La neve scendeva
gelata congelandomi anche le ossa. Mi scostai il ciuffo di capelli neri
dagli
occhi e misi le mani inguantate nelle tasche del piumino nero
insufficiente a
difendermi dal freddo. La casa di Eva, la medium consigliatami da mio
fratello
era nella zona residenziale. Le case erano piccole villette a due piani
ognuna
con il proprio giardino. In estate avrebbero dovuto essere bellissime,
ma tra
la nebbia e la neve gettavano i passanti in un’atmosfera da
romanzo gotico per
nulla rassicurante. Arrivai alla casa giusta e suonai il campanello,
sempre
meno sicuro di quello che stavo facendo. Nessuna risposta. Forse ero
ancora in
tempo per tornare indietro. Proprio mentre formulavo questo pensiero la
porta
si aprì rivelando una donna anziana costretta su
un’antiquata sedia a rotelle.
Gli occhi erano lattiginosi e spalancati verso il vuoto. Era cieca.
«Cosa
cerchi da Eva?» chiese con una voce che ricordava il cigolio
di una vecchia
porta male oliata. «Emm… Posso, posso
entrare?» chiesi esitante. «Certo,
perché
congelarsi qua fuori quando possiamo stare dentro al calduccio? Ti
spiacerebbe
spingere questa sedia figliolo? È terribilmente
pesante». «Certo» risposi
prontamente. Solo allora mi accorsi che la sedia di Eva non aveva i
comandi per
muoversi automaticamente. La casa sembrava esser rimasta qualche secolo
indietro; tutto, dai mobili alla pesante stufa di ghisa, unica fonte di
riscaldamento, era vecchio e antiquato. Persino i vestiti della padrona
di casa
sembravano usciti da un negozio di antiquariato. La donna indossava
infatti un
vestito lungo e ampio, con un corsetto stretto e un alto collo di
pizzo.
Arrivati al soggiorno, una stanza circolare con le finestre oscurate da
pesanti
drappi neri ed un tavolino a tre gambe, Eva mi fermò con un
brusco gesto della
mano. Mi sorprese, non credevo che avesse tanta energia, ma del resto
se viveva
da sola e si spingeva da sola su quella pesantissima sedia a rotelle
doveva
avere altre doti nascoste. «Cosa cerchi da me?»
chiese nuovamente Eva. « Devo
riuscirmi a ricordare una cosa che mi è successa»
dissi mantenendomi vago. «Una
persona non viene da me per sciocchezze del genere!» sbotto
la vecchia irritata
«Sai come mi chiamano? L’ultima
spiaggia». Senza motivo un lungo brivido mi
scosse la schiena. Dovevo essere sincero «Ieri sera sono
caduto in una specie
di trance ed ho ucciso un uomo, ma non ricordo bene i particolari
dell’omicidio. Voglio scoprire cosa mi è
successo». «Così va meglio»
cantilenò
la vecchietta. «C’è altro?».
Esitai ancora un istante ma decisi di essere
totalmente sincero. «Si. Prima di compiere
l’omicidio mi sono inciso questo
simbolo sugli avambracci» dissi svolgendo le bende che
portavo attorno alle
braccia. Eva mi prese gli avambracci e cominciò a tastarli.
Mentre le sue mani
callose e incartapecorite mi esaminavano il ghigno sul volto scomparve
lentamente per far posto ad una smorfia di meraviglia. «Eva!
Conosce questo
simbolo? Cosa significa?» urlai strappando le mani dalla sua
presa. «Calma
giovanotto» mi impose lei con voce ferma, il tono cigolante
con cui mi aveva
accolto era totalmente scomparso. «Forse ho riconosciuto
qualcosa e forse te lo
dirò alla fine di quest’incontro» decise
irremovibile. «Che cosa? Eva mi deve
dire tutto quello che sa!» protestai.
«Devo?» tuonò lei irata. Immediatamente
il palloncino del mio astio scoppiò patetico.
«Siediti» mi disse secca,
obbedii. La donna accese l’incenso e tre candele,
immediatamente l’aria fu satura
di un insopportabile profumo dolciastro. «Dammi le
mani» ordinò di nuovo lei.
Obbedii senza fiatare. «Adesso ascoltami bene, stiamo per
penetrare la tua
memoria inconscia, non è una cosa facile ed ho bisogno di
tutta la tua
collaborazione. Ricordati che devi sempre restare calmo e per nessuna
ragione
devi disubbidirmi, io sarò sempre con te».
Libravo
nell’oscurità più assoluta, senza
nessun punto di
riferimento. «Matt?» mi chiamò una voce
cristallina. «Chi è?» chiesi
spaventato. La voce rise, una risata fresca che ricordava il tintinnare
dei
campanelli. «Ma
come? Non mi riconosci?
Sono Eva!». «Eva?» balbettai stranito. La
ragazza rise di nuovo. Finalmente
riuscii a vederla. Era una ragazza della mia stessa età, con
lunghi capelli
castani che le arrivavano alla vita e due grandi occhi verdi da
cerbiatta. La
ragazza mi fissò divertita «Bhè cosa
c’è?». Non c’erano dubbi sulla
sua
identità, ma mi riusciva difficile far combaciare le due
figure. «Sei pronto?»
mi chiese lei più seria. «Certo» mentii
io. «Allora andiamo!!!» esclamò lei
prendendomi per mano e lanciandosi in un folle volo sopra la
città
misteriosamente apparsa sotto di noi. «Che città
è questa?». Eva rise «La
tua!». «Cosa?» chiesi senza capire.
