2 - L’inizio dell' eternità
Era come ridestarsi
da un incubo e mi sentivo diverso.
Avevo letteralmente
attraversato la fornace dell’inferno e ne ero uscito vivo.
Ma qualcosa di quel
tormento ti resta addosso, come un marchio, un’ustione che brucia le carni.
E sembra non guarire
mai.
I miei sensi si
erano acuiti in maniera straordinaria; sentivo l’odore delle muffe,
dell’umidità della cantina, rumori e suoni di voci dall’esterno, arrivavano al
mio orecchio anche da notevoli distanze. I miei occhi coglievano ogni più
piccolo dettaglio anche nell’oscurità più profonda: sfumature minime e
consistenza delle superfici, il movimento invisibile di un insetto sulla
parete.
Fui investito da un’
infinità di sensazioni nuove e sorprendenti a cui non ero abituato, che mi riempivano
di stupore e meraviglia, ma anche spavento quando accanto a queste sensazioni
piacevoli, improvvisa e lancinante sentii il vuoto terribile della fame,
l’arsura della sete che graffiava la mia gola. Sentivo il desiderio troppo
impellente del sangue caldo, l’istinto più potente di un vampiro, qualcosa a
cui è molto difficile, quasi impossibile sottrarsi.
I vampiri neonati
sono dominati da questo istinto fortissimo e primordiale; l’ho visto in tutti i
miei figli e per quanto mi è stato possibile, li ho accompagnati e guidati
attraverso quel difficile momento della loro vita, trasmettendo loro un
briciolo della mia forza, della volontà necessaria. Non li ho mai forzati,
nemmeno quando li vedevo cedere come fece Edward, perché sapevo quanto quella
lotta fosse dura ed estrema. Neppure io riuscii a ignorarlo e ho rischiato di
perdere lo scontro col demone che mi dimorava dentro, che reclamava urlando di
soddisfare le sue brame. Ho fatto sforzi enormi per controllare me stesso,
sopportando il dolore che mi feriva la gola, cacciando giù il veleno che
inondava le fauci, respingendo il sollievo che solo il sangue umano poteva
dare.
Le tentazioni umane
a confronto non sono niente.
Non sono neppure
così deleterie come mi avevano fatto credere in passato.
Un uomo ha sempre la
libertà della scelta.
Ma io che uomo non
ero più, che scelta avevo?
Non potevo decidere
di essere qualcos’altro da ciò che sarei stato per sempre.
La libertà mi era
stata tolta, come la vita.
Non potevo che
maledire la mia condizione immutabile.
Il pensiero di
quello che avrei potuto fare per soddisfare quell’impulso terrificante, mi fece
un tale orrore che decisi di non uscire da lì dentro per diversi giorni. Persi
quasi la cognizione del tempo, che in fondo per un essere come me, ha poco
valore. Perché ne abbiamo in abbondanza.
Restai in quella
cantina col terrore di essere scoperto da un momento all’altro, con le
conseguenze che ne sarebbero derivate, lottando ferocemente con quell’impulso
inumano che mi dilaniava.
Ero terrorizzato
dall’idea che potessi uccidere qualcuno. Giudicai strani i miei stessi
pensieri.
Se ero diventato un
mostro non avrei dovuto preoccuparmi delle conseguenze delle mie azioni, eppure
continuavo a pensarci e più ci pensavo più mi sentivo atterrito dal disgusto di
me stesso. Ma era chiaro che non avrei potuto restare dov’ero in eterno. Dovevo
fuggire, allontanarmi dagli umani.
Non potevo restare
così vicino a loro, era un rischio troppo grande. Attesi che scendesse
nuovamente la notte per allontanarmi dalla città. Volevo evitare accuratamente
qualsiasi incontro, evitare la tentazione di lasciarmi trascinare dalla mia
natura. Ancora non sapevo se potevo dominarla e non lasciarmi sopraffare.
Dovevo ancora
imparare a conoscerla.
Ne ero assolutamente
disgustato e la rifiutavo ostinatamente, ma ne avevo paura; temevo che prima o
poi essa avrebbe preso il sopravvento sulla coscienza che stranamente sembravo
non aver perso del tutto. La sola idea mi spaventava con una violenza inaudita.
