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Autore: LaMiya    05/01/2010    1 recensioni
È una storia un po' particolare, spero vi possa piacere. A me personalmente sembra scritta in un linguaggio un po' troppo infantile... mah, vedremo :)
[...] “Così. Hai visto i tatuaggi.” Lui fece una smorfia. “Non tenterò di negare chi sono, ma speravo che venendo qui avrei potuto dimenticarlo.”
[...]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Blood's Angels

~Summer~


- Mamma, papà… ho cambiato idea, sono pronta per partire!- il tono con cui avevo pronunciato quelle parole non sfuggì ai miei genitori, che mi squadrarono, seri:
- Ne sei sicura, Laura? Non credi che come decisione sia un po’ troppo affrettata? Non ti stiamo chiedendo di fare un semplice viaggio di un paio di mesi, dovrai startene via uno, due anni o forse anche di più.- Scossi la testa, sicura di me stessa. Volevo solo mettere più distanza possibile tra me e quel luogo, quella casa, quel paese, quella vita:
- Ne sono sicura. Ci ho riflettuto, e forse è davvero meglio che io me ne vada… andrò in Inghilterra come avevamo pattuito. Le valigie e la chitarra sono già pronte in camera mia. Non preoccupatevi – aggiunsi poi cogliendo lo sguardo ansioso di mia madre – ho diciannove anni dopotutto, credo di sapermela cavare da sola e poi mica vado a vivere in una capanna di legna, la famiglia l’avete scelta voi.- sorrisero, incoraggiati dalla mia sicurezza, ma io dentro ero divisa in due, come lo ero da diverso tempo. Non volevo realmente andarmene, non volevo abbandonare tutto quello che avevo così faticosamente costruito, ma sapevo che forse sarebbe stato meglio per tutti:
- Allora credo sia il caso di avvertire la famiglia, no?- mia madre si alzò dalla sedia e andò a prendere il telefono, componendo il numero marcato su un foglietto in cucina, poi lo passò a mio padre, che cominciò a parlare fitto in inglese con la persona dall’altro capo del filo. Non sarebbe stata affatto un’esperienza facile. Salii le scale che avrebbero portata al piano superiore, dubitavo fortemente che mi sarebbe mancata casa mia, era altro a preoccuparmi. Mi sedetti alla scrivania e presi fuori un blocchetto di fogli bianchi, poi mi presi la testa tra le mani, pensierosa. Che cosa avrei scritto agli altri? Come gli avrei spiegato quella mia partenza improvvisa? Non rammento per quanto tempo rimasi in quella posizione, con i gomiti appoggiati sulla scrivania e la testa posata distrattamente ai palmi delle mie mani, alla fine mi alzai dalla sedia e rimisi tutto a posto, non volevo peggiorare ulteriormente la situazione cominciando a spararmi una cavolata dietro l’altra.
Mi sdraiai sul letto, fissando il soffitto coperto di centinaia di poster: Miyavi, The GazettE, An Café, Alice Nine, Dir En Grei, X – Japan… tutti i cantanti giapponesi erano lì, e mi fissavano con quegli occhi di carta, mettendomi, a volte, pure a disagio. Il giorno dopo sarei tornata a scuola, al liceo che frequentavo e avrei rivisto per l’ultima volta i miei compagni, i miei amici di sempre, e li avrei salutati, forse con più enfasi del solito, sperando che nessuno di loro capisse cosa mi turbava: non volevo dare spiegazioni. Una lacrima mi scivolò lungo la guancia.
Quella storia si stava preannunciando un grande, gigantesco disastro.
Andai a letto alle 21.00, quindi presto per i miei standard, dopo aver fatto compagnia alla mia famiglia a tavola, ma senza toccare cibo. Quella notte non chiusi occhio.
Quando mi alzai, verso le 8.15, lo sguardo mi cadde subito sulle valigie ancora aperte che giacevano scompostamente sul pavimento della mia camera. Per l’ennesima volta in due giorni mi chiesi se stavo facendo la cosa giusta, e con mio grande rammarico, la risposta fu sempre positiva.
Dopo una rapida doccia fredda, che avevo preso l’abitudine di farmi ogni mattina per svegliarmi, mi vestii; il mio occhio sullo specchio, che rifletteva l’immagine di una ragazza, diciannovenne, alta un metro e sessantotto centimetri. A sedici anni pesavo 60 kilogrammi, ma negli ultimi tre ero dimagrita, cominciando a sfiorare i 44 kili, molti mi avrebbero definita anoressica se mi avessero vista in costume da bagno, ma io non ero così propensa a togliermi i vestiti in pubblico e nessuno era mai riuscito a vedermi oltre le spalle e le braccia. Avevo i capelli di un rosso intenso: ogni mese mi infilavo per tre ore intere in bagno e mi facevo il colore da sola, quanto andavo fiera del mio operato! Non ero pallida, o almeno, secondo me, non ero così eccessivamente pallida, ma gli altri la pensavano in tutt’altro modo. Avevo gli occhi di un marrone – verde, ma quando ero arrabbiata potevano diventare quasi neri da tanto si scurivano. Con un sospiro sconsolato scrutai il mio abbigliamento: una gonna che arrivava di una dozzina di centimetri sopra al ginocchio, un top, un giacchettino a metà pancia, leggins… il tutto rigorosamente nero, un paio di guanti a rete e un collare di borchie al collo. Ero pronta per il mio ultimo giorno nella tana del lupo, con un sospiro uscii dal bagno e mi diressi alla fermata del bus, dove avrei preso la posta che mi avrebbe portata a scuola in perfetto orario per iniziare la lezione delle dieci. Il postino mi salutò, amichevole ed io ricambiai, ormai mi conoscevano tutti visto il tempo che passavo fuori di casa, ma solo pochi avevano il coraggio di rivolgermi la parola, facendo chissà quali pensieri su chi io fossi. Mi sedetti vicino al finestrino e accesi l’I – pod, la chitarra di Miyavi mi riempì le orecchie con la sua musica, il mio sguardo si perse lontano, sognante: chissà se avrebbero sentito la mia mancanza i miei amici.

Sedevo nel banco in ultima fila, vicino a due mie compagne, non so esattamente se erano felici di stare accanto a me, ma essendo l’aula con ventiquattro posti, ed essendo la mia classe di ventiquattro persone, dovevano accontentarsi. L’ora di tedesco fu monotona più del solito, non riuscivo a concentrarmi e continuavo a perdere il mio sguardo fuori dalla finestra, quando la professoressa mi rivolse una domanda sull’uso dei pronomi relativi in una frase passiva, sbagliai risposta. L’ora di matematica, se possibile, andò ancora peggio, ero brava in quella materia, o almeno, a fare gli esercizi ero brava, a capire gli argomenti ero brava, a spiegare le cose e ad azzeccare le formule non ero da meno, ma evidentemente il professore aveva un inconfondibile odio nei miei confronti e non mi degnò neanche una volta di un’occhiata, nonostante fossi praticamente l’unica della classe ad alzare la mano quando faceva una domanda. La mia speranza di lasciare la scuola “in grande stile” andò in frantumi.
Durante la pausa andai al vicino supermercato con delle mie amiche, risi fino a scoppiare alle loro battute: Giulia e Manu, quanto mi sarebbero mancate, ma non potevo tornare indietro, non ora che ero arrivata così vicina al mio scopo! Quando fu ora di tornare a lezione le salutai, le strinsi in un abbraccio di gruppo, Giulia, come al solito, ricominciò a fare le sue battutine sconce, scatenando ancora una volta la nostra ilarità.
Le due ore successive, chimica laboratorio, furono se possibile ancora più noiose di quelle della mattinata, cominciavo a prendere in seria considerazione l’idea di avvelenare il professore con un po’ di quell’ossido di carbonio che aveva poggiato davanti a sé sul piano della scrivania e quando misi al corrente la mia vicina di banco del mio piano quella fece una smorfia, tentando di evitare di scoppiare a ridere. Ancora una volta il mio sguardo corse in giro per l’aula, soffermandosi sul viso di ogni persona, dopo quasi tre anni di liceo ero finalmente riuscita a farmi qualche amico, a parte Manu e Giulia, naturalmente, loro le conoscevo fin dalla prima e non mi avevano ancora abbandonata.
Finalmente finì anche quella giornata, le ultime due ore non erano state così eccessivamente morbose, la professoressa di italiano mi adorava e per me non era un problema seguire la lezione.

