Tir
Nel Cortile
Ci
sono cose che pesano, pesano. Ci sono cose che schiacciano.
Ansima
la nebbia tra le case, e tutto sembra disegnato sullo sfondo. Ci sono
dei
momenti di silenzio surreale, mi ascolto respirare male. Fare cose
senza senso.
Come non andare a scuola per una settimana, simulando una febbre da
cavallo per
la nonna, e poi tornarci quando finalmente è arrivata per
davvero – la febbre -.
Avrò tipo trentotto o giù di lì. Ho
messo il giubbotto imbottito, la sciarpa. Ho
i pantaloni del pigiama sotto i jeans. Ho la cartella vuota per non
fare
fatica. Ma continuo ad avere un freddo disperato, dei brividi strani in
tutto
il corpo, e la debolezza nelle ossa. Non ho voglia di esistere,
stamattina.
Sono sicuro che capita a tutti, di svegliarsi con il desiderio
inespresso di
ammuffire sotto le coperte. Mi sento poco lucido, poco pronto alla
parola. Annebbiato
anch’io.
Fuori
da scuola c’è una grande agitazione, ricordo
appena il perché. Martedì. Gruppi
di compagni che schiamazzano. Marco mi lancia un saluto da lontano, io,
senza
farci troppo caso, mi guardo intorno. Eccola, penso. Se ne sta
lì a parlare con
una ragazza piena di capelli rosso carota. Ride, sorride, dondola
avanti e
indietro, le mani nelle tasche della tuta. C’è
qualcosa che stona, in tutta
questa sua allegria. La felicità non si estende agli occhi.
Dico, fa increspare
le palpebre, le fa socchiudere, ma non accende le pupille. Lei
è come una
lampadina difettosa.
Marco
mi salta addosso, mi parla tutto contento, lancia qualche frase come
“cazzo oggi
non entriamo, manifestazione”, “cazzo ma io al
corteo non ci voglio andare, chi
se ne fotte, ci facciamo un giro in centro”, “cazzo
ma ce l’hai l’accendino?”.
Cazzo, no che non ce l’ho. L’ho dimenticato. Mi
trascina con lui a cercarne uno,
a tampinare passanti innocenti. Senza rendercene conto siamo nel bel
mezzo di
un grosso gruppo, ci muoviamo insieme agli altri. Lei l’ho
persa di vista, e
forse non riuscirò a ritrovarla, in mezzo a tutto questo
casino. Intanto Marco
mi racconta i suoi sogni erotici e pretende
un’interpretazione attendibile. Lui
è notoriamente imbecille ed io anonimamente febbricitante.
Uno
scambio di battute che è un programma.
“Ma
secondo me vuol dire qualcosa, no, che non era tutta nuda”.
“Beh,
può essere”.
“Insomma
aveva ‘ste mutandine verdi con dei disegni rossi. Tipo
peperoni. Che cazzo c’entrano
i peperoni?”.
“Mah”.
“Magari
tipo che ho mangiato pesante?”.
Ride
di gusto. Afferro vagamente che deve ritenersi molto spiritoso, in
questo
momento. Io barcollo per un giramento di testa improvviso.
“Si,
ma una porcona, eh. Ti giuro, da panico. Oh, mi senti?”.
“Si,
si”.
“Poi
però alla fine non so com’è, ma quando
ha finito mi ha detto che era passata
solo per salutarmi”.
Ha
lo sguardo interrogativo puntato su di me, Marco.
“Cazzo
ne so, chiamala. Uscite insieme”.
Une
delle risposte più insulse della mia breve esistenza. Anche
perché adesso ho
serie difficoltà a ricordarmi la domanda. Probabilmente
perché non c’è stata.
Qualcuno
mi tira la manica del giubbotto. Mi volto ed eccola qui, con il suo
sorriso da
lampadina spenta.
“Ciao”,
dice.
“Ciao”.
