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Autore: Stateira    11/12/2009    2 recensioni
Uccelli che cantano come violini al tramonto, sui riverberi di passato che poi, nulla sono, nel nulla cadono.
È quel dolore che ti fa chiudere gli occhi fino a quando il mondo non diviene una fessura che scintilla delle tue stesse lacrime.
Genere: Malinconico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aries Mu, Aries Shion, Libra Dohko
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l'ho scordato

PREMESSA

 

Ebbene.

Questo è un canto di dolore.

Ho impiegato molto tempo a finirlo, ma poi è giunto un inaspettato aiuto.

Credo che andrebbe anche danzato.

 

 

 

 

μνος

(Ymnos)

 

 

 

 

 

 

Ah.

Così, quello era Mu.

Doko gli offrì un sorriso confortante, e intanto che era caldo, anche del tè verde. Non ebbe difficoltà ad immaginare il motivo di quello sguardo sfuggente e vagamente attonito da cui si sentiva sfiorato per un istante, di tanto in tanto, con furtiva prudenza.

Se Sion gli aveva mai parlato di lui – e l’aveva fatto, ne era certo – doveva averlo descritto in ben altri termini. Badare a cose come il tempo che scorre e solca volti e corpi indistintamente, così come fa con i sassi nel letto di un fiume non sarebbe stato da lui. Era il Cavaliere di Libra che l’aveva lasciato per la Cina pochissimi anni or sono che ricordava, e quello aveva raccontato a Mu, con quella sua cocciuta sicurezza che la sua troppa perspicacia aveva reso nostalgica fin quasi alla disperazione.

Sion lo stava scrutando, attraverso quegli occhi candidi, riempiendolo per un momento della gioia incontenibile di rivederlo.

Ma non era tempo.

Se Mu, se l’unico allievo di Sion si era mosso dal suo prudente rifugio per venire fin lì, sulle cascate tinte di verde del Goro Ho, significava una cosa soltanto: guerra.

Ma Doko aveva fatto pace con la pace, nei lunghi giorni, che erano diventati mesi, ed anni, e infine vuote parole che indicavano suddivisioni che avevano perso di significato, con la sola compagnia, e compagnia era davvero, dell’acqua scintillante che sciabordava allegramente sotto al suo sguardo disteso eppure mai distratto. Pensò che non aveva mai visto un ambasciatore di sciagura con due occhi tanto grandi e puri, e una freschezza nel volto che può esser figlia soltanto di saggezza, e del sole di montagna.

 

Mu gli disse qualcosa.

Parlava in modo completamente diverso da Sion, ma corrucciava la fronte nella stessa sua maniera. E Doko era vecchio abbastanza da concedersi il lusso di non prestargli troppo ascolto, per regalarsi invece il piacere di indagarlo. Avrebbe voluto chiedere a Sion, con viva curiosità, come mai non avesse aspettato qualche anno ancora, per proclamare lui suo successore. Non era perché l’attesa gli avrebbe salvato la vita, forse, tutt’altro: Sion era impaziente, ma non avventato; se aveva detto Aiolos, era perché Aiolos avrebbe dovuto essere, tutto lì. Però Mu era così evidentemente adatto al ruolo. Come il Sommo Sage prima di lui, così dopo avrebbe potuto essere un discendente della sua razza ad indossare il venerabile elmo.

Oh, non gli era mai piaciuto considerare Sion in termini di razza. Si era sempre fatto scrupolo di farlo sentire inferiore, con una definizione del genere, covando intanto la paura di vederlo anzi superiore. Per virtù, per forza, per bellezza soprattutto. E non si poteva negare: ricordava nitidamente il Sommo Sage, come anche il suo venerabile gemello, due figure piene di maestà; e Mu era bellissimo, bellissimo davvero, come i primi fiocchi di neve sulle rocce luccicanti della cascata. Quanto a Sion, poi, si era sempre divertito ad uccidergli il fiato nei polmoni con quelle sue labbra da cui era capace di stare ad ascoltare per ore parole d’amore, di saggezza, oppure enormi sciocchezze.

Quelle sue labbra, sì.

Era pericoloso chiedersi che cosa sarebbe stato disposto a dare per poterle sfiorare ancora una volta, anche una soltanto.

 

C’era da combattere, gli stava dicendo Mu. Lui socchiuse serenamente gli occhi, provando un po’ di nostalgia per la furia tossica dello scontro. Strinse fra le mani la sua povera coppa di legno colma di tè, mostrandole al suo ospite mentre beveva, come a dirgli “guarda, come pretendi che combatta con queste dita scheletriche e fiacche?”.

Mu dovette aver compreso, perché si zittì, imbarazzato. A Doko dispiacque di non poterlo rassicurare sulla sua reale potenza, ma scoprire le sue carte con qualcuno che si accingeva a far ritorno al covo del nemico era un rischio troppo grande.

