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Autore: Kronos333    24/11/2009    0 recensioni
In una New York stretta da un gelo polare misteriosi omicidi si susseguono. Persone apparentemente normali diventano atroci assassini e uccidono altra gent comune. Cosa c'è dietro tutto questo? Toccherà a Rose McDemos, insieme alla sua squadra di polizia e a Matt Collins, involontario assassino, scoprire un'orribile verità che affonda le sue radici nella mitologia e nella follia.
Genere: Azione, Thriller, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La neve scendeva gelata congelandomi anche le ossa. Mi scostai il ciuffo di capelli neri dagli occhi e misi le mani inguantate nelle tasche del piumino nero insufficiente a difendermi dal freddo. La casa di Eva, la medium consigliatami da mio fratello era nella zona residenziale. Le case erano piccole villette a due piani ognuna con il proprio giardino. In estate avrebbero dovuto essere bellissime, ma tra la nebbia e la neve gettavano i passanti in un’atmosfera da romanzo gotico per nulla rassicurante. Arrivai alla casa giusta e suonai il campanello, sempre meno sicuro di quello che stavo facendo. Nessuna risposta. Forse ero ancora in tempo per tornare indietro. Proprio mentre formulavo questo pensiero la porta si aprì rivelando una donna anziana costretta su un’antiquata sedia a rotelle. Gli occhi erano lattiginosi e spalancati verso il vuoto. Era cieca. «Cosa cerchi da Eva?» chiese con una voce che ricordava il cigolio di una vecchia porta male oliata. «Emm… Posso, posso entrare?» chiesi esitante. «Certo, perché congelarsi qua fuori quando possiamo stare dentro al calduccio? Ti spiacerebbe spingere questa sedia figliolo? È terribilmente pesante». «Certo» risposi prontamente. Solo allora mi accorsi che la sedia di Eva non aveva i comandi per muoversi automaticamente. La casa sembrava esser rimasta qualche secolo indietro; tutto, dai mobili alla pesante stufa di ghisa, unica fonte di riscaldamento, era vecchio e antiquato. Persino i vestiti della padrona di casa sembravano usciti da un negozio di antiquariato. La donna indossava infatti un vestito lungo e ampio, con un corsetto stretto e un alto collo di pizzo. Arrivati al soggiorno, una stanza circolare con le finestre oscurate da pesanti drappi neri ed un tavolino a tre gambe, Eva mi fermò con un brusco gesto della mano. Mi sorprese, non credevo che avesse tanta energia, ma del resto se viveva da sola e si spingeva da sola su quella pesantissima sedia a rotelle doveva avere altre doti nascoste. «Cosa cerchi da me?» chiese nuovamente Eva. « Devo riuscirmi a ricordare una cosa che mi è successa» dissi mantenendomi vago. «Una persona non viene da me per sciocchezze del genere!» sbotto la vecchia irritata «Sai come mi chiamano? L’ultima spiaggia». Senza motivo un lungo brivido mi scosse la schiena. Dovevo essere sincero «Ieri sera sono caduto in una specie di trance ed ho ucciso un uomo, ma non ricordo bene i particolari dell’omicidio. Voglio scoprire cosa mi è successo». «Così va meglio» cantilenò la vecchietta. «C’è altro?». Esitai ancora un istante ma decisi di essere totalmente sincero. «Si. Prima di compiere l’omicidio mi sono inciso questo simbolo sugli avambracci» dissi svolgendo le bende che portavo attorno alle braccia. Eva mi prese gli avambracci e cominciò a tastarli. Mentre le sue mani callose e incartapecorite mi esaminavano il ghigno sul volto scomparve lentamente per far posto ad una smorfia di meraviglia. «Eva! Conosce questo simbolo? Cosa significa?» urlai strappando le mani dalla sua presa. «Calma giovanotto» mi impose lei con voce ferma, il tono cigolante con cui mi aveva accolto era totalmente scomparso. «Forse ho riconosciuto qualcosa e forse te lo dirò alla fine di quest’incontro» decise irremovibile. «Che cosa? Eva mi deve dire tutto quello che sa!» protestai. «Devo?» tuonò lei irata. Immediatamente il palloncino del mio astio scoppiò patetico. «Siediti» mi disse secca, obbedii. La donna accese l’incenso e tre candele, immediatamente l’aria fu satura di un insopportabile profumo dolciastro. «Dammi le mani» ordinò di nuovo lei. Obbedii senza fiatare. «Adesso ascoltami bene, stiamo per penetrare la tua memoria inconscia, non è una cosa facile ed ho bisogno di tutta la tua collaborazione. Ricordati che devi sempre restare calmo e per nessuna ragione devi disubbidirmi, io sarò sempre con te».