Il lunedì alle cinque la posta era fin troppo affollata, sentendo lo sguardo deluso di Manu sulla mia schiena mi sedetti il più lontano possibile da lei, mi sentivo in colpa, ma non avevo intenzione di cedere così facilmente alla tentazione di scoppiare a piangere e annullare subito la partenza, sedermi lontana da lei era già un passo avanti.
Come ogni sera cambiai posta e dopo essere saltata a bordo della coincidenza mi abbandonai sul primo sedile libero a mia disposizione, sentivo lo sguardo tagliente di Manu che mi scrutava dal suo sedile, sulla posta parcheggiata proprio affianco alla mia, ma non alzai lo sguardo, cercai di ignorare quella fitta che mi attanagliava le viscere. Mia sorella, seduta sul sedile poco più avanti del mio si voltò, sapeva che per me non era facile lasciare le mie amiche e sapeva anche che non avevo parlato con nessuno della mia partenza, sospirando tornò a chiacchierare con le sue compagne. No, non sarebbe stato per niente facile lasciare la mia vita.

Quella sera mio padre tornò a casa con la faccia più scura del solito, era il vicedirettore di una banca italiana che aveva una sede anche in svizzera, ma non era per colpa di questa che aveva la faccia scura. A cena scoprii finalmente il motivo del suo malumore:
- Partirai domani, oggi la famiglia mi ha telefonato e mi ha avvertito che da loro è vacanza, vogliono partire per una settimana e andare al mare, quindi te li raggiungerai con l’aereo delle 7.00. – Non feci una piega, lo guardai fredda e annuii, forse era meglio così, prima me ne fossi andata meglio sarebbe stato per tutti:
- Vado in camera mia a preparare le ultime cose, allora.- i miei genitori annuirono.
Per la seconda notte di seguito non riuscii a chiudere occhio. Mi alzai più di una volta in piena notte per controllare se avevo preso tutto, nella mia testa vorticavano le indicazioni di mio padre: mi avrebbe svegliata la mattina dopo alle 4.00 e mi avrebbe portata all’aeroporto di Milano, sarei salita sull’aereo per Londra e da lì avrei preso il treno che mi avrebbe portata in periferia, fino alla stazione di Brighton. Là mi avrebbe aspettata un membro della famiglia in cui sarei stata ospite, aveva tentato di descrivere il mio abbigliamento stando il più preciso possibile: avrei indossato i miei anfibi con la cerniera, così che mi sarebbe stato semplice togliermeli quando sarei arrivata al metal detector, la mia solita gonna nera, il top e il giacchettino…sapevo che i miei genitori non erano affatto d’accordo che mi vestissi in quella maniera, ma che potevo farci se mi piaceva?
Alle due di notte rinunciai ad addormentarmi e me ne andai in bagno, mancavano ancora due ore alla sveglia, quindi mi feci una doccia, mi asciugai i capelli e me li piastrai, infilando poi la piastra nella valigia, mi truccai e ricontrollai per l’ennesima volta il mio abbigliamento, volevo essere almeno presentabile. Alle tre avevo finito e non sapevo ancora come fare per passare il tempo. Mi allacciai a internet. Visitai tutti i siti in cui ero iscritta, non sapevo se ci sarei salita ancora durante la mia assenza, ma per sicurezza misi in bella vista il mio stato: “In Viaggio…non vogliatemene a male!”
Chissà se avrebbero capito e mi avrebbero perdonata? Sempre detto che gli sarei realmente mancata. Fissai ancora una volta quella scritta viola su sfondo nero. La cancellai. Tanto nessuno sarebbe venuto a visitarmi il profilo, meglio mandare direttamente un messaggio a quel punto. Digitai la frase e la mandai a tutti i miei amici, anche se non li conoscevo, chi se ne frega! Non rivederli per due o più anni, evidentemente il mio livello di masochismo era salito alle stelle negli ultimi giorni. Buttai la testa all’indietro e sospirai, per la centesima volta mi costrinsi a non piangere.

Quando entrai nella gigantesca sala dell’aeroporto seppi immediatamente che non ce l’avrei fatta se mio padre fosse rimasto lì a fissarmi, mi voltai verso di lui, cercando di risultare il più calma possibile e lui capì, in fin dei conti era mio padre, no? Non scoppiò a piangere come mia madre, mi abbracciò, semplicemente, sapevo che era più preoccupato lui di me, ma non lo dava a vedere. Mi sorrise e per l’ultima volta mi raccomandò di fare la brava e di telefonare a casa una qualche volta. Per l’ultima volta gli risposi che lo avrei fatto e poi lo salutai, guardandolo allontanarsi verso l’uscita.
Sapevamo entrambi che la mia era una mera bugia. Feci il check-in, affidando i miei bagagli e la mia amatissima chitarra al nastro trasportatore: cercando di non pensare alla morsa allo stomaco che mi era arrivata all’idea di quello che sarebbe potuto succedere a quello strumento di legno, mi diressi verso il controllo passaporti.
L’imbarco fu più lungo di quanto mi ricordassi, dopo che ebbero controllato il biglietto e il passaporto almeno una ventina di volte passarono ai bagagli, ai vestiti e alla borsa di jeans nera che portavo a tracolla. Dovetti togliermi cinture, collari, anelli e scarpe almeno cinque volte, e la prima, naturalmente, feci suonare il metal detector, che poi si scoprì essere sensibile agli orecchini, dopo essermi tolta i quindici pezzi di metallo che avevo nel corpo, finalmente riuscii ad arrivare al corridoio che mi avrebbe portata davanti all’ultimo ostacolo. La signorina mi guardò per vari minuti prima di annuire e farmi passare. Dopo altri quindici minuti ero seduta sull’aereo, pronta al decollo. Come sapevo bisognava fare spensi cellulare ed I-Pod e mi dedicai al libro che mi ero messa nella borsa prima di partire: “Stupid White Man by Michael Moore” era almeno la decima volta che lo leggevo, eppure il metodo di vita americano e la sfacciataggine con cui l’autore se ne lamentava mi continuavano ad affascinare.
Al mio fianco sedeva un uomo nerboruto dai capelli brizzolati, era vestito con un completo da lavoro e teneva in grembo una ventiquattrore, era uno dei tanti pendolari che andavano a Londra ogni mattina per poi tornarsene a casa la sera. Lo compatii, non doveva essere facile.
Quando la consuetudinaria spia si spense potei riaccendere la musica e rilassarmi. Mi assopii pochi minuti dopo e mi risvegliai all’aeroporto, grazie al signore che mi sedeva affianco, che mi svegliò gentilmente avvertendomi che eravamo arrivati. Gli sorrisi riconoscente e mi diressi verso l’uscita.