Ma prima di arrivare a scoprirlo dovevo fare qualcosa.
Non volevo
trasformarmi in un assassino; era l’unico pensiero lucido che mi sforzavo di
tenere a mente durante quelle prime ore.
Decisi che non mi
sarei nutrito, e forse sarei morto di fame e stenti; non sapevo quanto fosse
difficile per un vampiro uccidersi volontariamente. Mi nascosi nella foresta
dove restai per qualche tempo, ero giovane e molto forte e sentivo la sete
bruciarmi la gola e i sensi come un fuoco ardente.
Non placare quella
sete era doloroso quanto un supplizio.
Avevo paura di me
stesso. Se anche vagamente fiutando l’aria, mi capitava di captare l’odore del
sangue umano, fuggivo velocemente cercando di evitare la fonte della mia
tentazione.
Oggi riesco a
resistere praticamente senza troppi sforzi, ma all’inizio fu davvero difficile.
E spesso mi
scoraggiavo; non ero sicuro di essere abbastanza forte.
Era difficile resistere
all’odore del sangue che potevo cogliere anche da grandi distanze; bastava una
debole traccia e la voglia di sentire quel liquido scaldare il mio corpo
freddo, mi faceva quasi ansimare di desiderio, col veleno che inondava la bocca
e non dava pace.
Ma forse la pace non
è per i vampiri.
Perché l’odore del
sangue per noi è come una seduzione, un desiderio impellente e potente, un
profumo inebriante che ottenebra i sensi e la ragione, che scatena le nostre più
potenti pulsioni. Eppure, sostenendo sforzi enormi, riuscii a non nutrirmi per
molto tempo, indebolendomi; il problema era che non potevo morire, neanche
così. Poteva solo aumentare la mia sete in maniera intollerabile e il pericolo
che prima o poi, spinto dall’esasperazione compissi l’irreparabile.
Iniziai a pensare al
suicidio quasi in maniera ossessiva, senza immaginare quanto fosse remota come
possibilità.
Un'altra libertà che
a noi vampiri è negata.
Cercai
disperatamente un modo per togliermi la vita; da un dirupo mi gettai nel vuoto
sperando di schiantarmi al suolo, e ad ogni fallimento cercavo altezze ancora
più vertiginose che crescevano in proporzione alla mia disperazione. Invaso
dalla frustrazione tentai di annegare, ma trattenere il respiro è troppo facile
e poi non abbiamo bisogno di respirare.
Il nostro corpo è
duro come la roccia e in natura non esiste nulla che può scalfirlo.
Capii presto che non
potevo uccidermi, almeno non da solo, ma questo lo avrei scoperto solo molto
più avanti nel tempo. Questo fatto gettò altro sconforto e desolazione nella
mia anima tormentata; condannato a vivere in eterno, lontano dagli uomini e dal
mondo, nella completa solitudine, divorato dalla mia sete che non volevo
placare in alcun modo, l’eternità che mi si apriva davanti mi appariva come un
peso enorme da sostenere.
Come avrei fatto a
conviverci? Potevo trovare un senso ad un’esistenza che si prospettava
assurdamente vuota e spenta come un buco nero? C’erano altre risorse in me che
forse non conoscevo ancora e che avrei scoperto? C’erano altre possibilità per
affrontare quella specie di vita?
Se di vita si
trattava?
Dire che ero
disperato era poco; la mia era un’ angoscia che non trovava sfogo e macerava
all’interno, perché i vampiri non hanno lacrime per piangere.
Certe notti gridavo
verso il cielo e invocavo un aiuto. Ma dubitavo che le preghiere di un vampiro
potessero essere esaudite.
Se avevo perso la
mia anima come potevo sentirmi così disperato?
Col dolore
m’illudevo ancora di essere vivo.
Perché esistevano le
creature come me? Perché l’universo aveva potuto concepire un simile abominio?
Che cos’ero davvero?
Male allo stato puro, una forza oscura sfuggita al controllo della natura?
Tali domande mi
dilaniavano ed era impossibile trovare risposte che avessero un senso.
Mi ostinavo a
interrogare un Dio che forse non poteva più ascoltarmi, ne sentirmi.
Forse non mi aveva
mai sentito, se ora mi trovavo perso per sempre nel mio baratro personale.
