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Autore: verolax    04/01/2010    1 recensioni
Sasori è un teenager con una personalità fuori dal comune; ma un avvenimento cambierà totalmente la sua vita… *** Terza classificata al contest "About the originality - quando il sadismo giunge al culmine" indetto da Nana° e X Saretta x sul forum di EFP, e vincitrice dei premi Angst e Originalità. ***
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akasuna no Sasori , Deidara, Sakura Haruno
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Le note della Follia

Questa fiction si è classificata terza al contest “About the originality – quando il sadismo giunge al culmine” indetto da Nana° e x Saretta x sul forum di EFP.

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La fiction ha inoltre vinto due premi: quello "Angst" e quello "Originalità", per i quali allego i banner.

Premio_Angst

Premio_Originalita'

Ringrazio le giudici per gli istruttivi commenti e i bellissimi banner; vi rimando al link del forum se volete leggere i giudizi:

http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8851555&p=17

 

 

Le note della Follia

 

 

Il mio nome è Sasori della Sabbia Rossa.

Ho sempre saputo di non essere come tutti gli altri; i sentimenti umani non mi toccano, mi lasciano totalmente indifferente.

Forse non sono sempre stato così; ma se un tempo ero diverso, non ne ho memoria.

 

Ho perso i miei genitori in circostanze misteriose quando ero ancora un bambino; da allora si prende cura di me un’orrida vecchia che io chiamo nonna, verso la quale però non provo la minima riconoscenza. Lei mi vuole molto bene e non mi fa mancare nulla; io non sopporto i suoi modi sdolcinati e quello sguardo pietoso e preoccupato che ha sempre dipinto in volto. Dice che si preoccupa per me, che sono troppo freddo e distaccato; che non capisce, dopo tutto quello che ha fatto per me, come io possa rimanere indifferente al suo affetto.

Ogni volta che trattiamo l’argomento io osservo i suoi occhi velarsi di lacrime con una scrollata di spalle e le rivolgo uno sguardo obliquo prima di uscire di casa sbattendo la porta. Ogni volta il solito rituale: appena l’eco dei miei passi si spegne in lontananza, la vecchia si lascia cadere sul divano sospirando e piange tutte le sue lacrime.

 

Lo so perché l’ho spiata dalla finestra.

 

Più osservavo il suo corpo mostruoso scosso dai singhiozzi e più l’odiavo.

 

Da quel giorno cerco di rimanere fuori casa il più a lungo possibile, uscendo tutte le sere e rientrando solo per dormire quando il sole è già alto.

 

Mio malgrado mi sono fatto un amico che mi fornisca un alibi per uscire; si chiama Deidara ed è un odioso biondino che s’illude d’essere un grande artista, ma in realtà è soltanto un pallone gonfiato.

Del resto il suo egocentrismo depone in un certo qual senso a suo favore: passiamo le nottate seduti al tavolo di qualche squallido bar di periferia, ciascuno chiuso nel proprio mutismo, ad ubriacarci, senza pretendere nulla l’uno dall’altro.

A dire il vero Deidara tenderebbe ad essere chiassoso, soprattutto dopo qualche bicchiere; ma il mio umore tetro riesce sempre a zittirlo.

“Dovresti dedicarti all’arte - mi dice sempre, aggiustandosi il ciuffo biondo sull’occhio sinistro – gli esseri tristi e cupi come te sono spesso grandi artisti”.

E mentre io rispondo con un’alzata di spalle, si affretta sempre ad aggiungere, “certo, non saresti mai bravo come me, ma che vuoi, io ce l’ho nel sangue…”

 

Oggi è venerdì; è un pomeriggio di Ottobre inoltrato, il sole ha perso la forza con la quale d’estate scalda spiagge e città e cuori della gente; fa freddo. È una stagione che mi si addice, perché le persone diventano cupe e tristi, e il Natale con le sue terribili sdolcinatezze è ancora lontano.

Sono chiuso nella mia stanza ad ascoltare Eminem. Il mio pezzo preferito: Criminal. Ad un certo punto il brano si interrompe per lasciar posto ad uno sketch spassosissimo, una delle poche cose al mondo in grado di farmi sorridere.

 

Eminem e un complice fermano l’auto davanti ad una banca; Eminem apre la portiera e scende, pronto per la rapina. Il guidatore lo blocca e gli dice, “Yo, Em…?”, il rapper risponde, annoiato, “What?”, e l’altro: “Don’t kill nobody this time…”

La portiera si chiude di scatto e Eminem si allontana bestemmiando sottovoce. Fischiettando entra in banca e si reca allo sportello, dove un’impiegata trilla con voce melliflua, “Come posso esserle utile?”. Si capisce che ha adocchiato il rapper, lo reputa carino, lo rimorchierebbe. Lui risponde con nonchalance che deve ritirare dei soldi, poi cambia totalmente tono di voce e appoggia con veemenza la pistola sul banco intimando alla ragazza di mettere i soldi nella busta se non vuol morire. Si sente il fruscio della busta di carta che si riempie di banconote mentre l’impiegata, con voce rotta dal pianto, lo prega di non ucciderla.

Finita l’operazione, Eminem attende una frazione di secondo, poi impugna la pistola, preme il grilletto e… BANG!

La giovane cade a terra con un tonfo sordo, ed è solo allora che Eminem, con voce da pazzo maniaco, le urla “Thank you!” prima di precipitarsi fuori dalla banca col bottino.

 

Come sempre a questo punto dell’esilarante scenetta io scoppio in una fragorosa risata.

Vorrei essere al posto di Eminem, per assaporare quella sensazione di potere inebriante, il potere di decidere della vita altrui, di reciderla in una frazione di secondo, muovendo appena l’indice di una mano; e poi fuggire a bordo di un’auto con i vetri oscurati, le mani ancora tremanti per l’eccitazione, e in testa un meraviglioso orgasmo di delirio d’onnipotenza.

