Fanfic su attori > Robert Pattinson
Ricorda la storia  |       
Autore: PattyOnTheRollercoaster    07/12/2009    1 recensioni
[Dal capitolo 3]
Perfetto. La mia vita si può riassumere in pochi concetti: mi chiamo Robert, faccio l'attore, ho un figlio di cui non sapevo l'esistenza, e ho il brutto vizio di spargere per casa le mie calze come se qualcuno prima o poi le raccogliesse.
Faccio schifo... sul serio.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Who’s my son’s father?


1.The escape of freedom

Non mi ero mai chiesto cosa le fosse successo dopo averla lasciata ed essermene andato via. E i vari messaggi a cui non avevo risposto erano stati decisamente fatali. Chissà cosa sarei ora se invece avessi risposto.
Dana mi aveva mandato quei messaggi poco dopo che mi fui trasferito a Londra, ma io non le avevo risposto semplicemente perché avevo paura. L’avevo appena lasciata, dopo due anni che stavamo assieme, perché ero dovuto trasferirmi con i miei e le mie sorelle. E dopo appena un mese non avevo la forza di risentirla. Se a quel tempo avessi saputo perché mi voleva contattare probabilmente avrei risposto. O forse sarei stato così terrorizzato che sarei fuggito in un altro stato pur di non vedere cos’era successo.
Per fortuna sono ancora qui. Se fossi fuggito non l’avrei mai conosciuto.

Quando, improvviso come una fitta intercostale, piombò nella mia vita, io ero placidamente steso sul divano a leggere un libro, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata all’orologio perché dovevo andare in palestra. Ad un tratto qualcuno suonò alla porta. Non mi piace mai alzarmi dal divano per aprire a qualcuno, mi aspetto sempre che siano testimoni di Geova o venditori porta a porta. Quando aprii, invece, ebbi una sorpresa.
“Ciao!” esclamò una ragazza nel vedermi. Aveva i capelli corti sparati in tutte le direzioni di un colore rosso acceso e dei piccoli rasta che le sbucavano da dietro il collo. Portava un giubbotto blu e dei larghi jeans che ricadevano flosci sulle gambe.
“Dana?” chiesi incredulo. Lei annuì. Non era cambiata quasi per niente. “Cosa … che ci fai qui? E’ passato un sacco di tempo … mio Dio. Ma chi ti ha dato il mio indirizzo?” chiesi leggermente traumatizzato. La gente non poteva venire a sapere così facilmente il mio indirizzo, pensavo: qualcuno avrebbe mandato un kamikaze ad uccidermi!
“Gerome, l’ho incontrato lo scorso sabato e abbiamo fatto una specie di … rimpatriata fra ex compagni di classe. Ma scusa, dopo tutto questo tempo nemmeno mi saluti?” chiese.
“Scusa” dissi abbracciandola. “Meglio?” chiesi, mentre ci dondolavamo goffi sulla soglia.
“Abbastanza” rispose lei. Ci sciogliemmo e la invitai ad entrare. “Sai, ti ho visto al cinema” disse guardandosi attorno.
“Ah, che schifo” dissi io.
“Non lo definirei uno schifo, più che altro strano” disse guardandosi attorno all’ingresso, con le mani in tasca. L’accompagnai in salotto e le offrii un caffè, che accettò volentieri. “Allora …” disse dondolandosi sul posto come un’autistica e guardando ovunque tranne che nella mia direzione.
“Dana c’è qualcosa che non va?” chiesi sospettoso.
“Perché me lo chiedi?” chiese lei, colta in fallo.
“Perché mi ricordo come sei. Hai fatto la stessa espressione e gli stessi identici gesti quando hai distrutto la macchina di tuo padre, quando avevi perso i biglietti del concerto che aspettavamo da tre mesi e …” ci pensai un secondo, “quando siamo finiti davanti al preside per quella storia della scritta in palestra”.
“Cavolo … non mi aspettavo che ti ricordassi tutte queste cose” disse stupita.