Libravo nell’oscurità più assoluta, senza nessun punto di riferimento. «Matt?» mi chiamò una voce cristallina. «Chi è?» chiesi spaventato. La voce rise, una risata fresca che ricordava il tintinnare dei campanelli.  «Ma come? Non mi riconosci? Sono Eva!». «Eva?» balbettai stranito. La ragazza rise di nuovo. Finalmente riuscii a vederla. Era una ragazza della mia stessa età, con lunghi capelli castani che le arrivavano alla vita e due grandi occhi verdi da cerbiatta. La ragazza mi fissò divertita «Bhè cosa c’è?». Non c’erano dubbi sulla sua identità, ma mi riusciva difficile far combaciare le due figure. «Sei pronto?» mi chiese lei più seria. «Certo» mentii io. «Allora andiamo!!!» esclamò lei prendendomi per mano e lanciandosi in un folle volo sopra la città misteriosamente apparsa sotto di noi. «Che città è questa?». Eva rise «La tua!». «Cosa?» chiesi senza capire. «In questo luogo sono custoditi tutti i tuoi ricordi… e la tua mente ce li presenta in forma di città». «Vuoi dire che siamo nel mio cervello?». «Non fisicamente» rise lei. «Dobbiamo trovare la tavola calda» mi ordinò. Gettai uno sguardo sotto di me e individuai subito l’edificio basso con la scritta al neon. «È quello!». «Bene!» esclamò Eva mentre mi prendeva per mano e mi trascinava verso il basso. Il nostro volo si fermò davanti alla porta che spinsi con decisione. Subito una forte ansia mi prese al petto. «Calmati Matt!» mi ordinò Eva al mio fianco «Respira. Devi mantenere la calma». Tentai di respirare più lentamente e l’oppressione al petto scomparve. «Osserva, vuoi vedere cosa è successo? Allora guarda» mi ordinò Eva con la sua voce cristallina. Vedevo bene, stavo semplicemente mangiando una bistecca e leggendo un libro da solo. «Signore le porto qualcosa?» mi chiese la cameriera. «Si, un caffè per favore». La scena sembrava normale. Mi guardai attorno stordito per esaminare gli altri clienti e notai che alcune zone erano delle macchie scure.  «Sono i punti che non hai visto, il tuo subconscio non può registrare informazioni che non hai visto» spiegò Eva impassibile senza distogliere lo sguardo dal me stesso seduto al tavolo. «Il suo caffè signore» disse la cameriera posandomi una tazza sul tavolo con delicatezza. Bofonchiai un grazie poco convinto. «Matt! Guarda!» mi avvertì Eva allarmata. Un uomo alto, dalla carnagione scura e avvolto in una lunga cerata con cappuccio si stava avvicinando a me con in mano uno strano sacchetto pieno di polvere bianca. «Chi è?» chiesi sospettoso. Il senso di oppressione al petto mi attanagliò di nuovo all’improvviso mozzandomi il respiro. Non avevo notato quell’uomo! Non avevo notato come mi versava nel caffè quella droga! Che idiota! «Respira Matt, calmati» mi sostenne Eva. Ma non ci riuscivo, il rimorso per l’ingenuità dimostrata era troppo grande. «Se non resisti non saprai cosa è successo dopo!» mi tentò la medium. In quel momento feci lo sforzo in più richiestomi e riuscii a controllarmi. «Cosa sta succedendo?» chiesi ad Eva. «Stai bevendo il caffè… guarda». Era vero, l’altro me stava bevendo il caffè e subito un forte tremito lo scosse. Afferrò velocemente il coltello e andò in bagno. «No!» urlai sconvolto. «Calmati Matt, resisti!». Ma ormai nemmeno la voce argentina di Eva riusciva a confortarmi. Mi accasciai a terra mentre il ristorante e tutta la città mi si scioglievano attorno.

Rinvenni ansimando. «No!» urlai ancora una volta alle pareti. Un violento schiaffo mi fece rinsavire completamente. «Ti ho ripreso per i capelli» commentò Eva, di nuovo tornata al suo aspetto terreno. «Hai rischiato di impazzire giovanotto». Mi guardai le mani mettendo gradualmente a fuoco i particolari. «Lei… lei conosce quell’uomo vero Eva?». «Apri le finestre ragazzo, c’è quest’odore d’incenso insopportabile». «Lei sta tentando di cambiare discorso, chi era quell’uomo» chiesi calmo. «Non sono ancora sicura di quello che ho visto, ho bisogno di tempo per riflettere ed analizzare» disse lei serafica. «Ma Eva! Io devo sapere!». «E saprai, ti chiedo solo di pazientare un altro giorno». La guardai sospettoso. «Tra un giorno esatto saprai la verità». Sospirai esasperato ma la vecchia era irremovibile. «Bene, domani alla stessa ora verrò qui» decisi.

La piccola macchina gialla sfrecciava per la città a velocità folle. «Ruphert! Vuoi forse finire nella cronaca nera alla velocità della luce?» urlò Emily nelle orecchie del rosso. Osservai bene la mia amica, era decisamente più nervosa del solito… strano visto che avevamo arrestato Collins. «Va bene, scusa» bofonchiò Ruphert offeso. Improvvisamente la canzone “All Star” risuonò nella macchina ed Emily iniziò a frugarsi in tasca alla ricerca del cellulare. Alla fine riuscì a rispondere «Emily Jefferson… Cosa?… Siete degli incapaci!… Come cosa? Mettete il palazzo sotto sorveglianza!… E interrogate tutti i suoi parenti e conoscenti, forse si rifugerà da qualcuno di loro… Voglio tutto questo fatto alla perfezione e lo voglio, ieri. Ci siamo capiti?». Alla fine della conversazione chiuse il telefono di scatto.  «Matt Collins non era in casa» ci comunicò furente. Fu un vero schiaffo morale per me. Ormai nella mia testa il caso della tavola calda era chiuso, chiuso grazie a me. Avevo dato per scontato che Collins si sarebbe fatto arrestare senza problemi. Scossi le spalle, io avevo fatto il mio lavoro, adesso toccava agli agenti di pattuglia trovarlo ed arrestarlo. Il pensiero mi confortò. Ruphert finalmente arrivò a destinazione, una piccola lavanderia a gettoni. Scendemmo tutti e tre dalla macchina stringendoci le braccia per riscaldarci. «Odio questo posto, stavo per andare a letto quando mi avete chiamato» si lamentò Ruphert. «Hanno chiamato noi perché hanno trovato un collegamento con il caso della tavola calda» spiegò la bruna entrando nel locale. Lì ci aspettava Garrett.  «Ciao Emily, lieto che tu sia qui» la salutò galante come al solito. Il commissario rispose con un grugnito. «Ruphert, principessa» salutò ancora rivolto a noi. «Cosa abbiamo?» chiese Emily brusca e irritata. «Hai presente l’omicidio alla tavola calda? Stessa cosa» riassunse l’ufficiale scientifico. «È stato Collins?» chiese Ruphert in un soffio. «No, c’è una differenza tra i due casi» rispose Garrett. «Cosa?» chiese Emily. «L’assassino si è suicidato subito dopo aver compiuto il delitto, si è conficcato il coltellino tascabile che ha usato per il delitto nell’occhio sinistro». Rabbrividii, il solo pensiero mi diede i brividi. «Come si chiamavano?». «Aghata McGonagall e Bruce Kane» rispose Garrett. Ringraziai e annotai i nomi sul mio quaderno azzurro.