«In questo luogo sono custoditi tutti i
tuoi ricordi… e la tua mente ce li presenta in forma di
città». «Vuoi dire che
siamo nel mio cervello?». «Non
fisicamente» rise lei. «Dobbiamo trovare la
tavola calda» mi ordinò. Gettai uno sguardo sotto
di me e individuai subito
l’edificio basso con la scritta al neon.
«È quello!». «Bene!»
esclamò Eva
mentre mi prendeva per mano e mi trascinava verso il basso. Il nostro
volo si
fermò davanti alla porta che spinsi con decisione. Subito
una forte ansia mi
prese al petto. «Calmati Matt!» mi
ordinò Eva al mio fianco «Respira. Devi
mantenere la calma». Tentai di respirare più
lentamente e l’oppressione al
petto scomparve. «Osserva, vuoi vedere cosa è
successo? Allora guarda» mi
ordinò Eva con la sua voce cristallina. Vedevo bene, stavo
semplicemente
mangiando una bistecca e leggendo un libro da solo. «Signore
le porto
qualcosa?» mi chiese la cameriera. «Si, un
caffè per favore». La scena sembrava
normale. Mi guardai attorno stordito per esaminare gli altri clienti e
notai
che alcune zone erano delle macchie scure.
«Sono i punti che non hai visto, il tuo
subconscio non può registrare
informazioni che non hai visto» spiegò Eva
impassibile senza distogliere lo
sguardo dal me stesso seduto al tavolo. «Il suo
caffè signore» disse la
cameriera posandomi una tazza sul tavolo con delicatezza. Bofonchiai un
grazie
poco convinto. «Matt! Guarda!» mi
avvertì Eva allarmata. Un uomo alto, dalla
carnagione scura e avvolto in una lunga cerata con cappuccio si stava
avvicinando a me con in mano uno strano sacchetto pieno di polvere
bianca. «Chi
è?» chiesi sospettoso. Il senso di oppressione al
petto mi attanagliò di nuovo
all’improvviso mozzandomi il respiro. Non avevo notato
quell’uomo! Non avevo
notato come mi versava nel caffè quella droga! Che idiota!
«Respira Matt,
calmati» mi sostenne Eva. Ma non ci riuscivo, il rimorso per
l’ingenuità
dimostrata era troppo grande. «Se non resisti non saprai cosa
è successo dopo!»
mi tentò la medium. In quel momento feci lo sforzo in
più richiestomi e riuscii
a controllarmi. «Cosa sta succedendo?» chiesi ad
Eva. «Stai bevendo il caffè…
guarda». Era vero, l’altro me stava bevendo il
caffè e subito un forte tremito
lo scosse. Afferrò velocemente il coltello e andò
in bagno. «No!» urlai
sconvolto. «Calmati Matt, resisti!». Ma ormai
nemmeno la voce argentina di Eva
riusciva a confortarmi. Mi accasciai a terra mentre il ristorante e
tutta la
città mi si scioglievano attorno.
Rinvenni ansimando.
«No!» urlai ancora una volta alle pareti. Un
violento schiaffo mi fece
rinsavire completamente. «Ti ho ripreso per i
capelli» commentò Eva, di nuovo
tornata al suo aspetto terreno. «Hai rischiato di impazzire
giovanotto». Mi
guardai le mani mettendo gradualmente a fuoco i particolari.
«Lei… lei conosce
quell’uomo vero Eva?». «Apri le finestre
ragazzo, c’è quest’odore
d’incenso
insopportabile». «Lei sta tentando di cambiare
discorso, chi era quell’uomo»
chiesi calmo. «Non sono ancora sicura di quello che ho visto,
ho bisogno di
tempo per riflettere ed analizzare» disse lei serafica.
«Ma Eva! Io devo
sapere!». «E saprai, ti chiedo solo di pazientare
un altro giorno». La guardai
sospettoso. «Tra un giorno esatto saprai la
verità». Sospirai esasperato ma la
vecchia era irremovibile. «Bene, domani alla stessa ora
verrò qui» decisi.
La piccola macchina
gialla sfrecciava per la città a velocità folle.
«Ruphert! Vuoi forse finire
nella cronaca nera alla velocità della luce?»
urlò Emily nelle orecchie del
rosso. Osservai bene la mia amica, era decisamente più
nervosa del solito…
strano visto che avevamo arrestato Collins. «Va bene,
scusa» bofonchiò Ruphert
offeso. Improvvisamente la canzone “All Star”
risuonò nella macchina ed Emily
iniziò a frugarsi in tasca alla ricerca del cellulare. Alla
fine riuscì a
rispondere «Emily Jefferson… Cosa?…
Siete degli incapaci!… Come cosa? Mettete il
palazzo sotto sorveglianza!… E interrogate tutti i suoi
parenti e conoscenti,
forse si rifugerà da qualcuno di loro… Voglio
tutto questo fatto alla
perfezione e lo voglio, ieri. Ci siamo capiti?». Alla fine
della conversazione
chiuse il telefono di scatto. «Matt
Collins non era in casa» ci comunicò furente. Fu
un vero schiaffo morale per
me. Ormai nella mia testa il caso della tavola calda era chiuso, chiuso
grazie
a me. Avevo dato per scontato che Collins si sarebbe fatto arrestare
senza
problemi. Scossi le spalle, io avevo fatto il mio lavoro, adesso
toccava agli
agenti di pattuglia trovarlo ed arrestarlo. Il pensiero mi
confortò. Ruphert
finalmente arrivò a destinazione, una piccola lavanderia a
gettoni. Scendemmo
tutti e tre dalla macchina stringendoci le braccia per riscaldarci.