***



Mi ero arrabbiato, mi ero arrabbiato molto quando mia madre mi disse che avrei dovuto lasciar perdere la tanto attesa partita di basket per andare a ritirare quella stupida mocciosa alla stazione:
- Io e tuo padre non saremo in casa – aveva detto – quindi andrai a prenderla te alla stazione, l’aiuterai a sistemare i bagagli e le farai compagnia fin quando noi non saremo tornati.- A quell’ultima frase avevo cominciato ad avere dei dubbi:
- E quando tornerete?- avevo chiesto, per nulla convinto:
- Verso le nove di questa sera, dobbiamo andare a prendere le ultime cose per il viaggio.- credo che a quelle parole fossi diventato ancora più pallido di quello che ero al naturale:
- Ma c’è la partita, devo giocare, mi sono preparato per tre anni, non posso lasciarla cadere così.-
- Non fare storie, Luca, tu andrai a prendere quella ragazza, non dovrebbe uscirti molto complicato.- per la seconda volta durante la nostra conversazione mi parve fin troppo evidente che i miei genitori mi stessero nascondendo qualcosa. Imprecando sottovoce salii in camera mia a prepararmi, gliel’avrei fatta pagare a quella mocciosa.

Ero praticamente sdraiato sul sedile della macchina ad ascoltarmi la musica a un volume pauroso quando arrivò il treno, di malavoglia uscii dall’abitacolo dell’autovettura e mi diressi verso la piccola piattaforma che serviva da banchina, vi giunsi proprio nel momento in cui il treno si fermava ed attesi, non c’era praticamente nessuno che scendeva a quell’ora del giorno da quel treno, quindi non sarebbe dovuto risultare difficile individuare la ragazza. Mentre aspettavo che le porte si aprissero rimirai la mia immagine nel finestrino di una carrozza: capelli neri, ricci e dalla lunghezza non eccessiva, occhi scuri, corpo snello e muscoloso, carnagione pallida… ero assolutamente perfetto e niente e nessuno avrebbe mai potuto farmi credere che esisteva qualcuno di più bello di me nel raggio di una decina di chilometri. Mi dovetti smentire quando la vidi scendere dal treno: stupenda. Capelli rossi, vestiti neri, anfibi, snella, pallida… rimasi a guardarla mentre si guardava intorno, curiosa. Capii che cosa avevano voluto nascondermi i miei genitori, essendo lei l’unica ragazza scesa dal treno doveva essere per forza lei che si sarebbe seduta vicino a me nel viaggio di ritorno. Senza alcuna ragione ovvia tremai. Poi però mi riscossi, in fin dei conti era quella ragazza che mi avrebbe fatto saltare la tanto attesa partita di basket. Il mio sguardo s’indurì di colpo e feci un passo avanti, andando a posizionarmi dietro la ragazza:
- Allora? Vuoi darti una mossa?- Si prese quasi un accidente quando le parlai, è vero, forse ero stato un po’ rude e senz’altro inaspettato, però, che diamine, anche lei era delicatuccia, no?
Le presi le valigie, mentre lei si caricava in spalla la chitarra e mi seguiva, docile: camminava al mio fianco, tenendo lo sguardo basso e le mani intrecciate all’altezza della spalla, a tenere la fodera dello strumento.
Quando giungemmo alla macchina mi accorsi di aver lasciato la radio accesa, poco male, si sarebbe abituata subito al frastuono che mi accompagnava perennemente, spalancai il baule e vi gettai dentro le valigie di malagrazia,lei impallidì e quando le feci cenno di passarmi la chitarra scosse la testa, poggiandola lei stessa nel baule. Ghignai.
Quando entrambe le portiere furono chiuse accesi il motore e partii, ero abituato alla velocità, anzi, per essere precisi, amavo la velocità, quindi non mi feci molti problemi ed imboccai la strada che portava a casa nostra a centoquaranta chilometri orari, la ragazza guardò il tachimetro con un sopraciglio alzato, ma non fece obiezioni, voltando la testa verso il paesaggio. Non mi degnò di uno sguardo per il resto del viaggio, ma sapevo che era irritata dal volume alto della musica e dalla velocità: quando raggiungemmo un semaforo rosso mi fermai e mi voltai a guardarla. Anche lei mi fissava, sempre con quel sopraciglio alzato, poi finalmente parlò:
- Pensavo che uno che supera i limiti di velocità di novanta chilometri orari come minimo passasse anche con il rosso.- ghignai e le indicai il radar a poche decine di metri da noi, beccava chiunque non fosse stato in regola:
- E che sicuramente non avesse paura dei radar visto che ne ha appena passato uno all’ultimo incrocio.- impallidii, ne avevano messo un altro? Stavolta fu la ragazza a ghignare – scherzetto.- mi aveva preso in giro, aveva risposto alle mie provocazioni facendomi fare la figura del fesso, socchiusi gli occhi e la fulminai, ma lei non ci fece caso, ricominciò a guardare fuori dal finestrino:
- I Norther?- mi voltai verso di lei ancora arrabbiato, stava guardando il lettore CD, da cui proveniva ancora la musica, grugnii un verso di assenso. E lei sembrò capire, perché non fece più domande, mentre continuava a guardare il paesaggio mi sembrò di sentirla canticchiare insieme al cantante, ma probabilmente, mi convinsi, era solo la mia immaginazione.
Quando arrivammo a casa e spensi la macchina lei scese, senza aspettare né il permesso né che le andassi ad aprire la porta, si stirò le braccia, alzandole verso l’alto, da dentro la macchina potei vedere la sua schiena curvarsi all’indietro e rimirare i suoi glutei, cristo che fisico che aveva!
Respirai a fondo ed uscii nell’aria fredda del pomeriggio, potevano essere solo i miei genitori che decidevano di andarsene in vacanza la prima settimana di novembre.
Come avevo fatto alla stazione presi le valigie e buttai la chitarra alla ragazza, che la prese al volo e se la mise in spalla, sembrava essere nata per portare quello strumento. La condussi su per le scale e le indicai la sua camera da letto, che, purtroppo, era a fianco della mia. Mi dileguai quasi subito, lasciandole il tempo di disfare i bagagli, dovevo ad andare a telefonare ai miei compagni di squadra spiegandogli il perché della mia assenza. Quando appesi e mi voltai verso la porta lei era lì, appoggiata allo stipite, e mi fissava, mi sedetti sul letto e la fissai a mia volta, che diavolo aveva quella da guardarmi così?
Mi chiesi dove avevo visto il colore dei suoi occhi, sembrava quello dell’ambra, solo leggermente più verde:
- Sei sempre così delicato quando parli al telefono con i tuoi amici?- mi riscossi dai miei pensieri.
Ma perché questa parlava così bene l’inglese? Non sarebbe dovuta venire qui per imparare la lingua? Le risposi con lo stesso tono:
- Non dovresti impicciarti in affari che non ti riguardano.- lei ghignò, e io mi sorpresi tremendamente eccitato da quel sorriso:
- Peccato, ero intenzionata a farti una proposta, ma evidentemente mi vedo costretta a togliere il disturbo.- per la seconda volta da quando ero in sua compagnia, sbiancai:
- Vale a dire?- sibilai, furioso, lei si voltò nella mia direzione: - Pensavo che magari, visto quanto tieni a quella partita di basket, avresti potuto andarci lo stesso, senza dar peso alla stupida mocciosa che devi curare.- la guardai di sbieco, era una mia impressione o era rimasta ferita dalle mie parole?
- E tu che faresti nel frattempo?- il suo ghigno si aprì ulteriormente:
- Se sei veramente così bravo come ho sentito non dovrebbe essere un problema se ti accompagno, no?- sbuffai, cominciava a darmi sui nervi quella ragazza: finché erano sexy mi andava più che bene, ma quando cominciavano a diventare pure sfacciate la situazione cambiava.
Sapendo bene di essere stato fregato per la seconda volta di seguito afferrai il telefono e composi il numero:
- Ci sarò, la stupida mocciosa è più intelligente di quanto sembra.- mentre sentivo dall’altra parte del filo il mio compagno di squadra esultare vidi con la coda dell’occhio la ragazza che si voltava e se ne andava, con i capelli che le fluttuavano alle spalle. Stupidamente mi resi conto di non sapere ancora il suo nome.