Ruphert si chinò sul cadavere della donna. «Tre coltellate vicino al cuore, scommetto che hanno reciso le arterie polmonari» commentò il rosso. Rose gli si avvicinò e confermò la sua tesi. Io stavo guardando invece il corpo dell’uomo. Aveva gli avambracci incisi. Incuriosita guardai meglio, su entrambi gli avambracci era inciso il simbolo di un serpente. «Quindi ricapitoliamo… stesso identico modus operandi di Collins, ma non è stato lui». «Unica differenza è che qui l’assassino si è suicidato» puntualizzò Rose. Annuii infastidita, odiavo il fatto che Rose fosse sempre un passo avanti a me. I miei colleghi si chinarono sul corpo dell’uomo «La morte deve essere stata istantanea» commentò Ruphert. «Avete notato questo simbolo?» osservò Rose. «Si! Non c’è bisogno che voi due sottolineate l’ovvio!» sbottai io furiosa allontanandomi. I due si guardarono sconcertati. «Andiamo» ordinai. «Ma… non abbiamo ancora finito…» protestò Ruphert. «La scientifica ha già fatto tutti i rilievi necessari. Non discutete i miei ordini!» sbraitai furiosa fissandoli feroce. Ruphert mi restituì uno sguardo astioso, Rose no. I suoi grandi occhi nocciola erano preoccupati e confusi, non si spiegavano il mio comportamento. Non immaginava certo che era proprio lei la causa di tutto quello. La odiavo. Per la sua falsa ingenuità, per la sua falsa modestia, per la sua falsa fede. La odiavo. «Andiamo, ho sonno» sillabai gelida uscendo dalla lavanderia.

Ormai era notte fonda, la polizia sorvegliava la mia casa e non sapevo dove andare. Disperato presi la metro dirigendomi nell’unico posto che mi era venuto in mente. Da Marcus non potevo andare, ero sicuro che fosse stato lui a smascherarmi, quindi restava solo un’altra persona in tutta New York che forse avrebbe accettato la mia scomoda compagnia. Scesi dalla vettura di malavoglia e mi avviai vero la casa che conoscevo bene. Ci misi un po’ a suonare il campanello, alla fine il freddo fu più convincente di tutti i miei dubbi. Dopo qualche minuto sentii un trafficare di chiavi e chiavistelli e alla fine Victoria Potter, la mia ex ragazza, mi aprì.

Era da un pezzo passata la mezzanotte quando Matt suonò alla mia porta chiedendomi ospitalità per la notte. Era un sogno che si avverava! Era da un mese che volevo riconciliarmi con lui ma il mio orgoglio mi frenava sempre davanti al campanello di casa sua. Adesso finalmente era stato lui a fare il primo passo. Purtroppo non fu come me lo aspettavo. Matt si sedette sul mio divano color crema e mi raccontò tutte le sue ultime avventure. Rimasi ad ascoltarlo incantata. «Viki mi devi credere, non sono stato io ad uccidere quell’uomo» mi disse alla fine del lungo monologo fissandomi con i suoi profondi occhi neri. Leggermente sconvolta misi sul fuoco la teiera, niente mi schiariva bene la mente come una buona tazza di the nero con il miele. «Io ti credo Matt… ma come farai con la polizia?». «Devo scoprire cosa mi è successo, procurarmi delle prove concrete e poi potrò andare a costituirmi». Rimasi a guardarlo con i miei occhi verdi, ancora dubbiosa. «Ti chiedo solo ospitalità per la notte, domani me ne andrò… ti prego» mi supplicò lui. La teiera fischiò e andai in cucina a versare il the in due tazze e le portai in soggiorno. «Allora?» insistette lui. «Vado a prenderti delle coperte» acconsentii alla fine.

