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Autore: Wolf    28/06/2005    1 recensioni
...io e te siamo come il cielo e un prato verde. Prova ad immaginartelo, un prato verde, immenso da non vedere altro che l'orizzonte, bagnato da luccicare. Sopra cosa ci vedi? Non vedi un cielo azzurro? Così azzurro da non poterlo guardare troppo a lungo. Ed ogni, ogni filo d'erba sembra strappare un pezzettino di cielo ed assorbirlo in se, sembra accarezzare quel manto azzurro con estrema delicatezza. E il cielo, come un onda in procinto di cadere, sembra immergersi nel verde, sembra abbracciarlo...
Genere: Malinconico, Romantico, Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo primo

 

Era il luglio del '98. Io abitavo in un piccolo paesino marittimo e frequentavo il quarto anno di un piccolo liceo scientifico della zona con la convinzione di aver sbagliato la mia scelta, quando in terza media avevo compilato il modulo d'iscrizione; ma nonostante la mia poca passione per quell'indirizzo, non avevo mai perso l'anno anche se a volte l'avevo passato proprio per il rotto della cuffia.

Frequentavo un gruppo di ragazzi del liceo artistico, con cui avevo iniziato ad uscire durante il secondo anno quando, il mio migliore amico, Diego Giacomazzi, detto "Maratona", aveva cambiato scuola dopo esser stato bocciato e si era iscritto all'artistico, conoscendo "I Bengala" ed entrando a farne parte portando dietro anche me, come di norma. Il suo soprannome, Maratona, era una storpiatura del suo precedente soprannome "Maradona", che gli era stata affibbiata il giorno in cui in una partita di pallone aveva fatto tutto il campo rincorrendo Pelletti, il capitano dell'altra squadra, che l'aveva sfottuto perchè aveva insaccato la palla nella propria porta.

Io e Maratona eravamo amici fin dai 6 anni. I nostri padri suonavano entrambi, il mio il sax e il suo il piano, in una jazz band del paese chiamata gli Aristomatti. Ed entrambi concordavamo sul fatto che il nome Aristomatti facesse davvero vomitare verde pomodoro rancido. E poi è stata un amicizia come altre, passata a giocare a Batman e Robin al lago o al parco giochi (e io facevo Robin se no m’incazzavo), a sfottere i turisti tedeschi che tanto non ci capivano, a fare scherzi alle ragazzine, a giocare a calcio, a parlare lingue inesistenti in mezzo al centro commerciale...

E così eravamo amici, io e Maratona, anche se ora, all'età di diciassette anni, tutti quei passatempi erano un ricordo lontano e di ciò ci rimanevano solo due passioni davvero comuni: la musica e le ragazze. E queste passioni le condividevamo con ‘I Bengala’; eravamo in cinque:

- Maratona,

- Davide "Riso" Merino, chiamato così perchè era fissato con la dieta del riso,

- Marco "Ottanta" Briskin, soprannome derivatogli dalla sua maglietta preferita (che possedeva in diversi colori: nero, rosso, azzurro e beige), che diceva "80 voglia disco party",

- Ruben "Okay" Guglielmini, il taciturno del gruppo che rispondeva a tutto Okay,

Ed ultimo, io, Leonardo "Leo" Di Stefano.

Ora voi vi chiederete: perchè in mezzo a soprannomi così strani il mio era l'unico soprannome normale? Perchè io rifiutavo qualunque tipo di soprannome che non fosse Leo o, al massimo, Leon. Ci avevano provato eh, oh se ci avevano provato... mi avevano affibbiato i soprannomi più strani della terra, talmente tanti e diversi da non ricordamene quasi nessuno, ma io non rispondevo a nessuno che non mi chiamasse Leo, o Leon, o Leonardo. E su questo ero cocciuto come un mulo. Anche se ne avevo di soprannomi, nella mia testa! Di simboli in cui mi rispecchiavo ce n'erano un infinità anche se uno su tutti... qualcuno lo sapeva, mio padre e una volta l'avevo accennato a Maratona anche se ero certo che se lo fosse dimenticato. Io ero il Principe Della Luna. Lo ero, mia madre mi chiamava così, quando ero un bambino. Ed allora era forse uno dei pochi ricordi che mi rimanesse di lei. E me lo tenevo bello stretto al cuore. Io ero il principe della luna e quando la guardavo, puoi giurarci, lei mi guardava. E sorrideva.