 

Squilla il cellulare e mi distoglie mio malgrado da questi piacevoli pensieri.

È Deidara.

“Dimmi,” sbuffo.

“Si, anch’io sono contento di sentirti, Sasori,” ironizza il biondino dall’altro capo del telefono.

“Volevo dirti – prosegue – che stasera c’è un rave, ci andiamo?”

 

Immagini confuse dello scorso weekend – le luci, la musica, le droghe – mi affiorano alla mente; sento un’ondata di eccitazione assalirmi.

“Uhm… si, dai, si può fare,” rispondo, facendo finta che mi interessi in maniera del tutto marginale.

 

Preparo lo zaino con una felpa, una torcia, un paio di accendini e una lattina di birra; indosso i jeans larghi, le scarpe da skate e una felpa nera col cappuccio.

Mi guardo allo specchio compiaciuto: se non fosse per il colore dei capelli, potrei anche assomigliargli.  A Eminem, intendo. Mi torna alla mente la frase di un altro suo brano:

 

Should I dye my hair pink and care what y’all think…

 

I miei capelli sono di un rosso ramato chiarissimo, tendente al rosa; e in effetti, anche a me non interessa cioè che la gente pensa. Non mi interessa affatto.

 

Sprofondo nella mia poltrona preferita mentre con mani abili mi preparo una canna. Ad ogni tiro assaporo l’odore acre che mi permea le narici e butto fuori il fumo in eterei anelli che svaniscono dopo pochi attimi, perdendo progressivamente la loro forma in un turbinio meraviglioso.

 

Anche attraverso la porta chiusa sento il campanello suonare nell’ingresso e la nonna trascinare i piedi fino al citofono. Poco dopo bussa alla mia stanza.

“Il tuo amico è venuto a prenderti,” dice con una nota di disappunto nella voce.

Raccolgo lo zaino da terra e apro la porta di camera mia sperando di non incrociare l’orrida vecchia, ma non ho fortuna: mi aspetta nell’ingresso con l’aria di un cane bastonato.

“Sai che giorno è oggi?”

Sospiro. È una domanda trabocchetto, lo so.

“No,” rispondo, mettendo mano alla maniglia della porta, pronto a fiondarmi fuori.

Lei ha già gli occhi gonfi di pianto, mentre io apro la porta e metto un piede sul pianerottolo.

“E’ il mio compleanno,” dice lei, afflitta.

“Oh, beh. Auguri,” sbuffo, annoiato.

“Speravo di passarlo con te,” piagnucola lei, ma io ho già richiuso la porta alle mie spalle. Che terribile scocciatura, le donne. Specialmente quelle anziane.

 

***

 

Io e Deidara arriviamo al luogo della festa quando non c’è ancora nessuno. Un gruppetto di ragazzi sta montando l’impianto, costruendo a fatica il muro di casse, mentre in lontananza due pitbull ingaggiano una lotta all’ultimo sangue; i loro vocalizzi minacciosi squarciano l’aria come il rombo del tuono in estate, finché uno dei ragazzi non lancia loro una secchiata d’acqua gettandosi nella mischia per dividere gli animali inferociti. Ne esce bestemmiando con una profonda ferita alla mano destra, ma perlomeno i cani, ansanti e sanguinanti, si allontanano l’uno dall’altro.

 

Cala il tramonto sulla vallata desolata; arrivano i primi raver. La musica inizia timidamente per poi farsi sempre più assordante; le casse e i suonatori si sono ormai scaldati. Deidara mi prende da parte e mi fa provare qualche sostanza sconosciuta di cui non ricordo il nome; tempo cinque minuti e ci gettiamo in mezzo alla folla danzante.

Passano i minuti, poi le ore; la musica mi rimbomba nelle orecchie, penso solo a ballare e a scavalcare corpi umani fino ad arrivare in prima fila, alle casse.

Il tempo scorre senza che io ne abbia coscienza, la felpa nera col cappuccio finisce presto in cima ad una pila di sue compagne fradice di sudore, ogni tanto qualcuno mi allunga due tiri di canna o di sigaretta, contraccambio con la birra calda e ridotta ad un concentrato amaro di schiuma.

Improvvisamente sono stanco, mi voglio allontanare un po’. Tocco Deidara sulla spalla e gli faccio cenno di abbassarsi; sebbene più giovane, è parecchio più alto di me, e si deve piegare molto per portare l’orecchio all’altezza della mia bocca.

“Sono stanco,” urlo cercando di sovrastare il tuonare sordo delle casse, ma ovviamente lui non sente. Ha una tale espressione da ebete che mi fa quasi sorridere.

“EEEEH?” mi chiede, ma già si volta nuovamente verso le casse, vuole ballare.

“SONO STANCO!” ripeto, e questa volta sono sicuro che mi ha sentito, perché c’è stata una breve pausa nel martellare ritmico della musica techno.

Il problema è che le parole sono sì arrivate al suo orecchio, ma il suo cervello non è in grado di decodificarle, per cui restano per lui suoni senza senso alcuno.

Lo capisco dalla sua faccia.

Vabè, a dopo,” gli dico, sapendo di non sortire alcun effetto. Mentre mi allontano lo vedo sbraitare contro un poverino che nel frattempo gli aveva soffiato il posto davanti alle casse.

Mi faccio strada nell’ammasso gelatinoso e sudaticcio di corpi caldi in movimento per un numero imprecisato di minuti, poi finalmente percepisco la lieve brezza notturna sul mio volto.

Merda, almeno là in mezzo si stava al caldo, penso con un brivido. Sfortunatamente la mia felpa è rimasta a far compagnia a Deidara. Getto il mio zaino a terra, apro la zip e vi rovisto dentro alla cieca; non che al suo interno vi siano tanti oggetti, ma in questo momento non posso contare su una grande coordinazione muscolare. Bestemmio e rabbrividisco, rabbrividisco e bestemmio finché le mie dita sfiorano la tiepida e tanto agognata stoffa. Mi infilo la felpa di riserva mentre mi incammino verso un angolino silenzioso, dove inizio a rollare una canna.