«Odio
questo posto, stavo per andare a letto quando mi avete
chiamato» si lamentò
Ruphert. «Hanno chiamato noi perché hanno trovato
un collegamento con il caso
della tavola calda» spiegò la bruna entrando nel
locale. Lì ci aspettava
Garrett. «Ciao
Emily, lieto che tu sia
qui» la salutò galante come al solito. Il
commissario rispose con un grugnito.
«Ruphert, principessa» salutò ancora
rivolto a noi. «Cosa abbiamo?» chiese
Emily brusca e irritata. «Hai presente l’omicidio
alla tavola calda? Stessa
cosa» riassunse l’ufficiale scientifico.
«È stato Collins?» chiese Ruphert in
un soffio. «No, c’è una differenza tra i
due casi» rispose Garrett. «Cosa?»
chiese Emily. «L’assassino si è
suicidato subito dopo aver compiuto il delitto,
si è conficcato il coltellino tascabile che ha usato per il
delitto nell’occhio
sinistro». Rabbrividii, il solo pensiero mi diede i brividi.
«Come si
chiamavano?». «Aghata McGonagall e Bruce
Kane» rispose Garrett. Ringraziai e
annotai i nomi sul mio quaderno azzurro.
Ruphert si
chinò
sul cadavere della donna. «Tre coltellate vicino al cuore,
scommetto che hanno
reciso le arterie polmonari» commentò il rosso.
Rose gli si avvicinò e confermò
la sua tesi. Io stavo guardando invece il corpo dell’uomo.
Aveva gli avambracci
incisi. Incuriosita guardai meglio, su entrambi gli avambracci era
inciso il
simbolo di un serpente. «Quindi ricapitoliamo…
stesso identico modus
operandi di Collins, ma non è stato
lui». «Unica differenza è che qui
l’assassino si è suicidato»
puntualizzò Rose. Annuii infastidita, odiavo il
fatto che Rose fosse sempre un passo avanti a me. I miei colleghi si
chinarono
sul corpo dell’uomo «La morte deve essere stata
istantanea» commentò Ruphert.
«Avete notato questo simbolo?» osservò
Rose. «Si! Non c’è bisogno che voi due
sottolineate l’ovvio!» sbottai io furiosa
allontanandomi. I due si guardarono
sconcertati. «Andiamo» ordinai.
«Ma… non abbiamo ancora
finito…» protestò
Ruphert. «La scientifica ha già fatto tutti i
rilievi necessari. Non discutete i
miei ordini!» sbraitai furiosa fissandoli feroce. Ruphert mi
restituì uno
sguardo astioso, Rose no. I suoi grandi occhi nocciola erano
preoccupati e
confusi, non si spiegavano il mio comportamento. Non immaginava certo
che era
proprio lei la causa di tutto quello. La odiavo. Per la sua falsa
ingenuità,
per la sua falsa modestia, per la sua falsa fede. La odiavo.
«Andiamo, ho
sonno» sillabai gelida uscendo dalla lavanderia.
Ormai era notte
fonda, la polizia sorvegliava la mia casa e non sapevo dove andare.
Disperato
presi la metro dirigendomi nell’unico posto che mi era venuto
in mente. Da
Marcus non potevo andare, ero sicuro che fosse stato lui a
smascherarmi, quindi
restava solo un’altra persona in tutta New York che forse
avrebbe accettato la
mia scomoda compagnia. Scesi dalla vettura di malavoglia e mi avviai
vero la
casa che conoscevo bene. Ci misi un po’ a suonare il
campanello, alla fine il
freddo fu più convincente di tutti i miei dubbi. Dopo
qualche minuto sentii un
trafficare di chiavi e chiavistelli e alla fine Victoria Potter, la mia
ex
ragazza, mi aprì.
Era da un pezzo
passata la mezzanotte quando Matt suonò alla mia porta
chiedendomi ospitalità
per la notte. Era un sogno che si avverava! Era da un mese che volevo
riconciliarmi con lui ma il mio orgoglio mi frenava sempre davanti al
campanello di casa sua. Adesso finalmente era stato lui a fare il primo
passo.
Purtroppo non fu come me lo aspettavo. Matt si sedette sul mio divano
color
crema e mi raccontò tutte le sue ultime avventure. Rimasi ad
ascoltarlo
incantata. «Viki mi devi credere, non sono stato io ad
uccidere quell’uomo» mi
disse alla fine del lungo monologo fissandomi con i suoi profondi occhi
neri.
Leggermente sconvolta misi sul fuoco la teiera, niente mi schiariva
bene la
mente come una buona tazza di the nero con il miele. «Io ti
credo Matt… ma come
farai con la polizia?». «Devo scoprire cosa mi
è successo, procurarmi delle
prove concrete e poi potrò andare a costituirmi».
Rimasi a guardarlo con i miei
occhi verdi, ancora dubbiosa. «Ti chiedo solo
ospitalità per la notte, domani
me ne andrò… ti prego» mi
supplicò lui. La teiera fischiò e andai in cucina
a
versare il the in due tazze e le portai in soggiorno.