Sospirai di sollievo, Viki aveva accettato. E almeno per quella notte il problema “morte per congelamento” era scongiurato. La ragazza tornò in soggiorno con tre pesanti coperte che stese sul divano bianco. «Ti va bene dormire qui vero?». «Certo» risposi senza esitare, mi sarei accontentato anche dello zerbino pur di restare al caldo. Viki si sistemò un ricciolo rosso che le era finito davanti agli occhi portandoselo dietro l’orecchio in un gesto che conoscevo a memoria. «Sei bella come sempre» pensai ad alta voce. Lei sorrise e arrossì, ma non commentò. “Idiota! Sei venuto qui per dormire, non per riconquistarla” mi maledissi. Però era bella. La pelle bianca metteva in risalto i capelli rosso scuro e gli occhi verdi. Il corpo era generoso e proporzionato e la sua voce aveva una cadenza musicale. In ogni caso tra noi era finita, non avevo nessuna intenzione di riprovarci. «Sei fidanzato?» mi chiese improvvisamene lei mentre sistemava le coperte. «Emm… no» risposi esitante. Mi sembrò di vedere un sorriso illuminarle brevemente il viso. «Sai, ti sta bene la barba, ti dà un’aria da uomo vissuto» mi vezzeggiò sedendosi accanto a me. Mi toccai la barba incolta: era da due giorni che non mi rasavo. «Trovi?» dissi tentano di apparire gioviale. «Si, mi piace» replicò lei in tono sensuale. Tentai di simulare una risata. «In questi giorni fa davvero freddo non trovi?». «Troppo per dormire da soli» ribatté lei guardandomi negli occhi. Le sue labbra carnose si avvicinarono pericolosamente alle mie. Riuscivo ad avvertire il profumo piccante ed esotico della sua pelle. I capelli rossi mi sfiorarono la fronte e i nostri nasi si sfiorarono. Il mondo sembrava con il fiato sospeso. Le nostre labbra si sfiorarono in un bacio casto. «No!» urlai allontanandomi da lei di scatto. «Non sono qui per questo». Viki mi fissò delusa. «Sei un idiota, certi treni passano una sola volta». «Credo che questo treno non sia il mio» replicai serio. «Viki, mi dispiace, ma non ha funzionato, e non vedo perché dovrebbe funzionare questa volta». Lei abbassò lo sguardo delusa «Forse hai ragione». La rossa si alzò lentamente guardandomi un’ultima volta. Io abbassai lo sguardo per non incrociare quegli occhi verdi pieni di delusione. Dovevo essere impazzito, solo due giorni prima avrei dato il mio braccio destro pur di rimettermi con lei e ora…

Rose si alzò di cattivo umore. Aveva dormito poco e male, e lo strano comportamento di Emily continuava a tornarle alla mente. “Cosa ho fatto di male?” continuava a ripetersi la ragazza. Perché di questo Rose era sicura, Emily era arrabbiata con lei. Aprì la doccia e si gettò sotto l’acqua bollente, uno dei pochi piaceri che veramente si concedeva. Restò sotto l’acqua almeno una decina di minuti, poi uscì avvolgendosi nel morbido accappatoio di spugna, asciugò con cura i lunghi capelli e si vestì con calma. Era il suo giorno libero. Una volta indossati dei morbidi pantaloni di tuta azzurri e una maglietta con le maniche lunghe dello stesso colore si sedette alla scrivania ed accese il portatile. Tutta la notte era stata tormentata da quello strano pensiero fisso, il serpente a due teste. Quell’inquietante simbolo aveva popolato i suoi sogni e le era entrato nell’anima. Inserì nel database della polizia e nel motore di ricerca la parola “serpente a due teste”. Nessun risultato. Rose sorrise, non si aspettava certo di trovare quello che cercava così facilmente. Inserì le parole anche nel motore di ricerca, i primi risultati facevano riferimento all’Idra, il mostro della mitologia greca e ad alcuni serpenti con mutazioni genetiche. Rose scosse la testa e modificò la parola da cercare. “Serpente bifronte”. Anche questa non diede risultati. Rose fu presa da un’illuminazione: “Serpente bifronte mitologia”. Niente. Rose si scostò una ciocca di capelli dagli occhi e sbuffò. “Forse dovrei ampliare la ricerca” pensò annoiata. “Serpente mitologia”.

Subito apparsero diversi risultati. Rose scorse attentamente la lista e alla fine scelse quello del museo nazionale.

SERPENTE: nella mitologia e nel folclore mondiale, rettile che, a volte, assume valenze positive e benigne, altre, demoniache. Nelle credenze ebraiche e cristiane, il serpente e spesso associato al diavolo.Recitava la prima parte. Rose interessata continuò a leggere, se non altro avrebbe imparato qualcosa. “Nella Genesi (3: 1) il serpente viene descritto come «la più astuta delle bestie selvatiche fatte dal Signore Dio»… Secondo il Libro dei Numeriantico Egitto, il serpente-mostro Apepsimbolo di rinascita e guarigionela dea sumera Inannagenerato dal dio del male Loki”. Rose continuò a leggere per diverse ore fino a quando non si abbatté in una cosa che la fece sobbalzare. Ogni paragrafo era accompagnato da un’illustrazione, e quella che stava fissando era proprio l’illustrazione, il simbolo che l’assassino si era segnato sugli avambracci. Accanto all’immagine c’erano tre brevi righe di spiegazione. “Quetnitlan era il serpente guardiano dei morti nella mitologia Maya, sono in pochi a conoscere il vero significato di questo dio pagano e i riti legati al suo culto, in mancanza di fonti attendibili preferiamo non riportare altre notizie”. Rose fissò impietrita lo schermo del computer. Il dio dei morti. Ma perché l’assassino si era inciso sugli avambracci il simbolo di una divinità Maya? Non importava, ora che era in possesso del nome poteva fare una ricerca approfondita. Tornò al motore di ricerca principale e digitò il nome di Quetnitlan. Il primo risultato era del sito della polizia. Rose ci cliccò immediatamente sopra. Il link portava ad una pagina in sfondo giallo con l’elenco di tutte le società registrate della città di New York. Le fu richiesta una password che la ragazza inserì senza esitare. Scorse l’elenco fino alla voce “Quetintlan” e cliccò sul nome. “Quetnitlan, circolo di lettura e club esclusivo per persone che abbiano una verificabile discendenza Maya”. Rose stampò la pagina, si vestì ed uscì in tutta fretta… e pazienza per il suo giorno libero.