 

Sono così concentrato sulla mia attuale missione, che in questo stato richiede il triplo delle facoltà mentali che impiegherei normalmente, da non accorgermi della presenza di un intruso. Mentre armeggio con filtro e cartina una giovane si siede silenziosa al mio fianco, e mi saluta con voce stanca.

“Ciao,” dice sospirando, “posso sedermi qui?”

Sobbalzo e mi volto di scatto a guardarla. Normalmente sarei notevolmente scocciato per una simile intrusione, ma la giovane è così bella da mozzare il fiato.

L’ovale perfetto del suo volto è incorniciato da lunghi capelli rosa, e i suoi occhi sono così verdi e limpidi da poter essere paragonati solo alle acque di un lago montano circondato da alti pini.

Scrollo le spalle, gesto che chi mi conosce mi vede utilizzare in moltissime occasioni, e lascio scivolare lo sguardo sul seno prosperoso (sarò insensibile, ma sono pur sempre fatto di carne), poi sulle mani che tiene intrecciate in grembo.

Sono grondanti di sangue.

“Hai appena ucciso qualcuno?” le chiedo, ironico.

“No,” risponde, lievemente piccata. Poi si guarda le mani e comprende. “Tutt’altro,” spiega. Ho appena finito di ricucire una mano umana e due dannatissimi cani,” termina con aria stanca.

Per il Sasori di tutti i giorni, queste informazioni sarebbero più che sufficienti per chiudere definitivamente l’argomento; ma la droga che mi circola in corpo e la bellezza della giovane suscitano in me una curiosità mai provata prima. Non mi trattengo, e fissandola in volto le domando se per caso è un’infermiera.

“Sono un medico,” mi informa con tono professionale.

Io sono sempre più confuso. “Che ci fa un medico ad un rave?” le chiedo di getto, senza pensarci troppo su.

“Beh,” ridacchia lei, “anche io ho fatto le mie idiozie, in passato; e benché non sia più mia abitudine drogarmi, mi è rimasta un’insana passione per la musica techno”.

Non so più cosa dire; dopo qualche attimo di imbarazzato silenzio è lei ad aprire nuovamente bocca.

“Mi è rimasto un unico… vizietto,” dice puntando gli occhi sulla canna che giace spenta e dimenticata tra l’indice e il medio della mia mano destra.

Meravigliandomi di esser capace di una tale generosità, non la lascio nemmeno terminare la frase e le infilo la canna tra le labbra accendendogliela con un unico gesto.

Fumiamo per un po’ in silenzio, poi arriva un energico ragazzotto dalla improbabile zazzera bionda che mi squadra dalla testa ai piedi con l’aria di chi, potendo, mi incenerirebbe sui due piedi; si china e dice qualcosa nell’orecchio alla giovane, che si alza prontamente.

“Beh, ciao e grazie,” mi saluta lei con un sorriso, “adesso devo andare”.

 

Mentre la guardo allontanarsi il ragazzo si volta indietro e mi rivolge un’ultima occhiata obliqua, cingendo contemporaneamente le spalle di lei con un braccio. Seguo la strana coppia con lo sguardo e con meraviglia scorgo la giovane che sale in console.

 

È lei la prossima a suonare. 

 

Tutto mi sarei aspettato, meno che questo. La ragazza non è un semplice raver, lei è una dei fortunati eletti che sanno suonare questa musica meravigliosa.

Spengo la canna, la lancio lontano con un movimento fulmineo del dito, e mi precipito nuovamente in mezzo alla folla; voglio essere primo in fila quando lei incomincerà a suonare. Voglio ascoltare la sua musica e ballare fino allo sfinimento.

L’inferno di quei corpi caldi mi accoglie come la tiepida bocca di un mostro assetato di sangue; finisco in mezzo ad un gruppo di raver particolarmente corpulenti ed agitati, e data la mia scarsa altezza e la mia costituzione un po’ gracile, resto svariati minuti a prendere calci negli stinchi e gomitate in faccia; è fastidioso, ma non sento alcun dolore. Voglio però liberarmi dal groviglio di quegli arti gesticolanti perché il mio obiettivo sono le casse. Non procedo che di pochi millimetri alla volta, sono scocciato e sto per desistere quando…

 

La musica. Questa musica. È lei, lo so, lo sento.

È meraviglioso. Suona da neanche un minuto e io sono rapito, in estasi.

Il mio corpo è pervaso da una forza sovrumana, è sostenuto dal ritmo martellante delle casse.

In un attimo sono in prima fila.

Il suono mi accarezza il volto, mi innalza sopra le nuvole, e mi fa provare un orgasmo dei sensi.

Vorrei urlare. Mi accorgo che tutti lo fanno, tutti hanno riconosciuto la sua mano dietro quelle note e alzano le braccia al cielo, chiamando il suo nome.

Sakura.

Così è questo il suo nome.

In mezzo al beat della techno si insinua una melodia dolce, come da carillon; l’ultima cosa che ricordo è il barrito di un elefante e la sensazione di freddo sulle dita, che meccanicamente si abbarbicano ad una sporgenza nel muro di casse. Piego la testa in avanti e la fronte si poggia sulla miriade di minuscoli forellini dai quali si diffonde il suono; sento le vibrazioni sul volto come rapidissime e microscopiche ondate di terremoto.

 

***

 

D’improvviso, non sono più al rave.

 

Sono in una grande casa nobiliare con pavimenti di marmo bianco.

Vedo me stesso bambino, il mio volto spunta dietro una maestosa colonna.

Faccio un passo avanti esponendo l’intero corpo alla visione del me stesso più adulto: Cristo, Sasori bambino è ricoperto di sangue. Le mani gocciolanti, lo sguardo fisso nel nulla, il bimbetto è immobile, ma singhiozza. Non scorrono lacrime sulle sue guance.

