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Autore: Ninfea Blu    06/12/2009    7 recensioni
Salve a tutte. E' la prima volta che scrivo in questa sezione, ma sono affascinata dal personaggio del dottor Cullen, che trovo complesso e interessante, quindi ho voluto provare. Attraverso questa ff, affronto una tematica che mi interessa molto. Ho cercato di rispettare il personaggio e di svilupparlo raccontando la sua esistenza e le sue esperienze.
2° cap - "Mio padre: mi era capitato di pensare a lui... mi chiedevo come avesse reagito alla mia scomparsa, se mi avesse fatto cercare."
5° cap - "Heidi mi inquietava; era un misto di grazia ultraterrena unita a una fisicità fatta di carne e sangue. Sentivo nei suoi confronti una specie di repulsione che si mischiava all'attrazione."
9° cap - "Il mio incontro col destino avvenne una fredda mattina di febbraio, con la luce chiara che entrava attraverso la finestra del mio studio e illuminava il volto delicato di un'umana, una donna che all'epoca era la moglie di un altro uomo."
Non so se la dicitura spoiler sia corretta, di fatto non è una if. Accetto consigli.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Heidi, Tanya, Un po' tutti | Coppie: Carlisle/Esme
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Precedente alla saga
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2 - L’inizio

2 - L’inizio dell' eternità

 

Era come ridestarsi da un incubo e mi sentivo diverso.

Avevo letteralmente attraversato la fornace dell’inferno e ne ero uscito vivo.

Ma qualcosa di quel tormento ti resta addosso, come un marchio, un’ustione che brucia le carni.

E sembra non guarire mai.

I miei sensi si erano acuiti in maniera straordinaria; sentivo l’odore delle muffe, dell’umidità della cantina, rumori e suoni di voci dall’esterno, arrivavano al mio orecchio anche da notevoli distanze. I miei occhi coglievano ogni più piccolo dettaglio anche nell’oscurità più profonda: sfumature minime e consistenza delle superfici, il movimento invisibile di un insetto sulla parete.

Fui investito da un’ infinità di sensazioni nuove e sorprendenti a cui non ero abituato, che mi riempivano di stupore e meraviglia, ma anche spavento quando accanto a queste sensazioni piacevoli, improvvisa e lancinante sentii il vuoto terribile della fame, l’arsura della sete che graffiava la mia gola. Sentivo il desiderio troppo impellente del sangue caldo, l’istinto più potente di un vampiro, qualcosa a cui è molto difficile, quasi impossibile sottrarsi.

I vampiri neonati sono dominati da questo istinto fortissimo e primordiale; l’ho visto in tutti i miei figli e per quanto mi è stato possibile, li ho accompagnati e guidati attraverso quel difficile momento della loro vita, trasmettendo loro un briciolo della mia forza, della volontà necessaria. Non li ho mai forzati, nemmeno quando li vedevo cedere come fece Edward, perché sapevo quanto quella lotta fosse dura ed estrema. Neppure io riuscii a ignorarlo e ho rischiato di perdere lo scontro col demone che mi dimorava dentro, che reclamava urlando di soddisfare le sue brame. Ho fatto sforzi enormi per controllare me stesso, sopportando il dolore che mi feriva la gola, cacciando giù il veleno che inondava le fauci, respingendo il sollievo che solo il sangue umano poteva dare.

Le tentazioni umane a confronto non sono niente.

Non sono neppure così deleterie come mi avevano fatto credere in passato.

Un uomo ha sempre la libertà della scelta.

Ma io che uomo non ero più, che scelta avevo?

Non potevo decidere di essere qualcos’altro da ciò che sarei stato per sempre.

La libertà mi era stata tolta, come la vita.

Non potevo che maledire la mia condizione immutabile.

Il pensiero di quello che avrei potuto fare per soddisfare quell’impulso terrificante, mi fece un tale orrore che decisi di non uscire da lì dentro per diversi giorni. Persi quasi la cognizione del tempo, che in fondo per un essere come me, ha poco valore. Perché ne abbiamo in abbondanza.

Restai in quella cantina col terrore di essere scoperto da un momento all’altro, con le conseguenze che ne sarebbero derivate, lottando ferocemente con quell’impulso inumano che mi dilaniava.

Ero terrorizzato dall’idea che potessi uccidere qualcuno. Giudicai strani i miei stessi pensieri.