«Allora?» insistette lui.
«Vado a prenderti delle coperte» acconsentii alla
fine.
Sospirai di
sollievo, Viki aveva accettato. E almeno per quella notte il problema
“morte
per congelamento” era scongiurato. La ragazza
tornò in soggiorno con tre
pesanti coperte che stese sul divano bianco. «Ti va bene
dormire qui vero?».
«Certo» risposi senza esitare, mi sarei
accontentato anche dello zerbino pur di
restare al caldo. Viki si sistemò un ricciolo rosso che le
era finito davanti
agli occhi portandoselo dietro l’orecchio in un gesto che
conoscevo a memoria.
«Sei bella come sempre» pensai ad alta voce. Lei
sorrise e arrossì, ma non
commentò. “Idiota! Sei venuto qui per dormire, non
per riconquistarla” mi
maledissi. Però era bella. La pelle bianca metteva in
risalto i capelli rosso
scuro e gli occhi verdi. Il corpo era generoso e proporzionato e la sua
voce
aveva una cadenza musicale. In ogni caso tra noi era finita, non avevo
nessuna
intenzione di riprovarci. «Sei fidanzato?» mi
chiese improvvisamene lei mentre
sistemava le coperte. «Emm… no» risposi
esitante. Mi sembrò di vedere un
sorriso illuminarle brevemente il viso. «Sai, ti sta bene la
barba, ti dà
un’aria da uomo vissuto» mi vezzeggiò
sedendosi accanto a me. Mi toccai la
barba incolta: era da due giorni che non mi rasavo.
«Trovi?» dissi tentano di
apparire gioviale. «Si, mi piace»
replicò lei in tono sensuale. Tentai di
simulare una risata. «In questi giorni fa davvero freddo non
trovi?». «Troppo
per dormire da soli» ribatté lei guardandomi negli
occhi. Le sue labbra carnose
si avvicinarono pericolosamente alle mie. Riuscivo ad avvertire il
profumo
piccante ed esotico della sua pelle. I capelli rossi mi sfiorarono la
fronte e
i nostri nasi si sfiorarono. Il mondo sembrava con il fiato sospeso. Le
nostre
labbra si sfiorarono in un bacio casto. «No!» urlai
allontanandomi da lei di
scatto. «Non sono qui per questo». Viki mi
fissò delusa. «Sei un idiota, certi
treni passano una sola volta». «Credo che questo
treno non sia il mio» replicai
serio. «Viki, mi dispiace, ma non ha funzionato, e non vedo
perché dovrebbe
funzionare questa volta». Lei abbassò lo sguardo
delusa «Forse hai ragione». La
rossa si alzò lentamente guardandomi un’ultima
volta. Io abbassai lo sguardo
per non incrociare quegli occhi verdi pieni di delusione. Dovevo essere
impazzito, solo due giorni prima avrei dato il mio braccio destro pur
di
rimettermi con lei e ora…
Rose si alzò
di
cattivo umore. Aveva dormito poco e male, e lo strano comportamento di
Emily
continuava a tornarle alla mente. “Cosa ho fatto di
male?” continuava a
ripetersi la ragazza. Perché di questo Rose era sicura,
Emily era arrabbiata
con lei. Aprì la doccia e si gettò sotto
l’acqua bollente, uno dei pochi
piaceri che veramente si concedeva. Restò sotto
l’acqua almeno una decina di
minuti, poi uscì avvolgendosi nel morbido accappatoio di
spugna, asciugò con cura
i lunghi capelli e si vestì con calma. Era il suo giorno
libero. Una volta
indossati dei morbidi pantaloni di tuta azzurri e una maglietta con le
maniche
lunghe dello stesso colore si sedette alla scrivania ed accese il
portatile.
Tutta la notte era stata tormentata da quello strano pensiero fisso, il
serpente a due teste. Quell’inquietante simbolo aveva
popolato i suoi sogni e
le era entrato nell’anima. Inserì nel database
della polizia e nel motore di
ricerca la parola “serpente a due teste”. Nessun
risultato. Rose sorrise, non
si aspettava certo di trovare quello che cercava così
facilmente. Inserì le
parole anche nel motore di ricerca, i primi risultati facevano
riferimento
all’Idra, il mostro della mitologia greca e ad alcuni
serpenti con mutazioni
genetiche. Rose scosse la testa e modificò la parola da
cercare. “Serpente
bifronte”. Anche questa non diede risultati. Rose fu presa da
un’illuminazione:
“Serpente bifronte mitologia”. Niente. Rose si
scostò una ciocca di capelli
dagli occhi e sbuffò. “Forse dovrei ampliare la
ricerca” pensò annoiata.
“Serpente mitologia”.
Subito apparsero
diversi risultati. Rose scorse attentamente la lista e alla fine scelse
quello
del museo nazionale.
“SERPENTE: nella
mitologia e nel folclore mondiale, rettile che, a volte, assume valenze
positive e benigne, altre, demoniache. Nelle credenze ebraiche e
cristiane, il
serpente e spesso associato al diavolo.”
Recitava
la prima parte. Rose interessata continuò
a leggere, se non altro avrebbe imparato qualcosa. “Nella Genesi
(3: 1) il serpente viene descritto come «la più
astuta delle bestie selvatiche
fatte dal Signore Dio»… Secondo il
Libro dei Numeri… antico Egitto,
il serpente-mostro Apep… simbolo di
rinascita e guarigione… la dea sumera
Inanna…
generato
dal dio del male Loki”. Rose
continuò a leggere per
diverse ore fino a quando non si abbatté in una cosa che la
fece sobbalzare.