“Ho una memoria di ferro” dissi compiaciuto. “Comunque, parla. Mi metti in ansia se fai così, dì qualcosa”.
“Posso … chiederti una cosa prima?”.
“Si”.
“Perché quando ho cercato di chiamarti, un sacco di tempo fa, tu non c’eri? Voglio dire … per quale motivo hai deciso di ignorarmi, forse io dovevo dirti qualcosa d’importate. Sai, ho passato due mesi interi a cercare di chiamarti. Ma tu niente, nemmeno una minuscola risposta” la sua voce era andata in crescendo. Stava cominciando ad incazzarsi di brutto e la cosa era davvero preoccupante. “Alla fine ho lasciato perdere, ho perso le speranze perché, sai, tutto quello che avevo voglia di fare era buttarmi sotto un camion, ma alla fine avevo paura anche di quello!”.
“Dana ma che cosa dici?” chiesi allarmato. Non potevo credere che fosse tornata dopo degli anni per dirmi che non avevo risposto alle sue chiamate.
Dana riprese fiato, sembrava sull’orlo di un collasso nervoso. “Devo fare un viaggio, ci metterò un paio di settimane, non di più. Io non vedo più i miei genitori per … diversi motivi e non posso permettermi di pagare una persona che gli stia dietro. Sono disperata, e tu sei la mia ultima possibilità. In più abitiamo relativamente vicini, a qualche kilometro c’è la scuola, e …”.
“Aspetta. Tu mi stai scaricando un bambino?” chiesi incredulo. Mi stavo arrabbiando. Ma era diventata pazza?! Cioè, questa qui arriva tutta tranquilla dopo anni che non ci vediamo e vuole che badi a un bambino?! A parte il fatto che ho mille cose da fare, ma poi non si può fare così! E’ eticamente scorretto.
Dana sospirò. “Ok, hai ragione. E’ stata … una cosa stupida” borbottò a testa bassa alzandosi e stringendosi nel giubbotto. “Devo andare. Io … mi dispiace per essere venuta a casa tua in questo modo” disse con voce tremante.
Capii che il vero problema non era quello, così mi alzai e l’abbracciai. Era sull’orlo delle lacrime e quando si strinse a me scoppiò a piangere. Credevo di capire la situazione: Dana aveva un figlio e, a quanto pare, nessuno con cui lasciarlo. Mi chiesi che cosa avesse fatto della sua vita dopo che me n’ero andato. Evidentemente si era cacciata nei guai. Chissà, forse, se fossi rimasto, a quest’ora non sarebbe successo niente, pensai al momento.
Feci sedere Dana sul divano e la strinsi ancora più forte. Mi dispiaceva in modo incredibile vederla in quello stato. Da quel che mi ricordavo lei aveva una personalità forte, non l’avevo quasi mai vista piangere, al massimo arrabbiarsi. Era una persona speciale, per questo mi piaceva quando andavamo alle superiori. Ci avevo messo dei mesi a dirle anche solo che la trovavo carina, poi alla fine la dichiarazione me l’aveva fatta lei.
Questo si chiama essere veri uomini!
“Robert” biascicò lei. “Tu non rispondevi, e io avevo paura che non t’importasse più niente di me, quindi che senso aveva cercare ancora di incontrati?” disse fra le lacrime. Si sciolse dal mio abbraccio e si asciugò il viso, prendendo larghi respiri. Quando si fu calmata disse: “Non prendertela con me. Quando ho smesso di chiamarti ho pensato che probabilmente, anche se te lo avessi detto, non ti sarebbe importato. Poi non ci siamo più sentiti e io non ho avuto l’occasione, ne il tempo per cercarti e …” aveva iniziato a parlare più velocemente così cercai di calmarla.
“Dana, aspetta, con calma. Ormai è passato tanto tempo, non è più un problema” dissi, senza nemmeno capire bene di che cosa parlasse.