Mi misi davanti al computer, avevo ancora un paio d’ore di tempo. Cominciai a navigare, finché non arrivai in MySpace. Avevo un messaggio di posta elettronica non letto, cliccai con il mouse: era un messaggio in una lingua di cui non conoscevo neanche una parola. Quattro parole in croce. Guardai il mittente ed impallidii, era lei, ne ero sicuro al cento per cento, ma allora perché non mi aveva scritto in inglese? La lingua la sapeva. Mi venne un dubbio. Presi al volo il dizionario inglese – italiano che avevo a fianco della scrivania e cominciai a tradurre:
“Non avetemene a male.”
- Che diavolo significa? È ovvio che l’ha mandato a tutti i suoi amici e che non sono io il diretto interessato, ma perché?- mormorai. Ero curioso, lo ammetto, ed avrei fatto qualunque cosa per capire che cosa voleva dire quella e-mail. Mi riscossi al suono della pendola, che giungeva attutito dal piano sottostante.
- Merda! La partita!- saltai in piedi e scattai verso la porta, afferrando al volo la giacca che avevo buttato malamente sul letto e le chiavi della mi fantastica Volvo argento metallizzato. Mi fondai in camera della ragazza – Muoviti! Dobbiamo andare.- lei era sdraiata sul letto, un braccio sotto la testa e teneva gli occhi chiusi, a quel punto ci vidi poco niente, mi avvicinai piano e la scrutai. Diamine se era bella! I capelli rossi le cadevano scomposti davanti al viso e si aprivano sul materasso. Non mi fermai a guardarla troppo, all’improvviso mi tornò alla mente il motivo della mia fretta e senza pensarci due volte presi a scuoterla, lei si alzò a sedere di scatto:
- Muoviti, stupida mocciosa, dobbiamo andare.- mi guardò in cagnesco per pochi secondi, poi saltò giù dal letto, spalancò la valigia e ne sfilò una giacca di pelle nera, afferrò, come avevo fatto pochi secondi prima io, la borsa che giaceva abbandonata sul letto e scattò verso la porta, seguendomi giù per le scale fino alla macchina. Si sedette sul sedile del passeggero alla mia sinistra, aveva gli occhi arrossati e il trucco era sbavato, senza che lo volessi veramente mi uscì di bocca una risatina, lei si voltò verso di me e impallidì, aveva capito perfettamente a cosa alludevo:
- Lo sai che i panda dovrebbero starsene allo zoo?- domandai, lei mi squadrò, poi abbassò il proteggi sole che aveva sopra la sua testa, alla ricerca di uno specchio. Risi ancora e abbassai il mio, prendendola in giro sul fatto che lei ne era sprovvista. Mi guardò:
- Lo sai che ne andrebbe della tua reputazione se andassi in giro con un panda?- il mio sorriso si spense mentre lei si alzava dal suo sedile e si spostava sulle mie ginocchia con un movimento sinuoso del corpo, il suo sedere aderiva perfettamente con le mie gambe, sentivo che si posizionava per stare più comoda e che prendeva fuori dalla borsetta una matita. Non respiravo, non riuscivo a respirare e non perché il suo peso mi bloccava il respiro (era più leggera di una piuma) ma perché sentivo il suo profumo, m’invadeva entrandomi fino alle ossa. Vaniglia. Senza che me ne rendessi realmente conto avevo fatto in modo di far aderire perfettamente il mio corpo al suo, mi resi conto immediatamente che la sua vicinanza mi eccitava tremendamente. Quando ebbe finito di truccarsi e si spostò sul suo sedile potei finalmente tornare a rilassarmi, avevo il cuore in gola per il nervosismo. Sapevo che prima o poi l’avrei desiderata, era nella mia natura non riuscire a controllarmi e volere obbligatoriamente tutto quello che volevo, eppure sapevo che con lei dovevo andare tranquillo, oltretutto ci sarebbero stati i miei genitori, che se avessero scoperto che me l’ero portata a letto mi avrebbero come minimo ammazzato.
Sospirai, come cazzo avrei fatto a mantenere la calma?