Ogni paragrafo era accompagnato da un’illustrazione, e quella
che stava
fissando era proprio l’illustrazione, il
simbolo che l’assassino si era
segnato sugli avambracci. Accanto all’immagine
c’erano tre brevi righe di
spiegazione. “Quetnitlan era
il serpente guardiano dei morti nella
mitologia Maya, sono in pochi a conoscere il vero significato di questo
dio
pagano e i riti legati al suo culto, in mancanza di fonti attendibili
preferiamo non riportare altre notizie”. Rose
fissò
impietrita lo schermo del computer. Il dio dei morti. Ma
perché l’assassino si
era inciso sugli avambracci il simbolo di una divinità Maya?
Non importava, ora
che era in possesso del nome poteva fare una ricerca approfondita.
Tornò al
motore di ricerca principale e digitò il nome di Quetnitlan.
Il primo risultato
era del sito della polizia. Rose ci cliccò immediatamente
sopra. Il link
portava ad una pagina in sfondo giallo con l’elenco di tutte
le società
registrate della città di New York. Le fu richiesta una
password che la ragazza
inserì senza esitare. Scorse l’elenco fino alla
voce “Quetintlan” e cliccò sul
nome. “Quetnitlan, circolo di
lettura e club
esclusivo per persone che abbiano una verificabile discendenza
Maya”. Rose
stampò la pagina, si vestì ed uscì in
tutta fretta… e pazienza
per il suo giorno libero.
Arrivai alla
centrale a tempo di record, sembrava che anche i mezzi pubblici
volessero
aiutarmi. Mi precipitai verso il mio ufficio ma intercettai qualche
parola di
una conversazione fatta da un gruppetto di agenti. «Certo che
è stata proprio
brava… risolvere il caso in così poco
tempo». Mi sollevai di qualche palmo da
terra: stava parlando di me! «In effetti non si capisce
perché sia così di
cattivo umore, dovrebbe essere contenta». “Cosa? Io
non sono di cattivo
umore?”. «Già… chi la capisce
è bravo. Ma dopotutto è il nostro Commissario, ed
è la migliore che abbiamo mai avuto». Il mondo mi
crollò addosso. Ecco perché
Emily era così di cattivo umore, ecco perché mi
trattava così. Si era presa lei
il merito della soluzione del caso. Mi aveva tradita per gelosia, per
invidia.
I fogli delle mie ricerche mi sfuggirono di mano e caddero sul
pavimento blu.
Giallo su blu.
Quando mi alzai era
già passato mezzogiorno. «Buongiorno»
trillò Viki mentre armeggiava
ai fornelli. «Che ore sono?» chiesi stordito.
«Ora di pranzo» esclamò la
ragazza mettendo la pentola di pasta sul tavolo già
apparecchiato. «Ero sicura
che ti saresti svegliato, i miei spaghetti fanno alzare anche i
morti».
Sorrisi, ricordavo bene la cucina di Viki. «Aspetta, prima ti
sistemo il
divano» mi offrii. «Lascia lascia, tu piuttosto
bevi un po’ di caffè che mi
sembri ancora addormentato» scherzò lei.
«Ma…» protestai.
«Fila!» mi ordinò
Viki «Ormai deve essere freddo ma sarà meglio di
niente». Decisi di abbassare
il muro difensivo, del resto avevo tanta voglia di essere coccolato.
Viki finì
di sistemare il divano e di mettere a posto le coperte quando bussarono
alla
porta. «Polizia di New York, apra la porta». La
tazzina bianca mi sfuggì dalle
mani e si ruppe sul pavimento. «Apri la porta»
sussurrai sgattaiolando in
camera da letto chiudendo la porta dietro di me. Sentii il rumore della
porta
che si apriva. «Signorina Potter?». Non potevano
arrestarmi adesso, non dopo
tutto quello che avevo passato. «Si?». Mi guardai
attorno spaventato. «Sono il
commissario Emily Jefferson, mi farebbe entrare?». La
finestra? No, non potevo
richiuderla e non avevo nemmeno il giaccone.
«Certamente». Il giaccone! Era
rimasto sull’attaccapanni in salotto! «Aspettava
qualcuno?». Sotto il letto?
No, era il posto più insulso che si potesse trovare.
«Si, il mio fidanzato, ma
mi ha appena chiamato per dirmi che non verrà».
Viki era un’attrice fantastica,
quasi quasi ci credevo anch’io. «Non l’ha
presa bene a quanto vedo». L’armadio?
No, era impossibile infilarsi dentro. «Oh, quella
l’ho rotta per sbaglio, stavo
per mettere a posto quando ha bussato». Mi guardai in giro
come una bestia
braccata. «Senta… cosa vuole da me?».
Viki andava diretta al punto, avrebbe
potuto guadagnare ancora qualche minuto… «Conosce
Matt Collins?». Non poteva
finire così. «Si, siamo stati fidanzati per circa
un anno, ma ci siamo lasciati
due mesi fa’. Perché?». Mi girai verso
un angolo dove Viki teneva una
gigantesca montagna di peluche. «E quando l’ha
visto l’ultima volta?». Un’idea
mi balzò alla mente. «Credo un mese fa, quando
sono andata a casa sua per
prendere alcune cose che avevo lasciato lì.