Se ero diventato un mostro non avrei dovuto preoccuparmi delle conseguenze delle mie azioni, eppure continuavo a pensarci e più ci pensavo più mi sentivo atterrito dal disgusto di me stesso. Ma era chiaro che non avrei potuto restare dov’ero in eterno. Dovevo fuggire, allontanarmi dagli umani.

Non potevo restare così vicino a loro, era un rischio troppo grande. Attesi che scendesse nuovamente la notte per allontanarmi dalla città. Volevo evitare accuratamente qualsiasi incontro, evitare la tentazione di lasciarmi trascinare dalla mia natura. Ancora non sapevo se potevo dominarla e non lasciarmi sopraffare.

Dovevo ancora imparare a conoscerla.

Ne ero assolutamente disgustato e la rifiutavo ostinatamente, ma ne avevo paura; temevo che prima o poi essa avrebbe preso il sopravvento sulla coscienza che stranamente sembravo non aver perso del tutto. La sola idea mi spaventava con una violenza inaudita. Ma prima di arrivare a scoprirlo dovevo fare qualcosa.

Non volevo trasformarmi in un assassino; era l’unico pensiero lucido che mi sforzavo di tenere a mente durante quelle prime ore.

Decisi che non mi sarei nutrito, e forse sarei morto di fame e stenti; non sapevo quanto fosse difficile per un vampiro uccidersi volontariamente. Mi nascosi nella foresta dove restai per qualche tempo, ero giovane e molto forte e sentivo la sete bruciarmi la gola e i sensi come un fuoco ardente.

Non placare quella sete era doloroso quanto un supplizio.

Avevo paura di me stesso. Se anche vagamente fiutando l’aria, mi capitava di captare l’odore del sangue umano, fuggivo velocemente cercando di evitare la fonte della mia tentazione.

Oggi riesco a resistere praticamente senza troppi sforzi, ma all’inizio fu davvero difficile.

E spesso mi scoraggiavo; non ero sicuro di essere abbastanza forte.

Era difficile resistere all’odore del sangue che potevo cogliere anche da grandi distanze; bastava una debole traccia e la voglia di sentire quel liquido scaldare il mio corpo freddo, mi faceva quasi ansimare di desiderio, col veleno che inondava la bocca e non dava pace.

Ma forse la pace non è per i vampiri.

Perché l’odore del sangue per noi è come una seduzione, un desiderio impellente e potente, un profumo inebriante che ottenebra i sensi e la ragione, che scatena le nostre più potenti pulsioni. Eppure, sostenendo sforzi enormi, riuscii a non nutrirmi per molto tempo, indebolendomi; il problema era che non potevo morire, neanche così. Poteva solo aumentare la mia sete in maniera intollerabile e il pericolo che prima o poi, spinto dall’esasperazione compissi l’irreparabile.

Iniziai a pensare al suicidio quasi in maniera ossessiva, senza immaginare quanto fosse remota come possibilità.

Un'altra libertà che a noi vampiri è negata.

Cercai disperatamente un modo per togliermi la vita; da un dirupo mi gettai nel vuoto sperando di schiantarmi al suolo, e ad ogni fallimento cercavo altezze ancora più vertiginose che crescevano in proporzione alla mia disperazione. Invaso dalla frustrazione tentai di annegare, ma trattenere il respiro è troppo facile e poi non abbiamo bisogno di respirare.

Il nostro corpo è duro come la roccia e in natura non esiste nulla che può scalfirlo.

Capii presto che non potevo uccidermi, almeno non da solo, ma questo lo avrei scoperto solo molto più avanti nel tempo. Questo fatto gettò altro sconforto e desolazione nella mia anima tormentata; condannato a vivere in eterno, lontano dagli uomini e dal mondo, nella completa solitudine, divorato dalla mia sete che non volevo placare in alcun modo, l’eternità che mi si apriva davanti mi appariva come un peso enorme da sostenere.

Come avrei fatto a conviverci? Potevo trovare un senso ad un’esistenza che si prospettava assurdamente vuota e spenta come un buco nero? C’erano altre risorse in me che forse non conoscevo ancora e che avrei scoperto? C’erano altre possibilità per affrontare quella specie di vita?

Se di vita si trattava?

Dire che ero disperato era poco; la mia era un’ angoscia che non trovava sfogo e macerava all’interno, perché i vampiri non hanno lacrime per piangere.