Poi, un giorno
accadde qualcosa.
Ero nascosto nel
cuore della foresta, come un animale che si sente braccato, lontano da
qualsiasi insediamento umano da cui tendevo ad allontanarmi sempre più.
Avvertii un profumo
che già conoscevo, ma per la prima volta la mia reazione fu diversa; meno
dolce, selvatico e comunque invitante, mi sentivo attratto come da una forza
irresistibile. Era sangue certamente, ma non era umano.
Probabilmente ero
talmente sfiancato dalla fame che seguii solo l’istinto senza fermarmi a
pensare per un solo istante a quello che avrei fatto. Sapevo solo che non era
umano e mi bastava.
Seguii quella
traccia eccitato, la percepivo tra il folto fogliame rigoglioso del sottobosco
che si apriva al mio passaggio e scoprii un branco di cervi. Li attaccai
immediatamente senza pensarci e quando tentarono una fuga inutile, mi sentii
galvanizzato dalla caccia. Quando affondai i denti nel collo del primo animale,
ebbi la sensazione di rinascere. Sentire il suo sangue scendere nella mia gola
mi fece sentire subito meglio; il calore si diffuse nel mio corpo freddo e un
sentimento d’indefinibile sconcerto lasciò il posto all’euforia immediata;
trasportato da quell’ondata, feci una strage.
Le forze tornavano e
con loro tornò la speranza.
Potevo nutrirmi di
sangue animale, come da uomo mi ero nutrito di carne animale.
Potevo riuscire a
non essere un assassino e vivere senza uccidere esseri umani per cibarmene.
Mi parve un ottimo
compromesso, era la mia prima vittoria.
Ben presto ritrovai
la piena forza completamente.
Vissi così per
moltissimo tempo, anni forse, sempre restando isolato e nascosto nel cuore dei
boschi, tra le montagne, nei recessi più impervi, come un selvaggio quasi,
cacciando animali di tutte le specie, evitando possibili incontri umani perché
comunque non volevo correre rischi inutili.
Ma iniziavo ad
avvertire la solitudine; fu una di quelle sensazioni che mi sorprese.
Poteva un vampiro
sentirsi solo?
Mi sembrava bizzarro
e io mi sentii confuso.
Oggi so che possiamo
provare non soltanto la tristezza e la solitudine, scrutata lungamente con
ansia negli occhi di mio figlio Edward, ma la gioia, la speranza, addirittura
l’amore.
Sentimenti umani
ancora forti in me e li ritrovo altrettanto forti nei miei figli.
E di questo non
posso che esserne felice.
Cercai di ascoltare
tutte quelle nuove e antiche sensazioni che la mia nuova condizione perenne mi
imponeva. Riflettei sul fatto che erano sensazioni tipicamente umane e
cominciai a pensare che non tutto della mia vecchia vita fosse andato perduto;
certe emozioni sembravano identiche, ma ancora non sapevo se col tempo si
sarebbero affievolite fino a sbiadire completamente. Stavo scoprendo giorno per
giorno la mia natura e tentavo di capire quanto fosse rimasto in me di umano.
Certo, molte sensazioni erano amplificate: profumi, suoni, odori, colori, tutto
era più acceso e intenso, viverlo era qualcosa di travolgente, a volte
inebriante.
Sembravano
esperienze totalizzanti; come la prima volta che scoprii cosa accadeva alla mia
pelle se mi esponevo alla luce del sole, quel luccichio mi lasciò quasi senza
fiato per la sorpresa.
Ecco spiegata la
leggenda secondo cui i vampiri non potessero esporsi alla luce solare.
Era passato molto
tempo dalla trasformazione e non ero più tornato a Londra; dopo che ero vissuto
per tanto tempo lontano dagli uomini, forse fu proprio la solitudine a
smuovermi e decisi che dovevo mettermi alla prova, tastare la mia resistenza.
Non volevo
continuare a vivere come un eremita, seppellirmi in un essere sì immortale, ma
chiuso e involuto.
Improvvisamente mi
si aprivano davanti nuove possibilità che da uomo mortale non avrei certamente
avuto; potevo ampliare le mie conoscenze, migliorarmi, studiare, avevo tutto il
tempo che volevo, l’eternità era davanti a me. Dovevo usarla a mio vantaggio.