Perché?». Dovevo sbrigarmi. «Posso
dare un’occhiata alla casa?». Stava per arrivare!
«Emm… certo». Finito.
Spalancai la porta
della camera da letto guardandomi attorno attentamente. Quella specie
di oca mi
seguiva timorosa e confusa, se stava mentendo lo sapeva fare
maledettamente
bene. «Scusi il disordine commissario»
tentò di giustificarsi la donna ma la
zittii con un gesto brusco. Mi chinai ad osservare sotto il letto ed
aprii
l’armadio, la finestra era chiusa dall’interno.
Sospettosa passai al bagno ma
anche lì non c’era nessuno. Ritornai in soggiorno
leggermente delusa. «Niente»
commentai. «Mi vuole spiegare cosa sta succedendo?»
strepitò alla fine l’oca.
«Collins è un assassino, se lo incontrasse non
esiti a chiamarci». Gli occhi
verdi si riempirono di meraviglia. Se stava mentendo lo sapeva fare
maledettamente bene. «C-certo» balbettò
spaventata. «Buona giornata» dissi
avviandomi verso la porta. Alla fine notai un particolare sospetto.
«Di chi è
questa giacca?». Negli occhi verdi della donna
passò un lampo di paura, durò un
millesimo di secondo, ma mi bastò. «È
del mio ragazzo, lo avrà scordato qui»
balbettò incerta. Non era poi così brava.
«Capisco» mormorai aprendo la porta e
uscendo nella tormenta.
Quando Viki chiuse
la porta respirai rumorosamente. La rossa entrò come una
furia in camera
chiamandomi a gran voce. «Calma, sono qui» risposi
riemergendo dalla montagna
di peluche sotto la quale mi ero nascosto. «Ho avuto
paura». «Sapessi io»
commentai ironico. Poi notai che una delle fasciature agli avambracci
si era
strappata. «Emm… Viki… non è
che avresti delle bende?».
La rossa mi
condusse in bagno e sbendò le mie braccia.
«Gesù Matt! Cosa ti sei fatto?»
chiese inorridita osservando l’incisione. «Me lo
sono inciso prima di… non so
cosa significa» risposi evasivo.
«Aspetta!» esclamò Viki vincendo la
repulsione
e fissando meglio il simbolo. «Io questo disegno
l’ho già visto».
«Dove?» urlai
eccitato. «Bhè… dove lavoro, al museo
archeologico». «Che
cos’è?». «Non lo so,
credo un dio Incas, o Maya». «Un dio
Maya?» ripetei incredulo. «Credo»
precisò
lei. «Viki, devi portarmi immediatamente al museo, dobbiamo
scoprire cosa vuol
dire questo simbolo». Lei mi fissò a lungo,
un’espressione incerta dipinta sul
volto. «Ti prego» insistetti io «Oh
bhè… tanto ormai la pasta si è
raffreddata».
Esultai. «Ma non puoi uscire così… ti
riconoscerebbero subito, ormai la tua
foto è ovunque!». «Cosa consigli di
fare?». Viki borbottò qualcosa
accarezzandomi i capelli, poi si illuminò «Lascia
fare a me!»
Entrai
nell’ufficio
fischiettando, allegro come al solito. Afferrai al volo il pallone da
basket e
feci alcuni palleggi godendomi la solitudine. Emily era in giro e Rose
aveva il
giorno libero. Dopo una serie di giochetti con il pallone tirai
finalmente a
canestro. La palla sbatté sul ferro e rotolò
dietro la scrivania di Rose.
Imprecando feci il giro della scrivania per recuperarla e fu allora che
vidi
Rose. Era accucciata per terra, in lacrime. La scena mi
spiazzò, non ero
decisamente preparato. «Ehi Rose! Chi è
morto?» scherzai accucciandomi accanto
a lei. La mia amica non si degnò nemmeno di guardarmi e
continuò a
singhiozzare. «Rose! Cos’è
successo?» chiesi sinceramente preoccupato
accarezzandole una guancia. «N-niente»
singhiozzò lei tra le lacrime. «Rose…
con me puoi parlare» la rassicurai carezzandole una guancia.
Lei non si
sottrasse dalla mia presa, evidentemente voleva essere consolata.
«Cosa è
successo? Rose devi dirmelo se vuoi che ti aiuti!» sussurrai
con dolcezza.
«E-e-emily» balbettò lei.
“Cosa può essere successo?” pensai
sorpreso. “Non capisco
come possano aver litigato quelle due”. «Cosa ha
fatto?». Rose riuscì a
prendere un profondo respiro e mi spiegò «Ho
risolto il caso ed Emily si è
presa il merito». Tutto si congelò per qualche
istante. «Che cosa?». «È la
verità». Mi alzai di scatto «Scusami un
attimo, vado a spaccarle le faccia»
dissi con fare risoluto. «No!» mi fermò
Rose disperata. Mi girai e la fissai
con occhi di fuoco «Cosa ci fai ancora qui?». Lei
mi guardò smarrita. «Perché
non stai andando da lei ad affrontarla? Perché stai solo
piangendo?». Lo shock
per Rose era stato talmente forte da farla smettere di piangere. Adesso
poteva
o esplodere contro di me e rimettersi a piangere, oppure trovare la
forza di
affrontare Emily. Dovevo solo incanalare le sue energie nella giusta
direzione.