Certe notti gridavo verso il cielo e invocavo un aiuto. Ma dubitavo che le preghiere di un vampiro potessero essere esaudite.

Se avevo perso la mia anima come potevo sentirmi così disperato?

Col dolore m’illudevo ancora di essere vivo.

Perché esistevano le creature come me? Perché l’universo aveva potuto concepire un simile abominio?

Che cos’ero davvero? Male allo stato puro, una forza oscura sfuggita al controllo della natura?

Tali domande mi dilaniavano ed era impossibile trovare risposte che avessero un senso.

Mi ostinavo a interrogare un Dio che forse non poteva più ascoltarmi, ne sentirmi.

Forse non mi aveva mai sentito, se ora mi trovavo perso per sempre nel mio baratro personale.

Poi, un giorno accadde qualcosa.

 

Ero nascosto nel cuore della foresta, come un animale che si sente braccato, lontano da qualsiasi insediamento umano da cui tendevo ad allontanarmi sempre più.

Avvertii un profumo che già conoscevo, ma per la prima volta la mia reazione fu diversa; meno dolce, selvatico e comunque invitante, mi sentivo attratto come da una forza irresistibile. Era sangue certamente, ma non era umano.

Probabilmente ero talmente sfiancato dalla fame che seguii solo l’istinto senza fermarmi a pensare per un solo istante a quello che avrei fatto. Sapevo solo che non era umano e mi bastava.

Seguii quella traccia eccitato, la percepivo tra il folto fogliame rigoglioso del sottobosco che si apriva al mio passaggio e scoprii un branco di cervi. Li attaccai immediatamente senza pensarci e quando tentarono una fuga inutile, mi sentii galvanizzato dalla caccia. Quando affondai i denti nel collo del primo animale, ebbi la sensazione di rinascere. Sentire il suo sangue scendere nella mia gola mi fece sentire subito meglio; il calore si diffuse nel mio corpo freddo e un sentimento d’indefinibile sconcerto lasciò il posto all’euforia immediata; trasportato da quell’ondata, feci una strage.

Le forze tornavano e con loro tornò la speranza.

Potevo nutrirmi di sangue animale, come da uomo mi ero nutrito di carne animale.

Potevo riuscire a non essere un assassino e vivere senza uccidere esseri umani per cibarmene.

Mi parve un ottimo compromesso, era la mia prima vittoria.

Ben presto ritrovai la piena forza completamente.

 

Vissi così per moltissimo tempo, anni forse, sempre restando isolato e nascosto nel cuore dei boschi, tra le montagne, nei recessi più impervi, come un selvaggio quasi, cacciando animali di tutte le specie, evitando possibili incontri umani perché comunque non volevo correre rischi inutili.

Ma iniziavo ad avvertire la solitudine; fu una di quelle sensazioni che mi sorprese.

Poteva un vampiro sentirsi solo?

Mi sembrava bizzarro e io mi sentii confuso.

Oggi so che possiamo provare non soltanto la tristezza e la solitudine, scrutata lungamente con ansia negli occhi di mio figlio Edward, ma la gioia, la speranza, addirittura l’amore.

Sentimenti umani ancora forti in me e li ritrovo altrettanto forti nei miei figli.

E di questo non posso che esserne felice.

Cercai di ascoltare tutte quelle nuove e antiche sensazioni che la mia nuova condizione perenne mi imponeva. Riflettei sul fatto che erano sensazioni tipicamente umane e cominciai a pensare che non tutto della mia vecchia vita fosse andato perduto; certe emozioni sembravano identiche, ma ancora non sapevo se col tempo si sarebbero affievolite fino a sbiadire completamente. Stavo scoprendo giorno per giorno la mia natura e tentavo di capire quanto fosse rimasto in me di umano. Certo, molte sensazioni erano amplificate: profumi, suoni, odori, colori, tutto era più acceso e intenso, viverlo era qualcosa di travolgente, a volte inebriante.

Sembravano esperienze totalizzanti; come la prima volta che scoprii cosa accadeva alla mia pelle se mi esponevo alla luce del sole, quel luccichio mi lasciò quasi senza fiato per la sorpresa.

Ecco spiegata la leggenda secondo cui i vampiri non potessero esporsi alla luce solare.

 

Era passato molto tempo dalla trasformazione e non ero più tornato a Londra; dopo che ero vissuto per tanto tempo lontano dagli uomini, forse fu proprio la solitudine a smuovermi e decisi che dovevo mettermi alla prova, tastare la mia resistenza.