Mio padre: mi era
capitato di pensare a lui con un sentimento di acuto dolore e mi chiedevo come
avesse reagito alla mia scomparsa, se mi avesse fatto cercare.
Così in una giornata
nebbiosa attraversai la foresta che mi aveva accolto fino a quel momento e che
ormai consideravo la mia casa, e con una certa apprensione mi apprestai a
raggiungere la città. I sensi all’erta, cercavo di captare ogni cosa,
ripromettendomi di fare marcia indietro al minimo allarme, se mi fossi accorto
di non riuscire a controllarmi.
Entrai in città
guardingo e tra i vicoli sudici e fangosi dove affondavano le ruote dei carri
trainati dai cavalli, avvertivo l’odore dell’esistenza, del sangue vitale che
pulsava nelle vene dopo una corsa, il sudore sulla pelle accaldata dalla
fatica: gli odori mi investivano tutti insieme quasi togliendomi il respiro,
anche l’aria attorno ne era impregnata, rendendola quasi stagnante.
Non avrei mai
immaginato che una città potesse avere un odore simile.
Gli odori della
foresta erano diversi, selvaggi, ma sapevano di libertà, di fresco, di armonia
ed equilibrio del tutto. A volte me ne sentivo parte, come se anch’io fossi un
elemento naturale e non un errore tragico del caso.
Nella boscaglia,
disteso all’ombra di una grande quercia, potevo quasi sentirmi in pace con me
stesso, il suo silenzio mi calmava, mentre il canto degli uccelli era una
musica festosa.
Odori e profumi
della città erano come una cacofonia, un rumore che mi stordiva; si mischiavano
tutti insieme senza legarsi; odori forti, deboli, pungenti e anche disgustosi,
di umori, di fluidi del corpo misto al sangue dolce, addirittura il latte di
una puerpera che allattava il suo bimbo al seno florido. Al brusco contatto con
l’umanità del mondo percepii chiaramente di non farne parte, di essere un corpo
estraneo, estirpato dal suo luogo d’origine ed ebbi la tentazione di fuggire.
Non era più il mio
mondo e mai ne avrei fatto parte, non potevo mischiarmi in mezzo agli uomini.
Ma la solitudine
eterna mi sembrava spaventosa. Mi imposi di resistere all’ennesima prova.
Mi ero procurato un
mantello con un cappuccio per nascondere il mio volto e mi muovevo velocemente
col favore della nebbia, sapendo che non c’era occhio umano in grado di
notarmi.
Arrivai in
prossimità di quella che un tempo era stata la mia casa.
Scorgevo la finestra
con le tende dietro cui mia madre osservava i suoi figli giocare. Mi prese la
nostalgia.
Da essa non
proveniva alcun rumore. Era vuota in quel momento.
Lì vicino, potevo
vedere la chiesa che una volta avevo frequentato, dove mio padre dal pulpito ligneo
predicava i suoi sermoni apocalittici.
Vidi due donne
vestite nei loro abiti scuri, uscire dalla chiesa. Udii le loro parole.
Stavano parlando di
mio padre… e di me. Uno strano brivido mi percorse.
“Da quando suo figlio
è morto, non è più lui. Aveva riposto tutte le sue speranze in quel ragazzo…”
stava dicendo la prima delle due.
“In realtà il suo
timore è un altro… non ha una tomba su cui piangere, del figlio non fu mai
trovato il corpo… chi è sopravvissuto a quella notte tremenda, ha raccontato
che Carlisle fu aggredito dal mostro…”
“Tacete, fate
silenzio…” e vidi una delle donne farsi il segno della croce, timorosa.
Quindi era questo
che mio padre pensava; che fossi morto, o peggio, che fossi dannato.
Forse la seconda
ipotesi era quella più vicina alla verità, o forse erano vere entrambe le cose.
La dannazione era qualcosa che ancora io mi rifiutavo di accettare, qualcosa in
cui non volevo credere, nonostante fossi assolutamente consapevole di cosa
fossi diventato. In realtà non riuscivo più a distinguere nettamente i confini
tra bene e male, mi pareva si confondessero nella mia essenza misteriosa e
inspiegabile.