 

Panico. Indietreggio, sconvolto. Che accidenti significa tutto questo? Dove diavolo sono finito?

 

Aiuto…

 

“Ehi, amico!”

 

È la voce di Deidara. Aiutami… ti prego. Soffoco.

Sensazione di bruciore sul volto: Deidara mi schiaffeggia. Torno in me.

 

“Cristo, Sasori, ma che hai?!” domanda il ragazzo, preoccupato.

I-io non- …cazzo, Deidara, grazie!”

Cerco di tirarmi in piedi; non so come né quando sono finito a terra, sotto le casse, la musica è cessata, la gente sparita. Le braccia forti di Deidara mi sorreggono.

Non riesco a tenere la testa diritta e così mi ritrovo ad osservare il mio corpo; è ricoperto di fango. Frugo nella tasca della felpa alla ricerca di un fazzoletto, sperando di ripulirmi un po’.

Con mia sorpresa le dita incontrano un oggetto tondeggiante e metallico che non conosco. Lo estraggo dalla tasca, deciso a non stupirmi più di alcunché.

 

Invece mi stupisco, eccome. È un microfono: è tutto rosa e reca un piccolo biglietto rosso.

 

Prima di dedicarmi alla techno ero una cantante pop. Questo microfono è il mio portafortuna.

Lo regalo a te.

-          Sakura  

 

Appena la mia pelle entra in contatto con la superficie fredda del microfono, ho un conato di vomito e la testa prende a girarmi vorticosamente.

Indietreggio, inciampo e cado nuovamente nel fango causato dall’umidità mattutina e dallo scalpiccio di centinaia di raver.

 

Deidarapo-portami a casa,” balbetto, con la testa che martella e le farfalle nello stomaco.

 

 ***

 

Arriviamo sotto casa mia che è mattina inoltrata. Un pallido sole si affaccia dietro soffici nuvole bianche mentre Deidara mi saluta, squadrandomi con aria lievemente preoccupata. Mi allontano con un cenno della mano, salgo le scale con un senso di vertigini, sono costretto ad aggrapparmi al corrimano con tutte le mie forze. Arrivato finalmente in casa mi precipito in camera mia senza nemmeno cercare la nonna; mi getto sotto le coperte dopo essermi sfilato i vestiti, ridotti ad una pila maleodorante e fradicia di fango e terra. Sprofondo velocemente in un sonno senza sogni.

 

 ***

 

Lentamente, dolorosamente, apro un occhio, poi l’altro.

 

La mia stanza è immersa nella penombra; lancio una fugace occhiata all’orologio digitale sul mio comodino, constatando che sono le nove di sera. Ho dormito tutto il giorno.

La mia testa minaccia di scoppiare, appoggio le mani fredde alle tempie nel tentativo di alleviare un po’ il dolore, ma senza risultato alcuno. Il mio primo pensiero va al rave… a lei.

Nel cassetto del comodino ho riposto il microfono rosa: mi viene voglia di guardarlo. Sollevo il busto accogliendo con rassegnazione l’ennesima scarica di dolore nelle tempie e apro lentamente il cassetto. Mi sembra che scorrendo sulle guide faccia un rumore infernale.

 

Il dono di Sakura è lì, in cima ad una pila di fogli scarabocchiati. Allungo la mano per prenderlo; non ci arrivo, sono costretto ad sporgermi lateralmente, lo tocco appena con i polpastrelli.

Nell’istante in cui sfioro la sua superficie dura…

 

Di nuovo: la colonna, il marmo, me stesso bambino. Ma questa volta sono proprio *dentro* di lui.

Istintivamente mi osservo le mani: sono intonse e bianchissime. 

Niente sangue.

Sasori!” mi volto di scatto verso la voce squillante che mi ha chiamato.

Non l’ho mai vista, eppure ne sono certo: è mia madre.

Lo so; lo sento; non ho bisogno di alcuna conferma.

Lo so e basta.

La guardo avvicinarsi, sorride amorevolmente, è giovane e allegra, è bellissima.

“Vieni,” mi dice tendendomi una mano, “c’è un regalo per te”.

 

Buio. Nausea. Vertigini.

 

Panico.

 

Un urlo squarcia l’aria, un tonfo sordo.

Mi appoggio alla colonna di marmo con entrambe le mani, non mi reggo in piedi. Sollevo lo sguardo verso l’oggetto che mi sorregge: orrore. Nel punto in cui ho appoggiato i palmi, la colonna si è tinta di rosso. Le mie mani grondano sangue.

 

Sasori, Sasori, svegliati!”

La nonna mi scuote violentemente, facendomi tornare alla realtà.

La guardo stralunato; prima che lei possa rivolgermi qualsiasi domanda, mi catapulto fuori dal letto e verso il bagno.

Vomito.

Lei mi raggiunge, preoccupata: “Stai bene? Urlavi nel sonno.

“Vattene,” rispondo appena riprendo fiato. Non mi va che stia a guardarmi mentre riverso il contenuto del mio stomaco nel cesso.

Lei però mi poggia una mano sulla spalla.

“Sei sicuro?”

“Non sono un bambino,” la informo con astio, “lasciami in pace; non ho nulla, ho solo preso freddo, non vedi?”

Lei si allontana con passo stanco, e chiude la porta del bagno con estenuante lentezza.

 

***

Dopo una notte di sonno ristoratore, mi sento meglio.

Mi sono convinto che quelle assurde visioni derivassero dalla fantasia della mia mente, dato che con le sostanze psicotrope non ci sono andato leggero, venerdì notte.

Ho lo stomaco ancora rovesciato, ma per il resto affronto la giornata con insolito entusiasmo.

Eppure… c’è qualcosa, nella mia mente, che frulla; sono irrequieto, e non so perché.