Arrivai alla centrale a tempo di record, sembrava che anche i mezzi pubblici volessero aiutarmi. Mi precipitai verso il mio ufficio ma intercettai qualche parola di una conversazione fatta da un gruppetto di agenti. «Certo che è stata proprio brava… risolvere il caso in così poco tempo». Mi sollevai di qualche palmo da terra: stava parlando di me! «In effetti non si capisce perché sia così di cattivo umore, dovrebbe essere contenta». “Cosa? Io non sono di cattivo umore?”. «Già… chi la capisce è bravo. Ma dopotutto è il nostro Commissario, ed è la migliore che abbiamo mai avuto». Il mondo mi crollò addosso. Ecco perché Emily era così di cattivo umore, ecco perché mi trattava così. Si era presa lei il merito della soluzione del caso. Mi aveva tradita per gelosia, per invidia. I fogli delle mie ricerche mi sfuggirono di mano e caddero sul pavimento blu. Giallo su blu.

Quando mi alzai era già passato mezzogiorno. «Buongiorno» trillò Viki mentre armeggiava ai fornelli. «Che ore sono?» chiesi stordito. «Ora di pranzo» esclamò la ragazza mettendo la pentola di pasta sul tavolo già apparecchiato. «Ero sicura che ti saresti svegliato, i miei spaghetti fanno alzare anche i morti». Sorrisi, ricordavo bene la cucina di Viki. «Aspetta, prima ti sistemo il divano» mi offrii. «Lascia lascia, tu piuttosto bevi un po’ di caffè che mi sembri ancora addormentato» scherzò lei. «Ma…» protestai. «Fila!» mi ordinò Viki «Ormai deve essere freddo ma sarà meglio di niente». Decisi di abbassare il muro difensivo, del resto avevo tanta voglia di essere coccolato. Viki finì di sistemare il divano e di mettere a posto le coperte quando bussarono alla porta. «Polizia di New York, apra la porta». La tazzina bianca mi sfuggì dalle mani e si ruppe sul pavimento. «Apri la porta» sussurrai sgattaiolando in camera da letto chiudendo la porta dietro di me. Sentii il rumore della porta che si apriva. «Signorina Potter?». Non potevano arrestarmi adesso, non dopo tutto quello che avevo passato. «Si?». Mi guardai attorno spaventato. «Sono il commissario Emily Jefferson, mi farebbe entrare?». La finestra? No, non potevo richiuderla e non avevo nemmeno il giaccone. «Certamente». Il giaccone! Era rimasto sull’attaccapanni in salotto! «Aspettava qualcuno?». Sotto il letto? No, era il posto più insulso che si potesse trovare. «Si, il mio fidanzato, ma mi ha appena chiamato per dirmi che non verrà». Viki era un’attrice fantastica, quasi quasi ci credevo anch’io. «Non l’ha presa bene a quanto vedo». L’armadio? No, era impossibile infilarsi dentro. «Oh, quella l’ho rotta per sbaglio, stavo per mettere a posto quando ha bussato». Mi guardai in giro come una bestia braccata. «Senta… cosa vuole da me?». Viki andava diretta al punto, avrebbe potuto guadagnare ancora qualche minuto… «Conosce Matt Collins?». Non poteva finire così. «Si, siamo stati fidanzati per circa un anno, ma ci siamo lasciati due mesi fa’. Perché?». Mi girai verso un angolo dove Viki teneva una gigantesca montagna di peluche. «E quando l’ha visto l’ultima volta?». Un’idea mi balzò alla mente. «Credo un mese fa, quando sono andata a casa sua per prendere alcune cose che avevo lasciato lì. Perché?». Dovevo sbrigarmi. «Posso dare un’occhiata alla casa?». Stava per arrivare! «Emm… certo». Finito.

Spalancai la porta della camera da letto guardandomi attorno attentamente. Quella specie di oca mi seguiva timorosa e confusa, se stava mentendo lo sapeva fare maledettamente bene. «Scusi il disordine commissario» tentò di giustificarsi la donna ma la zittii con un gesto brusco. Mi chinai ad osservare sotto il letto ed aprii l’armadio, la finestra era chiusa dall’interno. Sospettosa passai al bagno ma anche lì non c’era nessuno. Ritornai in soggiorno leggermente delusa. «Niente» commentai. «Mi vuole spiegare cosa sta succedendo?» strepitò alla fine l’oca. «Collins è un assassino, se lo incontrasse non esiti a chiamarci». Gli occhi verdi si riempirono di meraviglia. Se stava mentendo lo sapeva fare maledettamente bene. «C-certo» balbettò spaventata. «Buona giornata» dissi avviandomi verso la porta. Alla fine notai un particolare sospetto. «Di chi è questa giacca?». Negli occhi verdi della donna passò un lampo di paura, durò un millesimo di secondo, ma mi bastò. «È del mio ragazzo, lo avrà scordato qui» balbettò incerta. Non era poi così brava. «Capisco» mormorai aprendo la porta e uscendo nella tormenta.