Fatto sta che noi Bengala eravamo piuttosto conosciuti nella zona. Non conosciuti come i Jellicle Cats o i T- Birds, ma nell’unico pub del paese, lo Zero Gravità, e nelle scuole dei dintorni molto prossimi sapevano chi eravamo. Lo sapevano soprattutto "I Lucci", un gruppo di ragazzotti figli di papà che non aveva nessun nome ma che noi, fissati com’eravamo con i soprannomi, gli avevamo presto dato a nostra personale discrezione. E ne avevamo discusso a lungo! Ottanta diceva che avremmo dovuto chiamarli "Gli allegri ragazzi morti" come il gruppo, Riso sosteneva il nome "Budini fritti" consono alla sua fissa per il cibo ed io e Maratona sparavamo nomi a caso senza sostenerli più di tanto. Poi, mentre ne discutevamo seduti al nostro tavolo dello Zero, Ruben aveva parlato: "Assomigliano a dei lucci..." aveva detto. E tutti avevamo all'improvviso smesso di parlare e l'avevamo fissato. Lui ci guardò, serio come la pietra da sotto il basco. Uno di noi, credo fu Ottanta, disse "Okay!" e la risata generale ci mise tutti d'accordo.

I Lucci facevano quello che potevano per infamarci andando in giro a raccontare le loro stronzate a cui tanto nessuno o pochi, cioè quelli con la puzza sotto il naso come loro, credeva. Ma loro ci provavano eh... una volta pagarono una ragazza con cui Maratona era uscito un paio di volte per dire che era incinta a causa sua. Successe il finimondo. Il padre di Diego gli tirò due sberloni tanto forti da gonfiargli gli zigomi e lui, il giorno dopo, ne tirò quattro al Capo dei Lucci, Ringo "Il Pollo" Pelletti, lo stesso che aveva inseguito alla partita. La rissa che si scatenò dopo è storia.

Fatto sta che di scherzi del genere ai lucci passò la voglia di farne.

Fu un sabato sera come tanti che Ottanta se ne venne fuori con la sua trovata

"Sai cosa pensavo?" mi disse dopo la seconda birra che mi pagava.

"No..." risposi io, guardandolo di sottecchi.

"Mi sembra giusto visto che ancora non te l'ho detto..." ripose, poi continuò "Mia sorella... la maggiore intendo... sai, L' Ale... stava cercando un attore... sai che lei fa teatro no?"

Io lo guardai, sapendo benissimo dove voleva arrivare "Si..."

"Beh tu saresti perfetto nel ruolo, non sarebbe perfetto ragazzi? Insomma lo sai come sono quelli di questo paese... o intelligenti o belli... invece tu mischi perfettamente le due componenti nella tua persona e inoltre studi teatro e..."

"No..."

"Ma..."

"No..."

"Per favore..."

"Guarda che lo so che volete che mi metta con l'Ale ma non si può..."

"Ma perchè no?"

"Il nome Emma non ti dice niente? Perchè non provi a chiederlo alla mia ragazza cosa ne pensa?"

"Ooooh... devi mollarla quella... è una stronza..."

"Oh! Allora? Cos'è sta storia? Non insultare Emma va bene?"

"Madonna ti ho solo chiesto di recitare in uno spettacolo! Mica di farti l'Ale! Ma si vede che non sei buono..."

"Ma vai a cagare va..."

"Va beh... come ti pare..."

Gli altri ci guardavano con i tipici sguardi di chi non sa quanto brutta è la piega che sta prendendo la situazione. Io rimasi a guardare Ottanta seduto sulla sedia.

"Oh va bene! Se è così importante lo farò... cosa devo fare? L'albero?"

 

  
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