Verso sera mi torna in mente Sakura, e ancora una volta sento un’inspiegabile voglia di osservare da vicino il suo microfono. Non riesco davvero a capire cosa mi stia succedendo, dentro; e forse anche fuori. Mi guardo allo specchio e mi vedo diverso, cambiato. Più adulto, forse.

Tento di rollare una canna, ma il primo tiro mi fa schifo e la spengo.

Sento che non ne ho più bisogno e che non ne avrò mai più.

In realtà mi fa piacere: non ho mai amato essere schiavo di nulla e di nessuno, io.

 

Prendo il microfono in mano.

 

Sasori! Vieni, c’è un regalo per te”.

“Non lo voglio, mamma”.

La giovane donna mi prende gentilmente per il polso, mi trascina verso un’altra stanza.

E dai, su! Tutti i bambini amano i regali, e poi questo è speciale, vedrai!”

“Mamma, non voglio,” ribadisco aggrappandomi allo stipite della porta, deciso a non spostarmi di lì.

Lo slancio di mia madre è però troppo, e le mie dita si stringono saldamente attorno al legno; nella foga delle due forze opposte e contrarie che si fronteggiano io finisco a terra rompendomi il labbro.

“Oh, Dio, scusa,” dice lei aiutandomi a rialzarmi, “non volevo, piccolo...”

 

Sento una strana rabbia assalirmi.

Di nuovo la nausea e il panico.

Il rumore di una porta metallica che si chiude dietro di me; ho paura.

Urlo, mentre le mie mani si tingono ancora una volta di rosso rubino.

Il colore del mio sangue.

Il sangue del mio labbro tagliato.

 

Squilla il cellulare, sono di nuovo nella mia stanza.

Ringrazio mentalmente quell’idiota di Deidara, ottimo tempismo. Quel sogno assurdo che stavo vivendo ancora e ancora peggiorava ogni volta, insieme alla nausea e al senso di oppressione che mi faceva provare.

“Ci ubriachiamo stasera, Sasori?” chiede il biondo, che non si è accorto di nulla.

Io sono ancora scosso dalla visione, e non rispondo subito.

In realtà ci sto pensando, ma l’idea mi ripugna.

“No, grazie; non ne ho voglia,” rispondo, cercando una scusa per riattaccare al più presto.

Ci riesco poco dopo grazie al mio umore nero e al mio cinismo.

 

Mi abbandono sul letto; devo riflettere; ma che diamine sta succedendo, qui?

Possibile che… ogni volta che penso a Sakura, io… anzi, ogni volta che tocco quel microfono, io

No, non è possibile.

Eppure…

In uno stato d’ansia crescente e d’eccitazione febbrile cerco il piccolo oggetto metallico, devo fare una prova. Lo trovo in un angolo, sicuramente ve l’ho scagliato io stesso mentre non ero cosciente.

Devo anche aver usato una discreta forza nel lanciarlo contro il muro, perché la vernice rosa si è staccata in più punti, lasciando intravedere il colore originale dell’oggetto. È blu scuro.

Sono indeciso sul da farsi; vorrei toccarlo, ma non so che altro mi potrà succedere.

Mentre indugio e osservo da vicino l’oggetto delle mie paure e dei miei desideri, noto che un grosso quantitativo di vernice si è staccato proprio al centro dell’asta. Accidenti, c’è una scritta.

È in corsivo molto piccolo, non riesco a leggere; e poi, è al contrario. Dovrei girare il microfono per sperare di capirci qualcosa.

Mi viene un’idea: prendo dall’armadio le mie bacchette da batterista e con cautela rigiro il microfono, portandolo sotto la lampada della scrivania. Sono emerse due lettere dorate, che risaltano splendidamente sul fondo blu scuro: OR.

 

E che accidenti vuol dire “or”?

 

…d’accordo, non ho altra scelta.

 

Sempre usando le bacchette scaglio il microfono contro l’armadio. Sono deciso a sbatterlo finché la vernice rosa non lascia il posto alla scritta dorata nella sua interezza. Voglio sapere che segreti nasconde questo strano oggetto, e perché mai la ragazza dai capelli rosa l’ha regalato proprio a me. Troppe domande si affollano nella mia mente mentre si fa strada prepotente una teoria, che non ci sia nulla di casuale nel mio incontro con Sakura, né tanto meno nel suo regalo.

 

Qualcuno bussa alla porta, una mano segnata dalle rughe apre timidamente, appare la faccia della nonna.

“Chi ti ha chiesto di entrare?” la aggredisco immediatamente.

“Scusa, è che ho sentito dei rumori, e…”

Si interrompe, interdetta nel vedermi in piedi vicino al letto mentre con le bacchette da batterista sono pronto a scagliare un oggetto mezzo rosa e mezzo blu verso l’armadio.

La sorpresa però passa in fretta, e lo sguardo da falco della nonna si fissa proprio sul microfono.

Ma cos…”

Prima che io la possa fermare, si avvicina e prende in mano l’oggetto proibito, rigirandoselo più volte fra le dita. È così vicina a me che riesco a leggere altre lettere nel frattempo riemerse sotto la vernice rosa; ora la scritta è composta di quattro lettere: ASOR.

La nonna ha un sussulto e lascia cadere il microfono a terra. A stento reprime un grido.

Si volta verso di me, la luce nei suoi occhi si è spenta.

Mi guarda con volto funereo e pallidissimo.

Sasori, dove hai preso quel microfono?” chiede sconvolta.

Sono spiazzato: non l’ho mai vista così.

“Beh, ecco, vedi, io…”

“Chi te l’ha dato?” mi interrompe, alzando la voce più di quanto io non le abbia mai sentito fare.

“Io non…”

“SASORI, RISPONDI! CHI TE L’HA DATO?!” chiede ancora, in un tono che non ammette repliche. Noto la vena del collo gonfiarsi pericolosamente. È fuori di sé.