“Robert io non avrei mai voluto chiamarti, tutti e due avevamo preso una via diversa. Non avrei mai voluto una relazione a distanza, non era per quello che ti cercavo”, prese a tormentarsi le mani con lo sguardo basso. “Dopo circa un mese dalla tua partenza … ho fatto un test di gravidanza che è risultato positivo”.
“Come?” chiesi  alzando le sopracciglia.

Non appena Dana pronunciò quelle parole mi crollò il mondo addosso. Sentivo talmente tante cose che non sapevo quale fosse la peggiore, o la più importante. Ero incredulo, dopo tutti questi anni ti si presenta la tua ex e ti dice che hai un figlio, insomma, è strano. Poi avevo paura, no anzi, ero terrorizzato a morte! Io avevo un figlio? Già non sapevo badare a me stesso, figuriamoci a qualcun altro che dipendeva del tutto e per tutto da me! Infine ero curioso, e provavo una certa pena per il bambino, anche se ancora non lo conoscevo. Nella mia mente non aveva ancora né un volto né un nome, ma la sua sola esistenza era per me motivo di preoccupazione. Forse, pensai, è così che si sente sempre un padre, poi scacciai quel pensiero: se la mia vita doveva essere un’ansia continua sarebbe stato terribile. Era un po’ come quando ti rendi conto di aver dimenticato qualcosa di importante e, improvvisamente, ti ricordi che cos’è ma non hai la possibilità di tornare a casa a prenderlo: era esattamente così che mi sentivo.
“Dana …” dissi preoccupato, siccome nessuno dei due diceva nulla.
Forse quello era tutto uno scherzo di cattivo gusto, un brutto sogno. Ma certo! Fra poco mi sarei svegliato, avrei guardato l’orologio, avrei detto cazzo!, perché ero in ritardo, e sarei uscito di corsa. Ora rimaneva solo la parte più difficile, e cioè svegliarsi.
“Scusami” disse Dana.
Questo sogno insisteva …
“So che avrei dovuto dirtelo prima, ma davvero, ero spaventata, non sapevo nemmeno se … se sarei riuscita a prendermi cura di lui, o se mi sarei buttata da una finestra prima che nascesse. Io …” le scappò uno sbuffo, “io andavo al liceo, non avevo idea di come crescere un bambino. Poi tu non c’eri, chissà cos’avresti fatto tu, mi chiedevo sempre. Ero sicura che avresti avuto una risposta”.
“Io?” chiesi scettico. “L’unica cosa di cui so prendermi cura è un cane” dissi con orrore crescente. Cazzo, davvero! Non ero capace di fare niente!
“Può anche darsi” disse lei con un leggero sorriso, “ma mi piaceva pensare che fossi più preparato di me. O mio Dio” disse sospirando. “E’ stata la peggiore idea che ho mai avuto” disse massaggiandosi gli occhi. Dana si alzò e fece per andarsene.
“Aspetta!” dissi alzandomi. Non volevo che andasse via. Sembrava che, se se ne fosse andata, con lei sarebbe sparita persino l’idea di un figlio. “Come si chiama?” chiesi con voce strozzata.
Dana sorrise. “Si chiama Jonathan, ma tutti lo chiamano sempre, solo Johnny” disse. “Vuoi … vedere una sua foto? Ne ho una nel portafoglio, sembra una tradizione che i genitori si portino una foto del loro bambino sempre appresso” disse frugandosi in tasca. Prese una piccola fotografia e me la passò. Con mano leggermente tremante la presi e la voltai. Non si vedeva bene, era molto piccola. C’era un bambino dai capelli rossastri, come quelli di Dana, ma leggermente sul marrone, era chino su un tavolo a disegnare e aveva un espressione concentrata. “Qui non si vede bene” cominciò Dana, “ma avete gli stessi occhi. Vi somigliate in un modo allucinante”.
“Quanti anni ha?” chiesi fissando la foto, ancora in trans.