***



Quel ragazzo mi dava sui nervi, era sfacciato, arrogante e si credeva un dio sceso in terra solo perché aveva un aspetto accettabile…no ecco, forse un attimino più che accettabile. Il viaggio fino a casa sua fu un incubo, avevo letteralmente il terrore che la mia chitarra andasse a farsi consacrare, ma questi sono dettagli. Non lo guardai per tutto il viaggio e me ne fregai della musica che usciva dallo stereo ad un volume assurdo.
Ero triste, mi veniva da pensare a tutti i miei amici, alla vita che mi ero lasciata alle spalle e quando giungemmo ai parcheggi della palestra la mia tristezza crebbe maggiormente. Erano tutti lì, in piedi davanti all’entrata o seduti sui muretti che dividevano le macchine dalla zona pedoni, ed io ero ancora qui, in macchina, letteralmente terrorizzata all’idea di non farcela: sapevo che quell’idiota della famiglia mi avrebbe trattata dal schifo, non volevo essere sottovalutata già in partenza. Mi diedi un’ultima occhiata veloce nello specchietto retrovisore ed uscii dalla macchina. Il ragazzo era già andato avanti e stava chiacchierando con dei suoi amici, era una mia impressione o la gente si apriva per farlo passare? Mi costrinsi a raggiungerlo, sperando di non sembrare troppo nervosa.
So che quando cammino faccio quasi paura, mia madre mi diceva spesso che ho un portamento elegante e al contempo sicuro, io ero della certezza che fosse il mio abbigliamento, nero e con l’aggiunta di vari pezzi di metallo, ad incutere paura nella gente. Si dia il caso, comunque, che anche mentre passavo io la gente si aprì, così che mi fu più facile del previsto raggiungerlo davanti all’entrata. Mi squadrò per alcuni secondi, come aveva fatto alla stazione, poi si rivoltò verso i suoi amici, che lo guardavano chiedendosi chi mai fosse quella ragazza comparsa dal nulla:
- Fred, Carl, Michael, Joshua.- me li indicò uno per uno pronunciando i loro nomi ad una velocità pazzesca, mentalmente ringraziai mia madre che mi aveva fatto ereditare la memoria dei suoi genitori:
- Lei é…- si bloccò e si voltò a guardarmi, io ghignai. Sapevo benissimo che non conosceva il mio nome e sinceramente non avevo nessuna intenzione di dirglielo:
- Allora, genio, vediamo come te la caverai adesso.- glielo mormorai sottovoce, in maniera che solo lui potesse sentirmi, per la decima volta in un paio d’ore mi guardò in cagnesco, poi però anche le sue labbra si aprirono in un ghigno:
- …Miya.- si rivoltò verso i suoi amici, ed io non potei fare a meno di impallidire. Nessuno aveva il diritto di chiamarmi Miya, anzi, non avrebbe nemmeno dovuto conoscere quel nome. Forse le voci che temevo sarebbero circolate erano partite prima del previsto. Una voce mi riscosse dai miei pensieri:
- Hey Luca, la tua amichetta mi sembra meno sveglia del previsto.- Alzai lo sguardo e fulminai colui che aveva parlato con gli occhi:
- Attento, Fred, mi sembra in grado di mordere.- i ragazzi ghignarono seguendo il ragazzo in palestra, allora si chiamava Luca… che nome stupido. Rimasi inchiodata al mio posto, sentii gli sguardi degli altri ragazzi che mi perforavano la schiena, non ci feci caso. A passo lento mi diressi dall’altro lato dell’edificio, mi era sembrato di vedere una seconda entrata quando eravamo arrivati e sinceramente parlando non avevo nessuna intenzione di seguirlo. La trovai quasi subito ed entrai nell’ampio salone della palestra, vidi dall’altra parte Luca e i suoi amici che si dirigevano verso gli spogliatoi, non sembravano neanche essersi accorti della mia sparizione…poco male. Mi andai a sedere sugli spalti, il più lontana e nascosta possibile da occhi indiscreti.
La palestra si riempì velocemente ed io feci in modo di rannicchiarmi ancor di più nel mio angolino, sperando che nessuno avesse voglia di conversare o di fare domande a cui non avevo nessuna intenzione di rispondere. Purtroppo non fu così: quasi immediatamente si sedette al mio fianco un ragazzo sui vent’anni, carino, muscoloso e a prima vista anche abbastanza simpatico. Purtroppo quell’apparente simpatia scemò quasi del tutto quando si voltò verso di me e mi fece un sorriso a trentadue denti:
- Ciao!- una sola parola, detta anche con gentilezza, che però mi fece immediatamente capire che quella non sarebbe stata la giornata calma e senza scocciatori che mi preannunciavo. Dentro di me una vocina continuava a ripetermi di sorridere e annuire, intavolando una conversazione che sarebbe magari durata per le lunghe, ma sicuramente con un ragazzo simpatico, ma se la vocina diceva questo, perché la mia bocca aveva la tremenda voglia di aprirsi e muoversi formando la frase “Mi spiace, ma al momento non sono presente, per favore riprovare più tardi!”? Rimasi in silenzio per alcuni istanti, cercando di scegliere la risposta più adatta, optai per la prima:
- Ciao!- con uno sforzo sovraumano riuscii ad aggiungerci un sorriso, stavo migliorando!
- Non ti ho mai vista da queste parti, sei nuova?-
“Ma tesoro, è logico che se non mi hai mai vista sono nuova…”
- Si, sono arrivata oggi.-
- E dove abiti?-
“Ma che cazzo ti frega?” se la mia vocina interiore non si sarebbe azzittita all’istante in quella palestra avrebbe potuto scapparci il morto:
- A casa della famiglia Eyre, starò qui per un paio di anni.- il ragazzo impallidì e lanciò un’occhiata al campo, incuriosita da quella strana reazione lo imitai: Luca e la sua squadra erano già in campo, indossando i classici pantaloncini e la canottiera, credo fosse una mia impressione, ma lui stava guardando verso di noi e fulminava il mio interlocutore con lo sguardo. Senza farci troppo caso mi rigirai:
- Tutto bene?- Mi sorrise, ma vedevo chiaramente che non era affatto convinto:
- Si, scusa, mi ero distratto un attimo… allora: da dove vieni esattamente?- In fin dei conti quella conversazione non si stava rivelando un completo disastro:
- Dal Ticino.- mi guardò, perplesso – È in svizzera, per la precisione vicino all’Italia e alla Germania.- evidentemente le mie delucidazioni gli servirono, perché il suo viso si illuminò:
- I miei genitori hanno degli amici in Italia, è molto diversa da qui.-
- La svizzera è ancora più diversa, hai mai visto le alpi?- scosse la testa, ed io presi fuori il mio telefonino, dove vi erano ancora salvate delle foto fatte alla mia casa, gliele mostrai:
- Questa è casa mia e qui…- ne visualizzai un’altra, eravamo io, Manu e Easy ad Airolo – Siamo io e le mie amiche a sciare, al nord del Ticino.- la cosa che mi fece più piacere di tutte fu la sua faccia sorpresa alla vista della montagna ricoperta dalla neve:
- È… Wow, figo!-
Scoppiai a ridere, era la prima volta da quando ero partita, otto ore prima, che qualcuno riusciva a strapparmi un sorriso. Cominciavo ad apprezzare quel ragazzo. Nel frattempo, senza che nessuno dei due se ne fosse accorto, la partita era cominciata, la squadra in rosso, che sapevo appartenere a Luca, era indietro di due canestri, ma tutti i giocatori sembravano sicuri di se: Luca sedeva in panchina insieme a Joshua e Fred, i suoi occhi scuri seguivano ogni movimento della palla, senza per questo perdere di vista l’insieme del gioco; con voce dura spronava i suoi compagni a dare di più, consigliandoli sulla tattica migliore da prendere. Capivo poco, onestamente parlando il basket non era mai stato tra i miei sport preferiti, in cambio però adoravo la pallavolo:
- Conosci le regole del gioco?- il ragazzo alla mia destra aveva di nuovo cominciato a fissarmi, lo guardai sorpresa:
- In verità per niente, so solo che è proibito prendere a sberle l’avversario per rubargli la palla.- mi scoppiò a ridere in faccia, buttando la testa all’indietro e mettendo in mostra una fila di denti perfettamente bianchi e curati. Sorrisi anch’io:
- Se vuoi te le posso spiegare.- scossi la testa:
- Non vorrei deluderti, ma forse è meglio che rinunci.- mi guardò spaesato per un lungo attimo prima che mi accorgessi che forse potevo essere risultata scortese, cercai di rimediare:
- Le dimenticherei dopo due secondi.- ricominciò a ridere e questa volta mi unii e a lui, in fin dei conti ero arrivata fin li anche per divertirmi, perché non approfittarne?
- Da noi, particolarmente in questo paese, il basket non è così seguito, solo negli ultimi anni, da quando Luca è entrato a far parte della squadra del Liceo, viene apprezzato e rispettato particolarmente come sport.-
- Perché?- lui sorrise, amaro:
- Perché? Ma lo hai visto? Noi siamo dei comuni mortali in confronto a lui, il pubblico femminile lo adora per il fatto che è “stupendo”, un “Dio”. Il pubblico maschile perché è forte e si comporta come un vero capo. È da secoli che non vediamo un’ascesa al favore pubblico del genere.- Io scossi la testa, lo adoravano così tanto? Perché allora io lo consideravo semplicemente un pallone gonfiato da un ego gigantesco? Senza pensarci due volte diedi voce ai miei pensieri:
- Lo odio!-
- Chi?-
- Luca, il “Dio”, non so neanche io il perché, ma a me da l’impressione di essere un cafone e un maleducato di prima categoria. Odio le persone che mi fanno questa impressione!- il mio interlocutore mi guardò scioccato per alcuni secondi, poi riprese a ridere. La vocina nella mia testa cominciava a dar evidenti segni di nervosismo a quell’immotivata ilarità:
- Sei la prima ragazza che mi viene a dire una cosa del genere rimanendo seria.- il mio sopraciglio si alzò di parecchi centimetri mentre continuavo a guardarlo scocciata – Posso avere il permesso di invitare a cena fuori la ragazza più coraggiosa del paese?- Questa volta fui io a guardarlo sorpresa. Si! Quel viaggio non era poi risultato un fiasco totale. Accettai: - Ma non durante le prossime due settimane, non so esattamente il programma, ma la famiglia in cui vivo ha deciso di fare due settimane di vacanza. Li accompagno.-
- Allora ci rinuncio!- alzò le mani al cielo – sarai così attratta dal “Dio” quando tornerai che ti sarai completamente dimenticata di una cena con un comune mortale.- Risi di cuore a quell’esclamazione:
- Non ci giurerei.- La nostra conversazione venne interrotta dal fischio dell’arbitro – È finita la partita?-
- Solo il primo tempo, tra un paio di minuti inizierà il secondo.- mi guardò di sottecchi per un lungo istante, poi, improvvisamente si alzò in piedi:
- Arrivo subito.- lo seguii con lo sguardo, spaesata, mentre si allontanava, poi con un’alzata di spalle mi rivoltai verso il campo: adesso Luca, Joshua e Fred erano in campo, il primo era circondato dal resto della squadra e stava gesticolando animatamente, mi ritrovai a compatire quei poveretti che si stavano subendo la sua ira. Ad un fischio dell’arbitro i giocatori si riposizionarono in campo, Luca era in posizione centrale, o almeno così mi era parso di capire. Quando la palla venne messa in gioco attaccò, agile e scattante, il suo corpo si muoveva velocemente, molto velocemente, sembrava sapere esattamente dove doveva andare per ricevere la palla. Non ci voleva un genio per capire chi avrebbe vinto quella partita, era il suo gioco, la squadra avversaria poteva solo stare a guardare: - Hai cambiato idea sul suo conto?- il ragazzo era ritornato e mi stava porgendo un pacchetto di patatine fritte e un tè freddo:
- Oh si, stavo giusto pensando che dopo aver vinto questa partita il suo ego non potrà far altro che gonfiarsi ulteriormente. Ti rendi conto? Sarà più arrogante del solito!- feci finta di rabbrividire, provocando un altro scoppio d’ilarità nel mio interlocutore, stupidamente mi resi conto di non sapere ancora il suo nome:
- A cosa devo questa gentilezza?- indicai patatine e tè freddo, lui scosse la testa, poi sfoderò un sorrisetto:
- Giacché non sono affatto sicuro di riuscire a rivederti dopo le tue due settimane di vacanza ho pensato di offrirti qualcosa anche adesso. Oltretutto dopo un viaggio così lungo mi sembra normale aver fame, no?- annuii, e affamata addentai una patatina:
- Non potevi scegliere pasto migliore.-
- Come ti chiami?- per un soffio non mi strozzai con il tè freddo a quell’ultimo cambio di argomento, tra un colpo di tosse e un altro riuscii infine a rispondere:
- Laura, e tu?-
- Victor.- riprendemmo a mangiare in silenzio, guardando la partita:
- Quanti tempi ci sono in una partita di basket?- Victor sorrise:
- Ma allora non sai proprio nulla.- lo guardai imbronciata:
- La vuoi piantare? Mica è colpa mia.- ricominciammo a ridere, poi si lanciò in una dettagliata spiegazione delle regole del basket, evidentemente si era dimenticato dell’avvertimento che gli avevo fatto un’ora prima: MAI tentare di spiegarmi le regole di un gioco! Nonostante tutto però ebbi abbastanza pazienza e stetti ad ascoltarlo.