«Quello che ha fatto Emily è gravissimo, non puoi
e non devi piangerti addosso,
devi solo affrontarla» le spiegai in tono duro. Odiavo
recitare quella parte ma
a volte un bello schiaffo morale serve più di mille
consolazioni. Perché essere
amici vuol dire anche questo. «Cosa sta aspettando?
Muoviti!» urlai irato. Rose
si alzò e si asciugò le lacrime.
«Ruphert, vai sul sito della polizia.
C’è una
lista delle associazioni e dei club registrati di tutta la
città, cerca la
società “Quetnitlan”, come simbolo ha il
serpente a due teste. Troverai
l’indirizzo e tutto, te ne occupi tu?».
«Conta su di me» risposi serio. «Io
vado a cercare Emily» disse determinata uscendo
dall’ufficio. Sospirai
sedendomi alla scrivania e accendendo il computer. “Non mi ha
nemmeno
ringraziato, vabbè pazienza. L’importante
è che quelle due si chiariscano”.
Le scarpe da
ginnastica sprofondavano nella neve ormai troppo alta, facendo entrare
freddo
ad ogni passo. «Manca ancora molto, mi sto
congelando» mi lamentai mettendo le
mani sotto le ascelle per riscaldarle. «Siamo
arrivati» rispose Viki al mio
fianco. Entrammo in un’anonima porticina che non avrei
nemmeno notato se fossi
stato da solo. «Ciao George, devo parlare con il professor
Flint. Questo
ragazzo è con me». «Passa pure
Viki» rispose l’anziano agente di polizia.
Quando ci passai accanto un lungo brivido di terrore mi percorse la
schiena. Il
poliziotto aveva sicuramente visto la mia foto in giro e non ero sicuro
che un
paio di occhiali vecchi e i capelli tinti di un appariscente biondo
platino
potessero bastare. «Sei troppo rigido, sciogliti un
po’ o ci farai scoprire» mi
sussurrò Viki con discrezione. Immediatamente sciolsi i
muscoli delle spalle e
del collo e tentai una camminata più naturale. La rossa
alzò gli occhi al cielo
esasperata ma non disse niente.
Il professor Flint
era un uomo alto e dinoccolato, con una pelata scintillante e le
braccia
innaturalmente lunghe. «Victoria! Oggi non è il
tuo giorno libero?» esclamò il
professore raggiante. «E chi è il tuo
amico?» curiosò poi rivolto a me. «Un
mio
amico, appassionato di mitologia Maya, che avrebbe tanto voluto
parlarle»
rispose angelicamente Viki. La adorai, sapeva esattamente come giocare
le sue
carte. «Bhè, gli amici di Victoria sono miei
amici, cosa vorresti chiedermi?»
acconsentì Flint senza esitazione. «Ho sentito
parlare di una divinità Maya
particolare, un serpente a due teste». Il volto del
professore si illuminò.
«Quetnitlan! Pochi lo conoscono! Vieni, te lo faccio
vedere». Detto questo
accompagnò me e Viki in una stanza adiacente alla prima e ci
mostrò un
bassorilievo. Il mio cuore perse un battito. Davanti a me
c’era il serpente a
due teste, quello che mi ero inciso sugli avambracci. «Questo
è Quetnitlan, il
serpente a due teste» esordì.
«È il fratello minore di Quezcolat, il serpente
piumato protettore della vita, e a differenza del fratello cura la
morte.
Secondo la credenza Maya questo serpente aveva una testa nel nostro
mondo e una
nel regno dei morti. Quando una persona moriva Quetnitlan apriva
entrambe le sue
fauci e l’anima passava attraverso il serpente
nell’altro mondo». Osservai
affascinato il bassorilievo. «Ed erano
legati dei sacrifici umani a lui?» chiesi avido.
«Naturalmente» rispose il
professore mostrandoci un secondo bassorilievo che mostrava un
sacrificio.
Oltre alla vittima c’erano due persone, una con una grande
maschera piumata e
l’altra che stava uccidendo la vittima. «Vi spiego
cosa sta succedendo, la
vittima viene uccisa recidendo le arterie polmonari, in modo che la
morte sia
il più lenta possibile. Più è lenta
l’agonia più è lungo il tempo che
Quetnitlan tiene aperte le fauci. In questo lasso di tempo
l’oracolo può vedere
il regno dei morti, parlare con loro e farsi dire il futuro, tutto
attraverso
il serpente». «Non è l’oracolo
a compiere l’omicidio?» osservò Viki
perplessa.
«Oh no!» esclamò Flint come se avessimo
detto un’eresia. «L’oracolo non deve
macchiarsi mai del crimine. Di solito delega questo compito ad una
persona a
caso, dalla folla. Questa persona viene fatto entrare in trance e
diventa
l’esecutore materiale dell’omicidio, ma prima di
uccidere l’esecutore si incide
sugli avambracci il simbolo di Quetnitlan». Io e Viki ci
guardammo
terrorizzati. «E… e cosa succede
all’esecutore quando… quando ha compiuto il
sacrificio?». Chiesi timoroso. «Di solito si
suicida» disse il professore con
noncuranza. «Nei rari casi che l’esecutore
sopravviva diventa un Garganta,
un soggetto da eliminare».
Controllai ancora
una volta l’indirizzo prima di entrare. Ero nel posto giusto.
Mi calai bene il
cappello di lana sulle orecchie facendo sfuggire solo qualche ciocca
rossa.