“Ne farà sette fra un po’ di giorni. Mi dispiace un sacco non poter passare il suo compleanno con lui”. Rimasi in silenzio a guardare la fotografia. “E’ meglio che vada” disse Dana allontanandosi, “Quella la puoi tenere se vuoi, magari un giorno mi chiami, Gerome ha il mio numero. Magari vieni a trovarmi dopo che sono tornata. A trovarci … a noi” disse.
“Che cosa farai?” chiesi con voce greve, dopo aver finalmente alzato al testa da quella fotografia.
“Non lo so, vedremo” disse stringendosi nelle spalle.
Stava andando via. Forse non l’avrei più rivista, perché di sicuro non avrei avuto il coraggio di chiamarla. In un impeto di pazzia raggiunsi la porta e la presi per un braccio. “Dana aspetta”.
“Si?” chiese lei voltandosi.
Deglutii. “Posso tenerlo io” dissi in un sussurro appena udibile.
Il volto di Dana s’illuminò d’incredulità e felicità. Mi gettò le braccia al collo e mi strinse, mentre io me ne stavo come un perfetto imbecille fermo impalato, e reggevo la foto di mio figlio fra due dita, come se sgualcirla o strapparla avrebbe significato fare del male a lui. A quel bambino della foto che nemmeno conoscevo.
“Grazie Robert” disse Dana. “Grazie mille!”.
“Non è niente” dissi. Poi ci ripensai: “Cioè, non è vero, è proprio un casino”.
Dana si slacciò da me e sorrise. “Io parto Lunedì prossimo, dimmi quando posso portartelo, quando va bene a te. Ti devo spiegare un po’ di cose”.
Guardai l’orologio. Al diavolo la ginnastica! “Hai ancora un po’ di tempo? Magari puoi raccontarmi un po’ … un po’ di quelle cose che mi devi dire” dissi appoggiandomi con il braccio alla porta.
“Si, è prestissimo. La scuola finisce al pomeriggio”.
“D’accordo entra”.
Così rientrò. E, al posto suo, sentivo che una buona parte della mia libertà stava uscendo dalla porta di casa mia, anzi stava letteralmente scappando, spaventata a morte, per non tornare mai più. Sarei stato capace di lasciarla andare così facilmente?





E salve! Eccomi di ritorno con un'altra storia sul prode Robert Pattinson. Mamma mia, ogni volta che leggo store su di lui non posso fare a meno di pensare che, se le leggesse, o si rotolerebbe a terra dalle risate, o ci farebbe causa. Robert, semmai leggessi questo (anche se non credo) non fami causa. Bene, dopo questo sclero, qualcosa sulla fic.
Allora, era già pronta da un bel po' questa storia, tanto che l'ho pubblicata anche su un'altro sito, ma fra tutte le cose che ho da fare ho deciso di pubblicarla qui su EFP solo oggi. Ma questo probabilmente non v'interessa. La cosa che v'interessa è: ero stufa di tutte le storie in cui Robert trova una singolare ragazza, che fa i mestieri più elementari (fotografa, ballerina, truccatrice) e si scopre pazzamente innamorato di lei alla prima occhiata. E lei non appena lo vede si scioglie, le luccicano gli occhi e roba del genere. E già dal primo capitolo Robert ci prova, e lei fa una simbolica resistenza, mentre invece lo trova un figo, e... vabè, avete capito, no? Ovviamente dicendo questo non voglio sminuire le fic su Robert, le leggo io stessa (anche se mi trovo a selezionarle con cura), voglio solo dire che molte si possono facilmente riassumere con la stessa frase.
E dunque, dopo questa tiritera vi lascio, spero di non avervi annoiati. Ma se siete giunti fino alla fine del capitolo, meritate un premio. XD Mi raccomando, lasciate un piccola recensione! Anche per dirmi che la storia vi fa schifo! :) B'è, comunque sia, un saluto by...
Patty.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su attori > Robert Pattinson / Vai alla pagina dell'autore: PattyOnTheRollercoaster