 

Ora che il giorno dello scontro si avvicinava nuovamente, che Aiòn compiva il suo corso e del serpente infinito si intravedeva di nuovo la testa, Doko fu sfiorato da un debole dubbio.

Per quale motivo era rimasto, allora, a vegliare su quei sigilli che si sarebbero spezzati da soli?

E a che scopo Sion era, era…?

Aveva certo fatto buona guardia affinché nulla risvegliasse il temibile nemico prima del tempo, ma mai nessuno era venuto ad attentare alla calma sua e a quella di chi riposava lì inerme.

Era dunque stato tutto inutile?

Adesso che né lui, né Athena stessa avrebbero potuto far nulla per impedire la catastrofe, niente gli sembrava più vacuo che restare seduto lì con gli occhi fissi sulle ultime, sbiadite lettere che scolorivano sulla pergamena dei sigilli, macera quanto il suo corpo.

Il tempo che aveva gettato ad infrangersi contro le pareti immobili che aveva dovuto custodire, avrebbe potuto spenderlo fra le braccia di chi gli era più caro, invecchiando per davvero e più in fretta, magari, ma circondato da sorrisi e gioie?

 

Domande di un vecchio.

 

Era ancora troppo presto, e di ben altra guerra stava parlando Mu, fremendo non senza vergogna.

A questa guerra di vendetta Doko non avrebbe partecipato. Non nominalmente, ché era sua prerogativa mantenere gli equilibri il più possibile intatti e non lasciarsi andare alle pulsioni personali. Mu poteva farlo, era giovane ed apparteneva al fuoco. Shiryu sarebbe stato un degno delegato, di questo era sicuro.

Vendicare Sion.

Oh, sì.

Stringere le dita attorno alla gola di quell’impostore disgraziato – stringerle con tutta la sua sopita forza autentica – e ruggire “che cos’hai fatto, che cos’hai fatto, pazzo, sciagurato, assassino”.

E poi, stare a guardare la sua agonia senza muovere un muscolo, senza lasciarsi andare ad un fremito delle sopracciglia. Strozzarlo, come non si farebbe nemmeno con un cane rognoso. Assaporare il piacere stridente dell’ira che si libera nella vendetta, godere dell’espressione attonita del traditore morente, sputare sulle sue labbra tese e sempre più bluastre improperi che raggelerebbero gli dèi.

Fantasticherie, lo sapeva bene; sapeva anche che Saga era per davvero un povero disgraziato a cui si faceva una gran fatica ad addossare delle colpe.

E da quando la vendetta era un comportamento degno di un Cavaliere della Speranza?

Dettagli, cavilli, quisquilie.

La verità era che lui riusciva a sentire molto bene il rumoreggiare sotterraneo della roccia, mentre tutti gli altri se ne stavano a starnazzare su chi avesse tradito chi. C’era una dea da rimettere sul trono, una dea che, per fortuna, quel trono lo voleva, e poi c’era una nuova Guerra Sacra a cui prepararsi.

Ma combatterla senza Sion non aveva più alcun senso.

 

Tornò a guardare Mu, che ricambiava il suo sguardo sbattendo rapidamente le ciglia. Evidentemente doveva essere in attesa della risposta ad una qualche domanda che Doko non aveva sentito, e qualcosa gli diede la vertiginosa certezza, per un attimo, che di lì a poco si sarebbe spazientito.

Questione di istanti, e Sion avrebbe preso il suo posto. Con il suo indice affusolato lo avrebbe puntato.  “Ma mi ascolti o no?” avrebbe detto in tono accusatorio. “Posso avere la tua attenzione, o pensi di continuare a fissare la cascata?”

E sarebbe andato avanti ancora, e ancora, a rimproverarlo sorridendo via via sempre più, e alla fine incassando il suo mormorio di scuse con un broncio prezioso che non voleva dire niente, ma che stava così bene sul viso elegantissimo.

 

- Venerabile Maestro. –

 

L’impressione era già svanita, e lui non si era alterato. Incredibilmente, pareva che avesse ereditato da lui la pazienza che non aveva mai potuto insegnargli.

 

- Concedetemi la vostra forza d’animo, perché temo che la mia rabbia possa avere il sopravvento sul mio senso del dovere. –

 

Oh, Sion. Oh anima mia violata.

Oh stella, oh sacro.

Oh Sion, Sion. Puoi sentire le parole del tuo adorato allievo?

 

- Sì. È con te, la mia forza. –

 

Uccelli che cantano come violini al tramonto, sui riverberi di passato che poi, nulla sono, nel nulla cadono.

È quel dolore che ti fa chiudere gli occhi fino a quando il mondo non diviene una fessura che scintilla delle tue stesse lacrime.

E allora, che cosa fai.

Ti bevi l’esistenza e trovi che sappia d’albicocca.

Oh Sion, Sion che sei mio, Sion che sei morto.

Sion che sei un ciliegio in fiore.

Sion che canti come i violini del tramonto.

Quanto amore, quanto.

Da piangerci, da impazzirci, da morire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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