“Nonna, io… una ragazza, si chiama Sakura, non so altro,” balbetto, in stato totalmente confusionale.

Quando sente quel nome, la nonna lancia un grido. Rapidissima raccoglie il microfono da terra e se lo sistema in tasca.

Mi guarda con orrore. “Questo lo prendo io,” dice, uscendo dalla mia camera e sbattendo la porta.

 

Adesso sono veramente in crisi.

Ma che accidenti aveva la nonna?

Cosa sa che io non so?

E d’altro canto, non oso chiederle nulla.

Per la prima volta in vita mia, sono intimorito da lei, sempre così buona e pacata.

Oggi si è trasformata in un mostro e mi fa paura.

Più di tutto, ho capito che conosce Sakura, e voglio scoprire come mai.

Con febbrile agitazione compongo il numero di Deidara sul cellulare.

“Vienimi a prendere,” gli dico con un fil di voce non appena risponde.

Lui sta per replicare, ma lo blocco: “Non fare domande”.

Dall’altro capo del telefono, il ragazzo scoppia a ridere. “Sei sempre il solito, ma d’accordo,” mi dice; “tanto, non avevo altri programmi per stasera”.

 

***

Siamo in macchina, fermi sotto casa mia. Diluvia; i vetri sono totalmente appannati. Deidara mi osserva con aria di chi non capisce nulla di ciò che gli viene detto. La sua espressione si tramuta da incredula a preoccupata: non tanto per il mio racconto sconclusionato, quanto per la mia evidente agitazione. Io vomito fuori un groviglio inestricabile di parole senza senso dalle quali ogni tanto emergono il nome di Sakura e il microfono maledetto.

Deidara… ecco, non so come… ti spiego, io… no, aspetta… volevo dire che… Sakura… quella ragazza… accidenti, tu non l’hai vista… il microfono, quello si però! Quello l’hai visto! Ecco, vedi, noi dobbiamo… dobbiamo trovarla, Deidara, dobbiamo trovarla SUBITO!”

 

Deidara si riprende velocemente dallo stupore iniziale, e recupera la sua solita aria da bulletto impertinente so-tutto-io. Evidentemente la situazione ha qualcosa di comico, perché scoppia in una sonora risata.

Ok, Sasori, adesso calmati, però,” dice con un ghigno ancora dipinto in volto.

“Chi è che dobbiamo trovare?” chiede.

Nel frattempo io mi sono calmato un po’, anche perché la sua risata mi ha fatto innervosire e tornare in me: dopotutto, rabbia e nervosismo sono sentimenti che più si addicono alla mia persona, mentre fino ad oggi non si poteva dire altrettanto riguardo a sensazioni come angoscia e agitazione.

“Una ragazza che suonava al rave sabato notte,” rispondo, lottando per restare il più lucido possibile. “Come faremo a trovarla,” aggiungo sconsolato, piantando gli occhi sul tappetino fradicio dell’auto utilitaria di Deidara.

Lui ride di nuovo, frugando contemporaneamente nello spazio portaoggetti della portiera.

“È facile,” dice poi trionfante esibendo un minuscolo e sgualcito foglietto, “guarda!”

Gli strappo letteralmente il piccolo volantino dalle mani: è il flyer della festa. In basso, sotto all’immagine di un muro di casse, c’è l’elenco dei gruppi che suonavano quella sera.

 

C’è anche lei: Sakura23. Fa parte di un gruppo di ragazze suonatrici chiamato “Techno Queens”: c’è l’indirizzo del Centro Sociale che utilizzano come casa base.

Non è lontanissimo da qui, penso con un tuffo al cuore. “Andiamo,” ordino a Deidara.

Uff, hai finito di dare ordini?” risponde lui, ma intanto ha già avviato il motore.

Questa ricerca lo intriga, anche se non ha capito nulla del perché io mi sia imbarcato in tale missione, e me lo conferma domandandomi se la ragazza in questione mi piace, se è carina.

Non mi premuro nemmeno di rispondere e sprofondo nel sedile con un sospiro. Sono agitato al pensiero del confronto con Sakura. Voglio scoprire tutto ciò che mi nasconde, e voglio uscire vittorioso dall’inevitabile confronto con lei. È vero, avevo pensato che fosse carina, anzi, bellissima. Adesso invece la vedo come un mostruoso essere indiavolato, capace di consegnarmi con un sorriso un misterioso e maledetto oggetto. Un oggetto che mi fa provare sensazioni orribili per me sconosciute. Un oggetto che, me lo sento, mi porterà alla rovina.

 

L’auto di Deidara si ferma in un parcheggio lurido costellato di lattine di birra e fazzoletti sporchi.

Ho il cuore in gola e mi tremano le ginocchia.

Mi detesto perché sino ad oggi non conoscevo il mio lato “umano” in grado di provare sentimenti quali paura, ansia, frustrazione, sgomento; voglio tornare ad essere insensibile come prima. Si vive molto meglio senza il fardello di queste orribili sensazioni. Si vive meglio senza sentire il cuore oppresso da mille irrisolvibili dilemmi; si vive meglio se non si è in grado di provare nulla.

Stringo i denti, le mie parole giungono all’orecchio di Deidara in un ringhio sommesso:

“Resta qui”.

Ma…” prova a protestare il curioso biondino.

“Per favore”. Io stesso stento a credere di averlo quasi supplicato, ma da quando ho incontrato Sakura non sono più me stesso.

Mi vergogno del mio comportamento, così volto rapidamente le spalle al ragazzo, lasciandolo ancora seduto al volante con la gamba sinistra a penzoloni, bloccata nello slancio della discesa a causa della mia richiesta.

 

Con la mano afferro il bavero del mio giubbotto per ripararmi dal vento gelido e dall’acqua sferzante che mi investe, mentre a grandi passi annullo la distanza fra me e l’ingresso del centro sociale. Entro fradicio in un androne scarsamente illuminato e dai muri anneriti, pieni di scritte colorate. Una giovane che in volto ha più piercing che pelle siede all’ingresso e mi rivolge un’occhiata perplessa prima di lasciarmi passare.