Quando Viki chiuse la porta respirai rumorosamente. La rossa entrò come una furia in camera chiamandomi a gran voce. «Calma, sono qui» risposi riemergendo dalla montagna di peluche sotto la quale mi ero nascosto. «Ho avuto paura». «Sapessi io» commentai ironico. Poi notai che una delle fasciature agli avambracci si era strappata. «Emm… Viki… non è che avresti delle bende?».

La rossa mi condusse in bagno e sbendò le mie braccia. «Gesù Matt! Cosa ti sei fatto?» chiese inorridita osservando l’incisione. «Me lo sono inciso prima di… non so cosa significa» risposi evasivo. «Aspetta!» esclamò Viki vincendo la repulsione e fissando meglio il simbolo. «Io questo disegno l’ho già visto». «Dove?» urlai eccitato. «Bhè… dove lavoro, al museo archeologico». «Che cos’è?». «Non lo so, credo un dio Incas, o Maya». «Un dio Maya?» ripetei incredulo. «Credo» precisò lei. «Viki, devi portarmi immediatamente al museo, dobbiamo scoprire cosa vuol dire questo simbolo». Lei mi fissò a lungo, un’espressione incerta dipinta sul volto. «Ti prego» insistetti io «Oh bhè… tanto ormai la pasta si è raffreddata». Esultai. «Ma non puoi uscire così… ti riconoscerebbero subito, ormai la tua foto è ovunque!». «Cosa consigli di fare?». Viki borbottò qualcosa accarezzandomi i capelli, poi si illuminò «Lascia fare a me!»

Entrai nell’ufficio fischiettando, allegro come al solito. Afferrai al volo il pallone da basket e feci alcuni palleggi godendomi la solitudine. Emily era in giro e Rose aveva il giorno libero. Dopo una serie di giochetti con il pallone tirai finalmente a canestro. La palla sbatté sul ferro e rotolò dietro la scrivania di Rose. Imprecando feci il giro della scrivania per recuperarla e fu allora che vidi Rose. Era accucciata per terra, in lacrime. La scena mi spiazzò, non ero decisamente preparato. «Ehi Rose! Chi è morto?» scherzai accucciandomi accanto a lei. La mia amica non si degnò nemmeno di guardarmi e continuò a singhiozzare. «Rose! Cos’è successo?» chiesi sinceramente preoccupato accarezzandole una guancia. «N-niente» singhiozzò lei tra le lacrime. «Rose… con me puoi parlare» la rassicurai carezzandole una guancia. Lei non si sottrasse dalla mia presa, evidentemente voleva essere consolata. «Cosa è successo? Rose devi dirmelo se vuoi che ti aiuti!» sussurrai con dolcezza. «E-e-emily» balbettò lei. “Cosa può essere successo?” pensai sorpreso. “Non capisco come possano aver litigato quelle due”. «Cosa ha fatto?». Rose riuscì a prendere un profondo respiro e mi spiegò «Ho risolto il caso ed Emily si è presa il merito». Tutto si congelò per qualche istante. «Che cosa?». «È la verità». Mi alzai di scatto «Scusami un attimo, vado a spaccarle le faccia» dissi con fare risoluto. «No!» mi fermò Rose disperata. Mi girai e la fissai con occhi di fuoco «Cosa ci fai ancora qui?». Lei mi guardò smarrita. «Perché non stai andando da lei ad affrontarla? Perché stai solo piangendo?». Lo shock per Rose era stato talmente forte da farla smettere di piangere. Adesso poteva o esplodere contro di me e rimettersi a piangere, oppure trovare la forza di affrontare Emily. Dovevo solo incanalare le sue energie nella giusta direzione. «Quello che ha fatto Emily è gravissimo, non puoi e non devi piangerti addosso, devi solo affrontarla» le spiegai in tono duro. Odiavo recitare quella parte ma a volte un bello schiaffo morale serve più di mille consolazioni. Perché essere amici vuol dire anche questo. «Cosa sta aspettando? Muoviti!» urlai irato. Rose si alzò e si asciugò le lacrime. «Ruphert, vai sul sito della polizia. C’è una lista delle associazioni e dei club registrati di tutta la città, cerca la società “Quetnitlan”, come simbolo ha il serpente a due teste. Troverai l’indirizzo e tutto, te ne occupi tu?». «Conta su di me» risposi serio. «Io vado a cercare Emily» disse determinata uscendo dall’ufficio. Sospirai sedendomi alla scrivania e accendendo il computer. “Non mi ha nemmeno ringraziato, vabbè pazienza. L’importante è che quelle due si chiariscano”.

Le scarpe da ginnastica sprofondavano nella neve ormai troppo alta, facendo entrare freddo ad ogni passo. «Manca ancora molto, mi sto congelando» mi lamentai mettendo le mani sotto le ascelle per riscaldarle. «Siamo arrivati» rispose Viki al mio fianco. Entrammo in un’anonima porticina che non avrei nemmeno notato se fossi stato da solo. «Ciao George, devo parlare con il professor Flint. Questo ragazzo è con me». «Passa pure Viki» rispose l’anziano agente di polizia. Quando ci passai accanto un lungo brivido di terrore mi percorse la schiena. Il poliziotto aveva sicuramente visto la mia foto in giro e non ero sicuro che un paio di occhiali vecchi e i capelli tinti di un appariscente biondo platino potessero bastare. «Sei troppo rigido, sciogliti un po’ o ci farai scoprire» mi sussurrò Viki con discrezione. Immediatamente sciolsi i muscoli delle spalle e del collo e tentai una camminata più naturale. La rossa alzò gli occhi al cielo esasperata ma non disse niente.