Suonai ad un campanello a caso «Chi è?»
chiese una voce alta e stridula.
«Posta» mentii pronto. La porta si aprì
all’istante ed entrai sottraendomi al
gelo. Dall’ascensore si diramavano due strade, una che
portava alle scale e un
altro più grande che conduceva a due appartamenti. Su una
delle porte notai il
simbolo di Quetni…coso. Suonai con decisione e aspettai una
risposta. Notai che
il campanello posizionato fuori dalla porta non somigliava minimamente
a quello
di un’abitazione, anzi. Era provvisto di telecamera e
rilevatore di impronte
digitali. Studiai bene anche la porta, era blindata. Tutta quella
sicurezza era
sospetta. «Cosa cerca?» chiese una voce sepolcrale
alle mie spalle. Sobbalzai
spaventato. Un uomo abbronzato con folti capelli neri e gli zigomi
fortemente
pronunciati era spuntato dalla porta alle mie spalle e mi stava
fissando con i
suoi profondi ed imperscrutabili occhi neri colmi di disprezzo.
«Cosa cerca?»
ripeté lui spazientito visto che non mi decidevo a
rispondere. Mi riscossi
dalla sorpresa. «Buongiorno, mi chiamo Ruphert
Alman» mi presentai simulando
allegria. «Questo non risponde alla mia domanda»
osservò l’uomo freddo. «Emm…
certo…» balbettai disorientato «Sono
venuto per chiedere qualche informazione
sul club… mi hanno detto che la sua sede è qui ed
io…» lasciai la frase in
sospeso. L’uomo mi scrutò ancora di più
con i suoi occhi acquosi, come per
esaminarmi. «Mi segua» disse con voce calma e
misurata. L’uomo posò il pollice
sul rilevatore di impronte che si illuminò di luce verde
dopo pochi secondi, la
porta si aprì silenziosa. Entrammo in una saletta piccola ed
austera, arredata
con una semplice scrivania, due sedie ed un piccolo schedario
metallico.
«Certo, me la immaginavo un po’
più… colorata» osservai allegro.
L’uomo mi
osservò con disprezzo, senza raccogliere la battuta.
«Questa è solo
l’anticamera, solo i soci possono accedere ai locali
riservati» spiegò
indicando una semplice porta che era passata inosservata fino ad
allora. «Cosa
desidera sapere?» mi chiese sedendosi alla scrivania.
«Come posso diventare
socio?» chiesi senza esitazioni. «Innanzitutto deve
dimostrare una parentela
Maya, senza la quale non può essere ammesso, poi deve
compilare questo modulo»
spiegò cortese ma freddo mettendomi sotto il naso un foglio
pieno di domande.
Ne lessi alcune mentalmente. “Chi è Quetnitlan?
Chi è Quezcolat? Quali
differenze c’erano tra i due culti? Qual’era la
maschera rituale degli
oracoli?”. Fissai con sguardo interrogativo l’uomo.
«La prima parte è un test
di cultura Maya, se si commette anche un solo errore non si
può essere
ammessi». Annuii pensieroso mentre voltavo il foglio e
leggevo le altre
domande. “Qual è il suo colore preferito? Qual
è il suo piatto preferito? È
credente?”. «La seconda parte è invece
un test comportamentale, anche qui
osserviamo parametri molto severi» mi illustrò
l’uomo. «Accidenti… non ci
saranno molte persone che riescono a superare il test
d’ingresso… Quanti soci
avete?» buttai lì come una battuta.
«Abbastanza» rispose l’uomo impassibile.
«Abbastanza per cosa?» insistetti curioso.
«Lei non vuole iscriversi al nostro
club… ispettore Alman. Per cosa siamo sospettati?»
mi chiese glaciale l’uomo.
Mi sfuggì un’imprecazione sottovoce.
«Non si preoccupi, anche se mi avesse dato
un nome falso l’avrei riconosciuta, l’ho vista
diverse volte in televisione» mi
rassicurò lui con un tono leggermente ironico.
«Non sono preoccupato e
tantomeno in incognito. Ero sinceramente interessato ad iscrivermi al
vostro
club» mentii tentando di rigirare la situazione.
«La prego ispettore di non
insultare la mia intelligenza, so benissimo che lei ha origini
irlandesi come
qualsiasi idiota potrebbe intuire dalla sua carnagione e dai suoi
capelli, e so
anche che non è un uomo interessato alla storia o alla
mitologia avendola
vista, come ho già accennato, diverse volte in
televisione». Deglutii a vuoto,
quell’uomo era davvero impressionante, ma c’era
qualcosa in lui che mi
attirava. «Ora, per dimostrarle che né io
né il mio club abbiamo niente da
nascondere alla polizia per qualunque motivo lei sia venuto, la invito
a fare
un giro all’interno delle stanze riservate ai soci,
nonostante lei non abbia un
mandato». Lo guardai stupito «Come… come
fa a sapere che non ho un mandato?».
«Lei continua ad insultarmi» sospirò
l’uomo «Se avesse avuto un mandato non le
sarebbe servito tutto questo teatrino». Mi diedi dello
stupido, ma quell’uomo
riusciva a confondermi. Lui si alzò ed aprì la
porta lasciandomi intravedere
una stanza sfarzosa e riccamente decorata prima di rivolgermi di nuovo
la
parola. «Oh! Tra parentesi, il mio nome è
Estéban Garcia».