***



Quando tornai alla macchina lei era già li, sedeva tranquillamente sul selciato, sotto la pioggia che scrosciava insistente dal cielo. I capelli bagnati le ricadevano sulla fronte, ma non sembrava farci troppo caso, in mano aveva un telefonino portatile. Stava scrivendo un messaggio. Salutai con un cenno del capo i miei compagni di squadra e mi diressi a passo marziale verso il veicolo, aprii la macchina e mi sedetti sul sedile del guidatore, Miya però non sembrava disposta ad alzarsi da terra, abbassai il finestrino:
- Ti vuoi muovere? Non ho tutto il giorno di tempo.- mi sentii perforare dal suo sguardo, poi si alzò e venne dalla mia parte, mi si sedette sulle ginocchia esattamente come aveva fatto davanti a casa mia e poi scivolò sul suo sedile:
- Mi riesce particolarmente difficile se non apri la mia portiera.- sbuffai scocciato, era riuscita di nuovo a fregarmi.
Arrivammo a casa nella metà del tempo che avevamo impiegato all’andata, davanti alla casa c’era parcheggiata una Jeep a due posti, guardai l’orario: erano le nove e mezzo, i miei genitori dovevano essere tornati.
Entrammo in casa, ed io mi diressi verso la mia camera, sentii i passi che provenivano dal salotto dirigersi verso l’ingresso e poi la voce di mia madre:
- Ciao! Tu devi essere Laura, mio figlio è riuscito a trascinarti a quella sua partita di basket, vieni che ti faccio mangiare qualcosa, sei fradicia e congelata.- infine i passi che si allontanano verso la cucina e la voce di Laura:
- Buongiorno Signore… signora, grazie mille!- per ultimo mi immaginai la ragazza chinare la testa in segno di ringraziamento, chiusi la porta di camera mia e accesi il computer, dando così fine alle voci che giungevano alla mia camera. Mi connessi ad internet ed aprii messenger, immediatamente mi si aprirono una mezza dozzina di conversazioni: una era del mio migliore amico, Fred; altre erano di persone con il quale avevo parlato solo un paio di volte; l’ultima invece era di una persona a me completamente sconosciuta, la visualizzai e immediatamente mi colpì la foto che aveva sul nick:
- Oh no!- come facevano sempre a trovare il mio indirizzo di posta elettronica? I messaggi che continuava ad inviarmi si sovrapponevano l’uno dietro l’altro:
“Tesorooooooooo, che fine hai fatto?”
“Non mi vorrai mollare da sola dopo questa fantastica serata, vero???” Oh si invece che ne ho l’intenzione!
“Rispondimiiiii!!” Col cazzo!
“Lo sai vero che ti amo?” Io no!
“Non sono una di quelle puttanelle che si scopano e poi si buttano nel cesso, io!” Per me invece lo sei!

La bloccai. Quanto odiavo le scocciatrici, io volevo scoparmele e loro che facevano? Pensavano ad una storia seria, ma fammi il piacere! Io? Succube di una storia seria? Col Cazzo!
Intavolai una conversazione con il mio migliore amico a cui dovetti spiegare che per le prossime due settimane non sarei potuto venire agli appuntamenti perché i miei genitori avevano deciso di trascinarmi in una vacanza di famiglia:
“A proposito, come mai non mi hai avvertito dell’arrivo di quella meraviglia?”
“Quale meraviglia? La mia auto? Ma guarda che quella ce l’ho già da un po’!”
“Smettila di fare il finto scemo, della ragazza, quella in nero!” “Ah, quella… me n’ero completamente dimenticato… chiedo scusa ^^’ !”
“Per farti perdonare me la devi presentare, è stupenda cazzo!” “Te l’ho già presentata.”
“Ma io vorrei una presentazione più, approfondita **!”
“Non ci provare nemmeno… se te la porti a letto i miei mi ammazzano.”
“Ma… Ma… Ma… Ma io non sono stronzo come te. IO mica me la porterei a letto una sola volta è.é.”
“NON CI PROVARE.”
La conversazione sulla mia coinquilina si chiuse li, non toccammo più l’argomento quella sera. Quando scesi al piano inferiore pronto ad uscire per passare una notte nel locale del paese vidi la ragazza seduta sul divano con i miei genitori, chiacchieravano. Laura si era cambiata, indossava una maglietta a mezza manica e un paio di pantaloni del training lunghi fino ai piedi:
- Io esco!- feci un cenno ai miei genitori e mi diressi alla porta: - Vedi di tornare prima questa sera, domani partiamo e non ho voglia di aspettare mezzogiorno prima che te ti sia alzato.-
- Va bene!- mi chiusi la porta alle spalle e saltai in macchina, questa partì con un rombo e sfrecciò per le strade buie del paese, diretta in periferia.

