché non c’è stata.

E’ lei a ritrovarmi. Mentre tento di spiegare a Marco, con il minor numero di parole possibili, che la manifestazione ha un suo senso. In teoria, almeno. In pratica, non ne sono troppo convinto. Più che altro sono sicuro del fatto che noi non siamo per niente una generazione da manifestazioni studentesche. Troppa concentrazione sul singolo, la visione d’insieme non esiste più. Quindi, anche in questo momento, non riusciamo davvero a sentirci parte di un gruppo, una classe, una massa con dei diritti, delle pretese, delle stronzate da dire. Siamo individui soli e allo sbaraglio. E il tutto riconduce inevitabilmente al fallimento e alla scarsa capacità di azione. Che angoscia.
Qualcuno mi tira la manica del giubbotto. Mi volto ed eccola qui, con il suo sorriso da lampadina spenta.
“Ciao”, dice.
“Ciao”.
“Ma dove sei sparito questa settimana?”, chiede.
Vorrei risponderle tipo che sono stato in viaggio, che sono andato a trovare mia madre in Spagna o un mio fratello maggiore inesistente in Irlanda. Che ho scritto poesie, che mi hanno pubblicato in diciassette Stati, che lunedì andrò in onda su Rai Tre. E invece…
“In giro”.
Lei annuisce. Ed è incredibile. Mi sembra quasi che abbia capito tutto.
Marco la sta studiando. Ora, per Marco le ragazze si dividono in due maxicategorie nette: quelle che fanno i pompini e quelle che non li fanno. Cerco di coprire Lei con il mio corpo, di nasconderla ai suoi occhi. Non mi va  che la fissa così, che le guarda la bocca. Mi irrita.
“Io vado via. Vieni con me?”.
Me lo domanda come se sapesse già la risposta. Come se sottintendesse che me lo chiede solo per pura educazione. Che sa già che vorrei portarla ad esempio sulla Luna, a raccogliere i pezzi del senno di Orlando. A cavalcare le nuvole. Invece magari non sa nulla ed è solo la mia febbre a stonarmi, distrarmi, sballarmi. Mi piace.
“Si”.
Certe volte le risposte brevi sono le migliori di tutte, perché non lasciano spazio ad interpretazioni.
Marco mi guarda andar via con un sorriso maligno. Lui non capisce.
Dispersi, camminiamo per ore intere. Mentre lontano da noi qualcuno da’ fuoco ai cassonetti della spazzatura, la pula carica e fischiano i manganelli. E c’è il sangue, da qualche parte. E anche qualche paio di manette. Ma non ci riguarda.
Ad un certo punto ci sediamo a parlare del niente.
Io brucio, dentro, fuori. Vaneggio, e lei mi asseconda. Ride, ogni tanto. Forse per via delle stronzate che sparo a raffica. Si illumina ad intermittenza, fin quando non mi accascio sulle sue gambe, esausto, dopo un discorso inconcludente sui Capi di Stato. Splende, mentre mi guarda. Arrossisce, ma non è un problema. Siamo rossi in viso tutti e due. Mi sfiora l’idea che forse siamo proprio belli. Giovani e tutto il resto, bianchi, confusi. Fragili come fogli di carta zuppi di umidità.
Mi racconta un po’ della sua vita “normale”. La studio con un’espressione sicuramente ebete. Non riesco a pensare ad altro: vorrei dormire con lei. Proprio dormire. Vicini.
Ha paura di toccarmi. Lo vedo da come muove le mani, da come me le tiene lontane. Come se aspettasse un permesso.
E se non fosse così? Ho paura anch'io.
“Credo di avere la febbre”, dico.
Lei arriccia il naso e mi guarda bene.
“Hai gli occhi lucidi”.
O forse sto solo piangendo?
Allunga le dita piccole e sottili sulla mia fronte. Ha la pelle fresca.
“Stai andando a fuoco”, osserva.
E’ fottutamente vero, penso.

E’ buio. Ascoltiamo una canzone insieme. Le tempie mi pulsano. Lei mi scosta i capelli dalle guance con delicatezza. E quando la musica finisce siamo ancora qui, nelle luci della città, ma ci si è aperta una voragine nello stomaco. Un buco nero che le note riempivano benissimo.
Ci lasciamo con un saluto strano, a metà. Sospesi in avanti nell’attesa di un bacio che non arriva. Lo aspettiamo per un paio di istanti confusi, come pendolari che aspettano il treno, fino a quando decidiamo di accontentarci di un sorriso imbarazzato ciascuno.
“Addio”, mi dice.
Come a sottolineare che domani, quando ci incontreremo, già non saremo più gli stessi.
Lo so, vorrei dirle.
Lo so, cazzo.

Si chiama Elisa.
E’ un nome straordinario e continuo a piagnucolare riguardo a Beethoven fino a quando non svengo nel letto.

Cresco, eppure m’abbasso. Chilometri in giù. Chilometri più giù.
Ci sono cose che pesano. Ci sono cose che schiacciano.
Colpiscono un cuore di piombo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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