Sentii una strana
tristezza entrarmi nel cuore spento; se avevo avuto il vago desiderio di
incontrare il mio severo padre, fu in quell’istante che capii che non sarebbe
stata una buona idea.
Cosa avrei potuto
dirgli? Cosa avrei potuto spiegargli? Come avrebbe potuto accettare la verità?
Avrebbe preferito
sapermi morto, che sapere in cosa mi ero trasformato, su questo non avevo alcun
dubbio.
Decisi di entrare in
chiesa; se ero davvero un demone, forse mi sarei incenerito sulla soglia. L’ho
quasi sperato e forse restai deluso dal fatto che non accadde nulla.
Assolutamente nulla.
In realtà avevo
smesso da tempo, di sorprendermi della quantità di leggende infondate che erano
sorte attorno alla nostra specie. Perché era così che tendevo a classificare me
stesso, ormai: specie sconosciuta dalla provenienza ignota.
La navata centrale
mi accolse nella sua semioscurità, ma per i miei occhi non era un problema.
Avanzai fino ai primi banchi sul fondo, vi sedetti e presi ad osservare i pochi
fedeli presenti in quel momento dentro la chiesa; una donna in una piccola
cappella stava accendendo un cero votivo, altre figure dall’aria mesta erano
sedute sparse qua e là tra i banchi.
Una in particolare
attirò la mia attenzione; era un vecchio con le spalle curve come se fosse
gravato da un peso, inginocchiato a capo chino alle prime file quasi davanti
all’altare.
Stava pregando
totalmente assorto e nel suo atteggiamento, nella posa rigida, riconobbi
qualcosa di famigliare; mi alzai e lentamente mi avvicinai a lui attraversando
la navata centrale. Non avrebbe potuto sentirmi.
Mi andai a sedere al
lato opposto al suo qualche fila dietro di lui, lo osservavo col cappuccio
calato sugli occhi. Un raggio di luce filtrava da una delle vetrate istoriate,
illuminando il pulviscolo che ballava nell’aria, ma io rimasi nell’ombra.
Rimasi fermo lì, per
non so quanto tempo.
A guardare quel
vecchio… che restava avvolto nel suo silenzio fatto di mistero…
a pensare cosa avrei
potuto dirgli… a quel vecchio che era mio padre.
Ancora oggi, quando
torno con la memoria a quell’episodio, penso che in quel momento, avrei voluto
avere il dono di Edward. Non tanto per cogliere il pensiero di mio padre che
potevo quasi indovinare; avrei voluto scrutare il ricordo dell’uomo che ero
stato e iniziavo a dimenticare.
Io non ero più il
figlio che lui poteva ricordare; sapevo di essere diverso anche nell’aspetto,
avendo visto la mia immagine riflessa sullo specchio cristallino delle acque di
montagna: un viso angelico dallo sguardo mutevole, dove l’azzurro ceruleo era
scomparso per sempre in un pallore mortale.
Dopo lunghi minuti
passati a pensare a cosa fosse giusto fare, alla fine decisi: lentamente, mi
alzai per andarmene. Lo lasciai lì, nel silenzio della sua preghiera, chiuso in
quel dolore che io non avrei potuto consolare, ne alleviare.
Me ne andai senza
mai voltarmi indietro.
E comunque, indietro
non potevo tornare; potevo solo tentare di andare avanti.
In qualche modo.
Quando fuori dalla
chiesa mi ritrovai avvolto tra la nebbia di quelle strade malsane, pensai di
cercare nelle fogne dove si nascondevano come topi, tracce dei miei simili.
Restai deluso e
insoddisfatto; fu in quel preciso istante che decisi di lasciare Londra.
E con essa, mio
padre: non lo avrei mai più rivisto.
Continua…
Volevo
ringraziare tutti coloro che hanno letto il precedente capitolo, quelle che sono
state così gentili di aver recensito e quelle che hanno messo la mia storia tra
le preferite; non me l’aspettavo e mi fa piacere.
Inizialmente
doveva essere una one – shot, ma la storia si è allungata più del previsto nel
tentativo di sviscerare bene il personaggio, quindi penso che ci saranno almeno
un paio di capitoli in più.
Spero
che continuerete a leggerla. Come sempre i consigli saranno bene accetti.
Un
saluto.