Non volevo continuare a vivere come un eremita, seppellirmi in un essere sì immortale, ma chiuso e involuto.

Improvvisamente mi si aprivano davanti nuove possibilità che da uomo mortale non avrei certamente avuto; potevo ampliare le mie conoscenze, migliorarmi, studiare, avevo tutto il tempo che volevo, l’eternità era davanti a me. Dovevo usarla a mio vantaggio.

Mio padre: mi era capitato di pensare a lui con un sentimento di acuto dolore e mi chiedevo come avesse reagito alla mia scomparsa, se mi avesse fatto cercare.

Così in una giornata nebbiosa attraversai la foresta che mi aveva accolto fino a quel momento e che ormai consideravo la mia casa, e con una certa apprensione mi apprestai a raggiungere la città. I sensi all’erta, cercavo di captare ogni cosa, ripromettendomi di fare marcia indietro al minimo allarme, se mi fossi accorto di non riuscire a controllarmi.

Entrai in città guardingo e tra i vicoli sudici e fangosi dove affondavano le ruote dei carri trainati dai cavalli, avvertivo l’odore dell’esistenza, del sangue vitale che pulsava nelle vene dopo una corsa, il sudore sulla pelle accaldata dalla fatica: gli odori mi investivano tutti insieme quasi togliendomi il respiro, anche l’aria attorno ne era impregnata, rendendola quasi stagnante.

Non avrei mai immaginato che una città potesse avere un odore simile.

Gli odori della foresta erano diversi, selvaggi, ma sapevano di libertà, di fresco, di armonia ed equilibrio del tutto. A volte me ne sentivo parte, come se anch’io fossi un elemento naturale e non un errore tragico del caso.

Nella boscaglia, disteso all’ombra di una grande quercia, potevo quasi sentirmi in pace con me stesso, il suo silenzio mi calmava, mentre il canto degli uccelli era una musica festosa.

Odori e profumi della città erano come una cacofonia, un rumore che mi stordiva; si mischiavano tutti insieme senza legarsi; odori forti, deboli, pungenti e anche disgustosi, di umori, di fluidi del corpo misto al sangue dolce, addirittura il latte di una puerpera che allattava il suo bimbo al seno florido. Al brusco contatto con l’umanità del mondo percepii chiaramente di non farne parte, di essere un corpo estraneo, estirpato dal suo luogo d’origine ed ebbi la tentazione di fuggire.

Non era più il mio mondo e mai ne avrei fatto parte, non potevo mischiarmi in mezzo agli uomini.

Ma la solitudine eterna mi sembrava spaventosa. Mi imposi di resistere all’ennesima prova.

Mi ero procurato un mantello con un cappuccio per nascondere il mio volto e mi muovevo velocemente col favore della nebbia, sapendo che non c’era occhio umano in grado di notarmi.

Arrivai in prossimità di quella che un tempo era stata la mia casa.

Scorgevo la finestra con le tende dietro cui mia madre osservava i suoi figli giocare. Mi prese la nostalgia.

Da essa non proveniva alcun rumore. Era vuota in quel momento.

Lì vicino, potevo vedere la chiesa che una volta avevo frequentato, dove mio padre dal pulpito ligneo predicava i suoi sermoni apocalittici.

Vidi due donne vestite nei loro abiti scuri, uscire dalla chiesa. Udii le loro parole.

Stavano parlando di mio padre… e di me. Uno strano brivido mi percorse.

“Da quando suo figlio è morto, non è più lui. Aveva riposto tutte le sue speranze in quel ragazzo…” stava dicendo la prima delle due.

“In realtà il suo timore è un altro… non ha una tomba su cui piangere, del figlio non fu mai trovato il corpo… chi è sopravvissuto a quella notte tremenda, ha raccontato che Carlisle fu aggredito dal mostro…”

“Tacete, fate silenzio…” e vidi una delle donne farsi il segno della croce, timorosa.

Quindi era questo che mio padre pensava; che fossi morto, o peggio, che fossi dannato.

Forse la seconda ipotesi era quella più vicina alla verità, o forse erano vere entrambe le cose. La dannazione era qualcosa che ancora io mi rifiutavo di accettare, qualcosa in cui non volevo credere, nonostante fossi assolutamente consapevole di cosa fossi diventato. In realtà non riuscivo più a distinguere nettamente i confini tra bene e male, mi pareva si confondessero nella mia essenza misteriosa e inspiegabile.