Mi svegliai la mattina dopo con mia madre che mi urlava insistentemente di alzarmi. Ficcai la testa sotto il cuscino, maledicendola mentalmente. Dieci minuti dopo, quando mi resi conto che ormai riprendere sonno sarebbe stato impossibile, mi alzai. Trascinando i piedi e sfregandomi gli occhi mi diressi in bagno: occupato. Lanciai una bestemmia. Mai occupare il bagno quando è il mio turno, e non avevo dubbi di chi fosse la colpa in merito. Appoggiato allo stipite della porta aspettai che la mocciosa uscisse dal bagno, se dovevamo condividere tanto valeva che imparasse subito le regole del gioco. Ma dopo cinque minuti che la porta restava immancabilmente chiusa la mia pazienza cominciò a vacillare, fu allora che feci quello che non avrei mai dovuto fare, spalancai la porta ed entrai in bagno. Indossava dei semplicissimi slip neri con una maglietta dei Dark Funeral che le fasciava perfettamente il corpo: quando feci irruzione in bagno si tirò istantaneamente via dallo specchio verso il quale era sporta mentre si faceva il trucco. Mi fissò terrorizzata dalla posizione fetale in cui si era rannicchiata, mentre io restavo incantato alla porta a guardarla, come paralizzato. In quel momento capii che la voglia che avevo tentato di sopprimere aveva già cominciato a corrodermi, e non si sarebbe fermata finché non avessi ottenuto quello che voleva. Ed io ero più che propenso ad accontentarla. Ghignai mentre entravo in bagno e chiudevo la porta alle mie spalle:
- Il bagno a quest’ora è mio!- mi fissò stralunata mentre mi toglievo la maglietta dei Motley Crüe con cui dormivo e mi lavavo la faccia con l’acqua fredda. Sempre con il suo sguardo puntato addosso presi la piastra e mi misi a posto i capelli, mi truccai leggermente con la matita. Quando ebbi finito di prepararmi mi rivoltai verso la ragazza che per tutto il tempo avevo tenuto d’occhio grazie allo specchio che avevo di fronte: - Ora, dolcezza, il bagno è tutto tuo.- afferrai la maglietta che mi ero tolto e uscii dalla porta. Per la seconda volta ghignai, da quel momento sarei diventato il peggiore incubo di quella ragazza e, che lei lo avesse voluto o meno, prima o poi me la sarei anche portata a letto.

***



Lasciammo la casa verso le nove del mattino, la sera prima mi avevano spiegato che saremmo andati in macchina alla stazione ferroviaria e che da li avremmo preso il treno per l’aeroporto di Liverpool dal quale saremmo partiti per l’America. Non tentai di nascondergli che avevo sempre desiderato rivedere quel paese e loro furono lieti di apprenderlo. Jack e Sarah, i genitori di Luca, avevano finito per caricare tutti i bagagli sulla Jeep, ma essendo questa un veicolo a soli due posti io fui costretta a sedermi ancora una volta al fianco di Mister Ego sulla Volvo metallizzata.
Non ci parlammo per tutto il viaggio e la tensione che alleggiava tra di noi si poteva tagliare con un filo del rasoio. Lui odiava me, ed io odiavo lui. Conclusione: quella convivenza sarebbe risultata più dura del previsto e non parlarci per più tempo possibile avrebbe senz’altro agevolato le cose.

La sera prima Victor aveva insistito per avere il mio numero ed io non feci eccessiva resistenza nel darglielo, così durante tutto il viaggio continuai la conversazione che avevo iniziato la sera della partita: scoprii che non era un appassionato del basket come molti pensavano, ma che preferiva l’hockey; adorava la carne al sangue e non si può proprio dire che è una notizia che rallegra la giornata ad una vegetariana convinta, in cambio però adorava leggere e scrivere, e come me, andava pazzo per i libri psicologici nello stile di Edgar Allan Poe e Oscar Wilde; frequentava lo stesso liceo dove avrei studiato io per i prossimi due anni e da quello che era riuscito a capire dalle voci che circolavano in giro avremmo seguito il corso di Storia Dell’Arte insieme. Capii che come tipo non si basava solo sull’aspetto fisico prima di giudicare una persona e questo mi fece piacere.

Espira.
Ispira.
Espira.
Ispira.
Espira…
Tentavo, tra l’altro inutilmente, di non cedere all’ira e finire per prendere a schiaffi il ragazzo che mi sedeva al fianco. Per convincermi provavo a farmi una lista mentale di possibili qualità che possedeva, ed ero arrivata alla conclusione che (a parte un bel fisico) non ne aveva nessuna! Questo non aiutava sicuramente il mio autocontrollo. E sicuramente la distruzione di ogni forma vivente nel raggio di cinque metri non avrebbe giovato alla mia fedina penale.
In quel momento credevo veramente di stare per esplodere: forse tentare di raggiungere il Nirvana mi poteva aiutare a mantenere la calma.
…Ispira.
Espira.
Mi fissava insistentemente. Troppo, insistentemente. I miei genitori mi avevano sempre insegnato a non desiderare la morte altrui, ma qui rischiavo di diventare peggio di Wolverine e assistere a una crescita delle unghie fin troppo smisurata e non era nei miei piani futuri diventare un altro mutante della dimensione X-Men.
- Ci sarà da divertirsi durante queste vacanze.-
- Dipende che cosa intendi per divertirsi.- forse ero stata fin troppo acida
- Bè – si inumidì leggermente le labbra con la lingua – se stai bene con i vestiti, figuriamoci in costume.- impallidii. Non era solo sfacciato e arrogante, ma era anche riuscito a… Terrorizzarmi. Costume da bagno? Di questo non mi avevano parlato.
Espira.
Ispira.

EspiraIspiraEspiraIspira. Niente panico. Manteniamo la calma, ecco… lo vedo… il Nirvana!
- Io… non faccio… il bagno.- alzò un sopracciglio:
- Non dirmi che sei ingrassata – mi stava prendendo in giro e non potevo neanche fargli cambiare idea:
- Fottiti.- con un sorriso tornò a guardare fuori dal finestrino dell’aereo.
Per quanto riguardava il mio autocontrollo: il segreto era continuare a respirare.

Fu il viaggio più lungo e snervante che facevo da parecchio tempo: e ne avevo fatti di viaggi lunghi, ma nessuno, nel modo più totale, poteva essere definito snervante quanto quello.
E quando scesi dall’aereo avevo una missione.

Scopo: non farmi ASSOLUTAMENTE vedere in costume da bagno.
Partecipanti: io
Nemici: Mister io sono bello e me ne vanto

Ma i possibili svolgimenti di questa missione… bè, erano ancora dispersi nell’oblio. Vi pensai per tutto il tragitto dall’aeroporto all’albergo rischiando di rinunciarci quando andai a sbattere contro il fattorino e rinunciandoci definitivamente quando la mia testa cominciò a formulare piani che riguardavano delle misteriose catapulte e delle donne cannone che mangiavano i Marron Glassè.
Il clima di New York mi faceva decisamente male.
Ringraziai tutti i santi che comprendeva il mio ateismo quando scoprii che mentre Ego andava alla piscina dell’albergo Jack e Sarah sarebbero andati a visitare le meraviglie del luogo: senza domandarmi più di quel tanto quali meraviglie si potessero andare a scoprire a New York, mi unii a loro.