Uno squallido corridoio mi conduce alla sala principale. È deserta.

Serro le mani a pugno con una forza tale da sentire le mie unghie penetrare nella carne.

 

“Sakura!” provo a chiamare; la mia voce rimbomba nell’ampio e buio salone, sembra il rantolo di un morto giunto dall’oltretomba, o peggio: di un ragazzo che in un solo weekend, senza sapere come, si è ridotto ad essere il fantasma di se stesso.

Dopo un attesa che mi pare durare in eterno, una voce maschile mi risponde:

“Chi la cerca?”

 

La voce viene da un punto imprecisato sopra di me. Mi precipito verso le scale, le salgo a due a due. Un pianerottolo dopo l’altro, divoro i gradini scivolosi; non ci faccio gran caso, ma salgo almeno fino al quinto piano.

Arrivato in cima mi scontro con un corpo caldo e minuto; nello slancio non ho guardato dove mettevo i piedi, ho investito qualcuno.

 

Alzo lo sguardo: è lei.

 

Mi stava aspettando, glielo leggo in volto. Non ha più nulla dell’aria gentile dell’altra sera, ma un’espressione dura, astiosa.

 

Mi odia e io non la conosco nemmeno.

 

Mi odia e io non so neppure il perché.

 

Indietreggio di un passo, rischiando di ruzzolare giù dalle scale, ma riprendo in tempo l’equilibrio. La potenza dello sguardo di lei mi mette in soggezione, ma non voglio farglielo vedere.

“Dobbiamo parlare,” le dico serio cercando di rendere la mia voce più neutra possibile.

Lei mi fa cenno di seguirla e infila uno stretto passaggio che conduce alla sua camera.

Vi entra, la imito; chiude la porta dietro di me e io mi sento subito come un topo in gabbia.

Rimaniamo in silenzio a squadrarci l’un l’altro, senza riuscire a proferir parola.

Dov’è il mio microfono?” chiede infine lei. Il suo sguardo pare voler penetrare le profondità più recondite della mia anima martoriata.

Cosa sono quelle visioni… che quel tuo oggetto mi fa avere?” rispondo io, sentendo uno strano odio montarmi dentro.

“Siediti, Sasori,” dice, indicando il letto sudicio sul quale lei stessa si accomoda.

Non so se obbedirle, ma alla fine, esitante, appoggio appena le natiche sul bordo esterno del materasso, il più possibile lontano da lei.

“Sei riuscito a leggere la scritta sotto la vernice rosa?” domanda Sakura a bruciapelo.

“Solo in parte, ma cosa c’entr-

“C’entra eccome,” mi interrompe lei, senza accorgersi che ha impercettibilmente alzato il tono di voce.

“C’è scritto ASOR-”

“No.”

La guardo di sbieco.

Aspetta un attimo prima di correggermi.

“C’è scritto SASORI”.

“COSA?!?” Accidenti, capisco sempre meno di tutta questa storia.

“Quel microfono era tuo,” dice lei laconicamente. Il suo sguardo si posa alternativamente sul mio volto e sulla coperta sgualcita, che tormenta con le dita lunghe e affusolate.

“Sakura, adesso basta. Dimmi tutto: non ce la faccio più. Che cosa significa tutto questo?” sputo fuori le domande di getto, con rabbia, sentendo l’ansia farsi sempre più consistente. Mi toglie quasi il respiro.

“Era un regalo dei tuoi genitori -dei nostri genitori- per te. Tu eri piccolo e…”

La sua voce tradisce un leggero tremolio. Sakura stringe la coperta tra le dita fino a farle diventare bianche.

“Come?!?! Tu sei… mia sorella?!?” Ricordo vagamente di aver avuto una sorella, ma la nonna mi ha sempre detto che era morta nell’incidente che mi aveva portato via i genitori.

“Già, e me ne vergogno,” precisa lei, guardandomi con astio. Mi accorgo che i suoi occhi sono pieni di lacrime.

“E il microfono…?” chiedo; voglio riportare il discorso su ciò che mi interessa. Mi odiasse pure; non mi importa. Voglio sapere il perché di quelle orribili visioni.

“Era un regalo di mamma e papà. Tu non lo volevi, non ti è piaciuto e…”

 

E dai, su! Tutti i bambini amano i regali, e poi questo è speciale, vedrai!”

“Mamma, non voglio,” ribadisco aggrappandomi allo stipite della porta, deciso a non spostarmi di lì.

Lo slancio di mia madre è però troppo, e le mie dita si stringono saldamente attorno al legno; nella foga delle due forze opposte e contrarie che si fronteggiano io finisco a terra rompendomi il labbro.

“Oh, Dio, scusa,” dice lei aiutandomi a rialzarmi, “non volevo, piccolo...”

 

Sento una strana rabbia assalirmi.

Di nuovo la nausea e il panico.

Il rumore di una porta metallica che si chiude dietro di me; ho paura.

 

“Ecco il tuo regalo,” dice papà sbucando dalla stanza accanto.

Irato per il taglio sul labbro che sanguina copiosamente, e in collera per un regalo che non volevo ricevere, scarto il pacchetto con furia.

 

È un microfono blu.

 

Inciso a caratteri dorati, il mio nome: SASORI.

 

“Che schifo di regalo, mi fa schifo!!!” urlo, furibondo.

Mamma e papà si avvicinano a me con aria preoccupata.

Perché sei sempre così cattivo?” mi chiede papà con incredibile tristezza mista a rassegnazione.

“Sapevamo che ti piace la musica…” dice la mamma quasi in tono di scusa.

Sono vicini, troppo vicini; mi soffocano. Non sopporto i loro volti preoccupati, la loro tristezza e disillusione. Rabbia e nausea, nausea e rabbia.