Il professor Flint era un uomo alto e dinoccolato, con una pelata scintillante e le braccia innaturalmente lunghe. «Victoria! Oggi non è il tuo giorno libero?» esclamò il professore raggiante. «E chi è il tuo amico?» curiosò poi rivolto a me. «Un mio amico, appassionato di mitologia Maya, che avrebbe tanto voluto parlarle» rispose angelicamente Viki. La adorai, sapeva esattamente come giocare le sue carte. «Bhè, gli amici di Victoria sono miei amici, cosa vorresti chiedermi?» acconsentì Flint senza esitazione. «Ho sentito parlare di una divinità Maya particolare, un serpente a due teste». Il volto del professore si illuminò. «Quetnitlan! Pochi lo conoscono! Vieni, te lo faccio vedere». Detto questo accompagnò me e Viki in una stanza adiacente alla prima e ci mostrò un bassorilievo. Il mio cuore perse un battito. Davanti a me c’era il serpente a due teste, quello che mi ero inciso sugli avambracci. «Questo è Quetnitlan, il serpente a due teste» esordì. «È il fratello minore di Quezcolat, il serpente piumato protettore della vita, e a differenza del fratello cura la morte. Secondo la credenza Maya questo serpente aveva una testa nel nostro mondo e una nel regno dei morti. Quando una persona moriva Quetnitlan apriva entrambe le sue fauci e l’anima passava attraverso il serpente nell’altro mondo». Osservai  affascinato il bassorilievo. «Ed erano legati dei sacrifici umani a lui?» chiesi avido. «Naturalmente» rispose il professore mostrandoci un secondo bassorilievo che mostrava un sacrificio. Oltre alla vittima c’erano due persone, una con una grande maschera piumata e l’altra che stava uccidendo la vittima. «Vi spiego cosa sta succedendo, la vittima viene uccisa recidendo le arterie polmonari, in modo che la morte sia il più lenta possibile. Più è lenta l’agonia più è lungo il tempo che Quetnitlan tiene aperte le fauci. In questo lasso di tempo l’oracolo può vedere il regno dei morti, parlare con loro e farsi dire il futuro, tutto attraverso il serpente». «Non è l’oracolo a compiere l’omicidio?» osservò Viki perplessa. «Oh no!» esclamò Flint come se avessimo detto un’eresia. «L’oracolo non deve macchiarsi mai del crimine. Di solito delega questo compito ad una persona a caso, dalla folla. Questa persona viene fatto entrare in trance e diventa l’esecutore materiale dell’omicidio, ma prima di uccidere l’esecutore si incide sugli avambracci il simbolo di Quetnitlan». Io e Viki ci guardammo terrorizzati. «E… e cosa succede all’esecutore quando… quando ha compiuto il sacrificio?». Chiesi timoroso. «Di solito si suicida» disse il professore con noncuranza. «Nei rari casi che l’esecutore sopravviva diventa un Garganta, un soggetto da eliminare».