“Ma
dove sei sparito questa settimana?”, chiede.
Vorrei
risponderle tipo che sono stato in viaggio, che sono andato a trovare
mia madre
in Spagna o un mio fratello maggiore inesistente in Irlanda. Che ho
scritto
poesie, che mi hanno pubblicato in diciassette Stati, che
lunedì andrò in onda
su Rai Tre. E invece…
“In
giro”.
Lei
annuisce. Ed è incredibile. Mi sembra quasi che abbia capito
tutto.
Marco
la sta studiando. Ora, per Marco le ragazze si dividono in due
maxicategorie
nette: quelle che fanno i pompini e quelle che non li fanno. Cerco di
coprire
Lei con il mio corpo, di nasconderla ai suoi occhi. Non mi va che la fissa
così, che le guarda la bocca. Mi
irrita.
“Io
vado via. Vieni con me?”.
Me
lo domanda come se sapesse già la risposta. Come se
sottintendesse che me lo chiede
solo per pura educazione. Che sa già che vorrei portarla ad
esempio sulla Luna,
a raccogliere i pezzi del senno di Orlando. A cavalcare le nuvole.
Invece
magari non sa nulla ed è solo la mia febbre a stonarmi,
distrarmi, sballarmi. Mi
piace.
“Si”.
Certe
volte le risposte brevi sono le migliori di tutte, perché
non lasciano spazio
ad interpretazioni.
Marco
mi guarda andar via con un sorriso maligno. Lui non capisce.
Dispersi,
camminiamo per ore intere. Mentre lontano da noi qualcuno da’
fuoco ai
cassonetti della spazzatura, la pula carica e fischiano i manganelli. E
c’è il
sangue, da qualche parte. E anche qualche paio di manette. Ma non ci
riguarda.
Ad
un certo punto ci sediamo a parlare del niente.
Io
brucio, dentro, fuori. Vaneggio, e lei mi asseconda. Ride, ogni tanto.
Forse per
via delle stronzate che sparo a raffica. Si illumina ad intermittenza,
fin
quando non mi accascio sulle sue gambe, esausto, dopo un discorso
inconcludente
sui Capi di Stato. Splende, mentre mi guarda. Arrossisce, ma non
è un problema.
Siamo rossi in viso tutti e due. Mi sfiora l’idea che forse
siamo proprio
belli. Giovani e tutto il resto, bianchi, confusi. Fragili come fogli
di carta
zuppi di umidità.
Mi
racconta un po’ della sua vita “normale”.
La studio con un’espressione sicuramente
ebete. Non riesco a pensare ad altro: vorrei dormire con lei. Proprio
dormire. Vicini.
Ha
paura di toccarmi. Lo vedo da come muove le mani, da come me le tiene
lontane. Come
se aspettasse un permesso.
E
se non fosse così? Ho paura anch'io.
“Credo
di avere la febbre”, dico.
Lei
arriccia il naso e mi guarda bene.
“Hai
gli occhi lucidi”.
O
forse sto solo piangendo?
Allunga
le dita piccole e sottili sulla mia fronte. Ha la pelle fresca.
“Stai
andando a fuoco”, osserva.
E’
fottutamente vero, penso.
Ci
lasciamo con un saluto strano, a metà. Sospesi in avanti
nell’attesa di un
bacio che non arriva. Lo aspettiamo per un paio di istanti confusi,
come
pendolari che aspettano il treno, fino a quando decidiamo di accontentarci
di un
sorriso imbarazzato ciascuno.
“Addio”,
mi dice.
Come
a sottolineare che domani, quando ci incontreremo, già non
saremo più gli
stessi.
Lo
so, vorrei dirle.
Lo
so, cazzo.
E’
un nome straordinario e continuo a piagnucolare riguardo a Beethoven
fino a
quando non svengo nel letto.
Ci
sono cose che pesano. Ci sono cose che schiacciano.
Colpiscono
un cuore di piombo.