Si avvicinano ancora, non lo posso più sopportare.

Li colpisco ripetutamente al volto con il microfono; crollano a terra, prima lui e poi anche lei, in una pozza di sangue.

Infierisco sui loro volti irriconoscibili, le mie mani grondano sangue.

 

Il sangue dei miei genitori.

 

Sono di nuovo nella stanza di Sakura, mi contorco sul pavimento lurido e freddo.

Lei piange sommessamente; io, senza volerlo, urlo.

 

Ho ucciso i miei genitori.

 

COME HO POTUTO?

 

Urlo nel mio cervello, mentre dalle mie orecchie giunge la stessa domanda, la voce di mia sorella:

 

COME HAI POTUTO?”

 

Cosa ti avevano mai fatto, loro, altro che volerti bene!?!?

 

La rabbia di Sakura, i suoi singhiozzi, il suo odio. Tutto giustificato, tutto comprensibile adesso.

 

Mi sento svuotato dentro. Ho bisogno di vomitare; lo faccio senza complimenti, aggiungendo sudiciume a sudiciume nella squallida stanzetta del centro sociale.

 

Alla vista della mia reazione, Sakura si calma un po’. Forse credeva che sarei rimasto impassibile, che tutto mi sarebbe scivolato addosso, come è sempre successo.

 

Fino ad oggi.

 

“Tu sei malato,” dice semplicemente Sakura, dopo un lungo e tormentoso silenzio; “nessun bambino sano di mente ammazzerebbe a sangue freddo i suoi genitori per un… regalo sbagliato.”

 

Non so cosa rispondere; l’immensità e la gravità delle sue rivelazioni sono per me insopportabili, il pensiero razionale mi è precluso.

 

Rimango in attesa, ascoltando i singhiozzi di Sakura, il cui ritmico succedersi mi culla in uno stato di semi incoscienza. Sento la lucidità scivolare via rapidamente e non tento di bloccarla.

Il silenzio si protrae penoso per lunghi ed inesorabili minuti, minuti durante i quali matura in me una folle decisione.  

Infine, Sakura parla. “Io ho visto tutto,” dice, con la voce rotta dall’emozione.

Visto che non do segni di aver inteso, anche se le sue parole mi feriscono come dardi avvelenati, lei si sente di specificare:

“Ero sul soppalco della sala, quel maledetto giorno,” continua, ormai fuori di sé nel ricordo delle mostruosità che era stata costretta ad osservare, quale impotente testimone ed inesorabile giudice; “Giocavo a nascondino con la nonna, e…”

 

Ancora silenzio, interrotto solo dal ritmico martellare delle mie tempie. Sento che la mia testa esploderà.

“Sono scappata, dopo. Scappata senza mai più voltarmi indietro; era l’unico modo per… poter anche solo sperare di continuare a vivere. Dimenticare la mamma, il papà, la nonna; ma soprattutto te.

 

Non si cura dei miei continui conati di vomito; rimane immobile sul letto, lo sguardo fisso al mio corpo, che si contorce come una serpe agonizzante.

 

Ma poi ti ho visto al rave. Sapevo che quel microfono avrebbe risvegliato in te questi terribili ricordi; volevo farti soffrire”.

 

Cala nuovamente il silenzio, la vedo asciugarsi le lacrime rabbiosamente col dorso della mano.

Solo ora, però, mi rendo conto che non è con la vendetta che si ottiene un po’ di pace”, conclude sospirando.

 

In quel momento non potevo saperlo, ma quelle erano le ultime parole che Sakura mi avrebbe mai rivolto.

 

La giovane, il volto ridotto ad una orrida maschera di sofferenza e lacrime, si alza di scatto e si dirige verso la porta, evitando accuratamente le pozze di vomito verdastro che ho riversato sul pavimento. Esce dal mio campo visivo; sento il rumore di una porta metallica che si chiude dietro di me, proprio come nella mia visione.

 

Sono rimasto solo, il panico mi assale; matricida, parricida, urla una voce implacabile dentro di me; la testa gira vorticosamente.

 

Ma io ho deciso.

 

Lentamente, dolorosamente, costringo il mio corpo debole, ridotto ad un vuoto involucro, ad alzarsi; mi reggo al letto, curvo sotto il peso dei miei inesprimibili peccati. Con esasperante lentezza raggiungo la finestra annerita, la apro; una sferzata di vento e pioggia mi investe, lavando il vomito dal mio volto. Sotto la finestra c’è una sedia, la uso per salire sul cornicione. Ogni movimento mi costa una fatica indicibile, ma la mia mente è risoluta come non mai. Dove non arriva il mio corpo stanco, arriva la superiore forza di volontà.

 

Rimango per un attimo in piedi sul cornicione, in precario equilibrio. Per la prima volta in tutta la mia vita, rivolgo gli occhi al cielo e mi pento.

 

Mi pento di esistere, di essere nato; di essere così maledettamente malvagio.

 

Ma per le anime nere come la mia, non vi è possibilità di espiazione.

 

Rivolgo lo sguardo in basso, nel parcheggio scorgo la macchina di Deidara. Il mio ultimo regalo per lui sarà il tonfo sordo del mio corpo sull’asfalto fradicio.

 

Con un ultimo sospiro spicco un salto; per un attimo rimango sospeso tra il cielo e la terra. Mi sento quasi felice. Mentre precipito non penso ad altro che non sia la piacevole carezza del vento sul mio volto.

 

È così che doveva finire: la morte reclama un’altra vittima, quella di colui che ha ingiustamente reciso la vita delle due persone che gliel’avevano donata. Non c’è giustizia a questo mondo, tranne quella che ci costruiamo noi.

 

Mentre il mio corpo viene scaraventato sull’asfalto, fantoccio vuoto senz’anima, sorrido; so che il mondo non mi rimpiangerà.

  
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