Controllai ancora una volta l’indirizzo prima di entrare. Ero nel posto giusto. Mi calai bene il cappello di lana sulle orecchie facendo sfuggire solo qualche ciocca rossa. Suonai ad un campanello a caso «Chi è?» chiese una voce alta e stridula. «Posta» mentii pronto. La porta si aprì all’istante ed entrai sottraendomi al gelo. Dall’ascensore si diramavano due strade, una che portava alle scale e un altro più grande che conduceva a due appartamenti. Su una delle porte notai il simbolo di Quetni…coso. Suonai con decisione e aspettai una risposta. Notai che il campanello posizionato fuori dalla porta non somigliava minimamente a quello di un’abitazione, anzi. Era provvisto di telecamera e rilevatore di impronte digitali. Studiai bene anche la porta, era blindata. Tutta quella sicurezza era sospetta. «Cosa cerca?» chiese una voce sepolcrale alle mie spalle. Sobbalzai spaventato. Un uomo abbronzato con folti capelli neri e gli zigomi fortemente pronunciati era spuntato dalla porta alle mie spalle e mi stava fissando con i suoi profondi ed imperscrutabili occhi neri colmi di disprezzo. «Cosa cerca?» ripeté lui spazientito visto che non mi decidevo a rispondere. Mi riscossi dalla sorpresa. «Buongiorno, mi chiamo Ruphert Alman» mi presentai simulando allegria. «Questo non risponde alla mia domanda» osservò l’uomo freddo. «Emm… certo…» balbettai disorientato «Sono venuto per chiedere qualche informazione sul club… mi hanno detto che la sua sede è qui ed io…» lasciai la frase in sospeso. L’uomo mi scrutò ancora di più con i suoi occhi acquosi, come per esaminarmi. «Mi segua» disse con voce calma e misurata. L’uomo posò il pollice sul rilevatore di impronte che si illuminò di luce verde dopo pochi secondi, la porta si aprì silenziosa. Entrammo in una saletta piccola ed austera, arredata con una semplice scrivania, due sedie ed un piccolo schedario metallico. «Certo, me la immaginavo un po’ più… colorata» osservai allegro. L’uomo mi osservò con disprezzo, senza raccogliere la battuta. «Questa è solo l’anticamera, solo i soci possono accedere ai locali riservati» spiegò indicando una semplice porta che era passata inosservata fino ad allora. «Cosa desidera sapere?» mi chiese sedendosi alla scrivania. «Come posso diventare socio?» chiesi senza esitazioni. «Innanzitutto deve dimostrare una parentela Maya, senza la quale non può essere ammesso, poi deve compilare questo modulo» spiegò cortese ma freddo mettendomi sotto il naso un foglio pieno di domande. Ne lessi alcune mentalmente. “Chi è Quetnitlan? Chi è Quezcolat? Quali differenze c’erano tra i due culti? Qual’era la maschera rituale degli oracoli?”. Fissai con sguardo interrogativo l’uomo. «La prima parte è un test di cultura Maya, se si commette anche un solo errore non si può essere ammessi». Annuii pensieroso mentre voltavo il foglio e leggevo le altre domande. “Qual è il suo colore preferito? Qual è il suo piatto preferito? È credente?”. «La seconda parte è invece un test comportamentale, anche qui osserviamo parametri molto severi» mi illustrò l’uomo. «Accidenti… non ci saranno molte persone che riescono a superare il test d’ingresso… Quanti soci avete?» buttai lì come una battuta. «Abbastanza» rispose l’uomo impassibile. «Abbastanza per cosa?» insistetti curioso. «Lei non vuole iscriversi al nostro club… ispettore Alman. Per cosa siamo sospettati?» mi chiese glaciale l’uomo. Mi sfuggì un’imprecazione sottovoce. «Non si preoccupi, anche se mi avesse dato un nome falso l’avrei riconosciuta, l’ho vista diverse volte in televisione» mi rassicurò lui con un tono leggermente ironico. «Non sono preoccupato e tantomeno in incognito. Ero sinceramente interessato ad iscrivermi al vostro club» mentii tentando di rigirare la situazione. «La prego ispettore di non insultare la mia intelligenza, so benissimo che lei ha origini irlandesi come qualsiasi idiota potrebbe intuire dalla sua carnagione e dai suoi capelli, e so anche che non è un uomo interessato alla storia o alla mitologia avendola vista, come ho già accennato, diverse volte in televisione». Deglutii a vuoto, quell’uomo era davvero impressionante, ma c’era qualcosa in lui che mi attirava. «Ora, per dimostrarle che né io né il mio club abbiamo niente da nascondere alla polizia per qualunque motivo lei sia venuto, la invito a fare un giro all’interno delle stanze riservate ai soci, nonostante lei non abbia un mandato». Lo guardai stupito «Come… come fa a sapere che non ho un mandato?». «Lei continua ad insultarmi» sospirò l’uomo «Se avesse avuto un mandato non le sarebbe servito tutto questo teatrino». Mi diedi dello stupido, ma quell’uomo riusciva a confondermi. Lui si alzò ed aprì la porta lasciandomi intravedere una stanza sfarzosa e riccamente decorata prima di rivolgermi di nuovo la parola. «Oh! Tra parentesi, il mio nome è Estéban Garcia».

Ruphert aprì la porta dello studio rumorosamente e la sbatté dietro di sé incurante del rumore. Rose sobbalzò sulla sedia spaventata. «Ruphert! Mi stava venendo un infarto!» lo accusò. «Scusa» borbottò lui. «Hai parlato con Emily?». La ragazza si morse le labbra «Non sono riuscita a trovarla, non mi risponde al cellulare e non è a casa sua, ma sono comunque decisa a parlarci». Ruphert grugnì la sua approvazione. «E tu?» indagò Rose «Come è andata al club?». «Bhè… se ti aspettassi di trovare qualcosa di interessante…». «Aspettavi» lo corresse Rose automaticamente. «…preparati ad una delusione» continuò Ruphert imperterrito. Detto questo il rosso si affrettò a raccontare del suo colloquio con Garcia. «Poi mi ha fatto entrare nelle stanze riservate, avresti dovuto vederle Rose, erano favolose! Ognuno dei dieci soci ha una camera da letto personale una più ricca dell’altra, e il salone è grande come un campo da calcio. Tutte la pareti sono coperte da quadri, incisioni o disegni sui Maya, alcuni autentici eseguiti dai Conquistadores! Ci sono anche numerosi cimeli tra cui anche un pugnale rituale autentico che risale a più di tremila anni fa!». Rose lo ascoltò meravigliata. «Sei senza parole vero?» osservò Ruphert entusiasta. «Già… hai parlato per quasi un quarto d’ora azzeccando tutti i verbi, deve essere una specie di record» scherzò lei. Il ragazzo assunse un’espressione offesa. «Comunque a parte l’affascinante arredamento del loro quartier generale non hai individuato nessun particolare sospetto che li colleghi ai delitti?». «No» disse Ruphert abbattuto. «Pazienza, non avevo sperato troppo su questa pista» commentò filosoficamente Rose. Improvvisamente la porta dell’ufficio si spalancò con violenza. Emily li guardò furiosa. «Ah! Siete qui! Muovetevi!». «Chi è morto?» chiese in tono scherzoso il ragazzo. «Un uomo e una donna in un negozio di dischi, tra la sesta e la ventitreesima strada» rispose Emily glaciale. Ruphert abbassò lo sguardo imbarazzato. «Oh… capisco».
  
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