Sentii una strana tristezza entrarmi nel cuore spento; se avevo avuto il vago desiderio di incontrare il mio severo padre, fu in quell’istante che capii che non sarebbe stata una buona idea.

Cosa avrei potuto dirgli? Cosa avrei potuto spiegargli? Come avrebbe potuto accettare la verità?

Avrebbe preferito sapermi morto, che sapere in cosa mi ero trasformato, su questo non avevo alcun dubbio.

Decisi di entrare in chiesa; se ero davvero un demone, forse mi sarei incenerito sulla soglia. L’ho quasi sperato e forse restai deluso dal fatto che non accadde nulla. Assolutamente nulla.

In realtà avevo smesso da tempo, di sorprendermi della quantità di leggende infondate che erano sorte attorno alla nostra specie. Perché era così che tendevo a classificare me stesso, ormai: specie sconosciuta dalla provenienza ignota.

La navata centrale mi accolse nella sua semioscurità, ma per i miei occhi non era un problema. Avanzai fino ai primi banchi sul fondo, vi sedetti e presi ad osservare i pochi fedeli presenti in quel momento dentro la chiesa; una donna in una piccola cappella stava accendendo un cero votivo, altre figure dall’aria mesta erano sedute sparse qua e là tra i banchi.

Una in particolare attirò la mia attenzione; era un vecchio con le spalle curve come se fosse gravato da un peso, inginocchiato a capo chino alle prime file quasi davanti all’altare.

Stava pregando totalmente assorto e nel suo atteggiamento, nella posa rigida, riconobbi qualcosa di famigliare; mi alzai e lentamente mi avvicinai a lui attraversando la navata centrale. Non avrebbe potuto sentirmi.

Mi andai a sedere al lato opposto al suo qualche fila dietro di lui, lo osservavo col cappuccio calato sugli occhi. Un raggio di luce filtrava da una delle vetrate istoriate, illuminando il pulviscolo che ballava nell’aria, ma io rimasi nell’ombra.

 

Rimasi fermo lì, per non so quanto tempo.

A guardare quel vecchio… che restava avvolto nel suo silenzio fatto di mistero…

a pensare cosa avrei potuto dirgli… a quel vecchio che era mio padre.

 

Ancora oggi, quando torno con la memoria a quell’episodio, penso che in quel momento, avrei voluto avere il dono di Edward. Non tanto per cogliere il pensiero di mio padre che potevo quasi indovinare; avrei voluto scrutare il ricordo dell’uomo che ero stato e iniziavo a dimenticare.

Io non ero più il figlio che lui poteva ricordare; sapevo di essere diverso anche nell’aspetto, avendo visto la mia immagine riflessa sullo specchio cristallino delle acque di montagna: un viso angelico dallo sguardo mutevole, dove l’azzurro ceruleo era scomparso per sempre in un pallore mortale.

Dopo lunghi minuti passati a pensare a cosa fosse giusto fare, alla fine decisi: lentamente, mi alzai per andarmene. Lo lasciai lì, nel silenzio della sua preghiera, chiuso in quel dolore che io non avrei potuto consolare, ne alleviare.

Me ne andai senza mai voltarmi indietro.

E comunque, indietro non potevo tornare; potevo solo tentare di andare avanti.

In qualche modo.

Quando fuori dalla chiesa mi ritrovai avvolto tra la nebbia di quelle strade malsane, pensai di cercare nelle fogne dove si nascondevano come topi, tracce dei miei simili.

Restai deluso e insoddisfatto; fu in quel preciso istante che decisi di lasciare Londra.

E con essa, mio padre: non lo avrei mai più rivisto.

 

 

Continua…

 

 

Volevo ringraziare tutti coloro che hanno letto il precedente capitolo, quelle che sono state così gentili di aver recensito e quelle che hanno messo la mia storia tra le preferite; non me l’aspettavo e mi fa piacere.

Inizialmente doveva essere una one – shot, ma la storia si è allungata più del previsto nel tentativo di sviscerare bene il personaggio, quindi penso che ci saranno almeno un paio di capitoli in più.

Spero che continuerete a leggerla. Come sempre i consigli saranno bene accetti.

Un saluto.

 

 

   
 
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