Guardavo il bar che mi si stagliava di fronte: Jack e Sarah erano già al suo interno e probabilmente si stavano chiedendo se ero forse una folle a non avere l’assoluta intenzione di entrare nel ristorante più famoso del mondo. Chissà se avevano già dimenticato tutto, chissà se erano stati così intelligenti da togliere quel minuscolo cimelio dalla vista delle persone accorgendosi infine di quanto fosse insignificante dopo aver letto i giornali del mattino. Chissà se quel fottutissimo plettro nero fosforescente esisteva ancora: non avevo intenzione di entrare a controllare!
- Vi aspetto fuori – sorrisi e feci un cenno con la mano indicandogli che sarei andata a fare un giro per la città mentre li attendevo. Mi voltai e m’incamminai per la prima via che mi si parò davanti al naso.

Tornammo in albergo dopo che il sole era già sparito dietro i grattacieli di New York. Entrai nella mia stanza, adiacente a quella di loro figlio, con l’intenzione di prepararmi per la cena ed ero quasi pronta quando mi venne la brillante idea di sdraiarmi sul letto a riposare un attimo: mi addormentai.
Quando mi svegliai doveva essere passata da poco la mezzanotte e mi sentii terribilmente in colpa con Jack e Sarah per non essere scesa a cena con loro: richiusi gli occhi e sfregai il viso nel cuscino, assaporando l’odore di New York. Non avevo più sonno e non inoltre era cominciata ad arrivarmi la fame: afferrai la borsa che giaceva di fianco al letto, mi fiondai verso la porta della stanza e due secondi dopo girovagavo libera per le vie di New York. Feci un rapidissimo calcolo e dopo aver appurato che avevo tutto quello di necessario a passare un paio d’ore fuori a bere entrai nel primo bar che mi si parò di fronte: Irish Pub, già solo il nome sarebbe bastato a provocarmi un orgasmo su due piedi… io amavo l’Irlanda, cazzo se l’amavo.
Ordinai una Guiness e mi sedetti al tavolino più lontano possibile dall’entrata e meno visibile da altri: sorseggiai la birra… tiepida esattamente come doveva essere e come piaceva a me. Sospirai. Avrei dovuto chiedere scusa a Jack e a Sarah la mattina dopo.

***



Quelle fottute, benedette e dannate vacanze finirono in fretta… molto in fretta, fortunatamente.
Avevo la necessità di arrivare a casa, prendere una di quelle troiette delle chear leader e sbattermela fino a perdere sensibilità. Cavolo!
La cosa più ridicola è che quella necessità era nata grazie ad una ragazza che non avevo nemmeno mai visto in costume da bagno… mah, i misteri della vita.
Continuavo a fare supposizioni sul perché non aveva mai voluto fare il bagno e continuava a girare completamente vestita persino nella piscina dell’albergo.
Le possibilità erano molteplici:
1- Da bambina aveva avuto un incidente ed era rimasta sfigurata, così che adesso si vergognava a far vedere il suo corpo sfigurato.
2- Pensando di esser grassa si vergognava a togliersi la maglietta.
3- In verità era una nazista e sotto la maglietta portava il tatuaggio di una svastica.
Ora che ci pensavo bene le possibilità che mi stavano venendo in mente erano una più scema dell’altra. Avrei dovuto studiarci sopra meglio in seguito, quello era certo.
Scesi dall’aereo dovemmo correre per riuscire a prendere il treno in tempo, e il viaggio fu sufficientemente tranquillo: ero seduto vicino a Laura (come avevo scoperto chiamarsi la mia nuova coinquilina) che guardava fuori dal finestrino ascoltandosi una musica a mio parere semplicemente disgustosa:
“Come fai ad ascoltare quella schifezza?” mi guardò con uno sguardo di sufficienza:
“Solo perché tu te ne strafreghi dei problemi altrui non significa che io debba fare lo stesso… gli Ska-P parlano del popolo e il popolo, che ti piaccia o no, è la mia famiglia. A me fa piacere sapere cosa sta succedendo alla mia famiglia e quando riesco a far qualcosa per aiutarla son felice.”
“Esistono i telegiornali se è per questo.”
“Quelle schifezze raccontano solo quello che vogliono loro e come vogliono loro.”
Per quanto mi sforzassi quella ragazza non riuscivo proprio a capirla. La guardavo stranito mentre tentavo di ricollegarla a qualcuno che sapevo di conoscere, ma che non mi tornava proprio in mente.
Scesi dal treno con i miei bagagli in spalla, seguito a ruota dai miei genitori e dalla ragazza: i miei parenti se ne tornarono a casa con la loro Jeep mentre io, dopo aver caricato i bagagli miei e “di quell’altra” in macchina mi diressi a casa di Fred. Lo ammetto, avrei potuto benissimo portar prima la mocciosa a casa, ma l’idea di passare una mezz’ora in più in macchina con lei mi portava a uno stato di eccitazione tale che non era mia intenzione rinunciarci così facilmente.
Come previsto il mio migliore amico era in casa e con lui c’era anche Jessika, una delle chear leader più stupida e barbie mai vista… fortuna che almeno scopare lo sapeva fare.

Lasciai Fred e Laura in salotto a parlare: sapevo di potermi fidare del mio amico, non avrebbe mai toccato una ragazza se avevo un motivo valido per non fargliela toccare, e i miei genitori erano un motivo più che valido.
Jessika mi seguiva come un cagnolino segue il suo padrone, non fece nemmeno in tempo a capire dove eravamo che avevo chiuso la porta alle nostre spalle e l’avevo sbattuta rudemente contro di essa: famelicamente mi appropriai della sua lingua per scendere poi lungo il suo collo. La coprivo di baci e piccoli morsi e la sentivo vibrare sotto le mie mani, in preda ad un piacere sempre maggiore: con una mano le abbassai la maglietta e il reggiseno quel tanto che bastava perché la mia bocca riuscisse ad impossessarsi del suo capezzolo. Mentre continuavo a procurarle piacere succhiandole e torturandole quelle meraviglie fatte di silicone la mia mano scese fino all’interno coscia e cominciò ad accarezzarle la femminilità già bagnata.
Non stavo cercando di procurarle piacere per poterne godere come si fa con la persona amata: quando io facevo sesso, lo facevo in maniera egoista, per il mio solo ed unico godimento… e fu così anche quella volta, quando presi Jessika.
Dovevo togliermi l’immagine asfissiante di Laura, e l’unico modo era sfogarmi.
E l’unico modo per sfogarmi che conoscevo, e che mi venne in mente sul momento, era del vecchio, sporco, sano e volgarissimo sesso… si certo, c’era anche la box o il basket, ma gli sport finiscono solo per sfinirti, non per toglierti le voglie della carne, ed io quando avevo voglia… beh, ero instancabile.

Sedevamo in macchina, insieme: ci eravamo congedati da Fred pochi minuti prima e avevo capito subito che la mia coinquilina gli interessava particolarmente. Nel breve tempo in cui io e Jessika ci eravamo assentati era riuscito a far conoscenza con Laura, che sembrava avere una certa simpatia nei suoi confronti.
La guardai meglio nel tragitto fino a casa e mi resi conto di una cosa terribile, disgustosa, paurosa… la volevo ancora.
ARGH! Porca …
Ero fregato. Decisamente, irrimediabilmente, fregato. Che diavolo mi stava succedendo?



Angolo delle mie storie:

The Begin of the Experience Originali - Generale

The Zodiac's Symbols Originali - Fantascienza

Bring me in your World Harry Potter

Memorie di un uomo Originali – Drammatico

Volere… Volare Originali - Drammatico
   
 
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