“Cosa
c’è di peggio”, pensò Haruka,
alzandosi e sbuffando infastidita, “del telefono
che squilla mentre sei lì, lì per
mangiare?”
Di
sicuro poteva esserci di peggio d’una
chiamata
inopportuna, ciononostante, in quel preciso momento,
l’incomodo era tale
da farle sanguinare il cuore. E non tanto per
l’ignoto che la cornetta
poteva celare, quanto perché intempestivo lo
squillo andava ad
interrompere l’indugiare voluttuoso, protratto fino
allo spasmo, che
precedeva l’assestamento del fatal morso
alla baguette farcita che
aveva davanti.
In
effetti, nei riguardi di quello sfilatino, Haruka si sentiva un
po’ come
Giulietta che, pensando a Romeo, filosofeggiava al balcone. Del resto,
si
diceva annuendo compunta, se è vero che una rosa
è tale anche se chiamata con
altro nome, allo stesso tempo la sua era
una cena e non lo era. O perlomeno, non solo. Eh sì
perché giungendo dopo
un'intensa giornata lavorativa, trascorsa perlopiù a
digiuno, quello che ad
occhi profani poteva sembrare un semplice pasto, era invece il
coronarsi d’un
sogno lungamente vagheggiato, d’una chimera covata in segreto
ed assaporata
fino a quell’istante soltanto con la fantasia. E per questo,
non appena varcata
la soglia di casa, si era prodigata in ogni modo possibile per dar
corpo all’ideale.
Tanto che ne aveva curato amorevolmente gestazione e nascita,
poiché, checché
ne dicesse la pubblicità, una miserabile merendina
nulla poteva contro la
fame. Soprattutto contro ad una fame atavica come la sua.
Detto
ciò facile arguire quindi che, nel momento in cui il
telefono trillava, era con
sommo diletto che la nostra s’apprestava a celebrare, dello
spropositato panino,
il rituale di morte e resurrezione. Posto che, per
quest’ultima, Haruka
supponeva ci volesse qualche istante in
più, ma non molto. Giusto
il tempo di sintonizzarsi sulla partita e poi, complice la birra
facente
funzione di prefica col quale intendeva accompagnarlo, ne avrebbe
cantato il de
profundis con un rutto pieno di
soddisfazione.
Propositi
da camionista? Giusto un filo, ma il boato che si proponeva
d’effondere sarebbe
stato reso ancora più gratificante dal dettaglio che
Michiru era fuori
casa da giorni e altrettanti ne sarebbero passati prima che tornasse.
Il che
voleva dire che finalmente poteva indulgere nel gratificare la propria
natura
squisitamente animale senza correre il rischio di essere per questo
deplorata. Di
conseguenza, considerato la totalità delle delizie che la
maledetta telefonata
stava interrompendo sul nascere, il mix d’improperi e
parolacce che le
scaturirono dalle sottili labbra, trovavano molto più che
una semplice
giustificazione. E quindi fu ruminando contumelie che alzò
il ricevitore.
“Chi
è?!” Abbaiò pronta ad azzannare
verbalmente, se non letteralmente, l’incauto
interlocutore.
“Risposta
sbagliata.” Fece Michiru con un tono tale che ad Haruka parve
di vederle
mettere su il broncio come se ce l’avesse avuta davanti.
“E
che volevi sapere quanti fagioli ci sono nel barattolo?!”
Ribatté sarcastica
per prendere tempo. Porca zozza, che s’era scordata stavolta?
Il loro
anniversario? La commemorazione nazionale della giornata del violino,
viola e
violoncello? La prima dentizione di suo nonno?
L’annuale sagra del tofu
sul bassopiano dell’Hokkaido? Ma perché,
perché si era scelta una donna che
insisteva a complicarle la vita con una serie inimmaginabile di
dettagli del
tutto superflui?!
“Ci
avrei giurato che te ne saresti dimenticata!” Venne
rimbrottata
immediatamente, al che, onde scoprire l’arcano e
con spirito sacrificato,
Haruka s’apprestò alla lapidazione che, lo sapeva,
ne sarebbe conseguita. Già,
in genere le toccava almeno un quarto d’ora di lamentele e
recriminazioni
inerenti la sua scarsa sensibilità prima che si decidesse di
venire al punto.
“Hai
assolutamente ragione.” Assentì con voce da
penitente per farla corta e, con
sommo spirito di rassegnazione, si riaccomodò sul divano
tirando a sé il
tavolino su cui era posata la cena. Perché,
d’accordo sorbirsi tutta la
manfrina, ma aveva intenzione di continuare a rifocillarsi mentre
quella la
metteva in croce. “Perdonami amore mio, ti prego scusami se
puoi.” Aggiunse con
accenti patetici afferrando saldamente il telecomando e sintonizzandosi
sul
primo canale, giusto in tempo per vedere le squadre che scendevano in
campo.
“Come posso fare ammenda?” Chiese infine mentre
partivano gli inni nazionali e
stappava la birra.
“Facciamo
sesso telefonico?” Fu la risposta che ne ebbe e che
rischiò di farla strozzare,
giacché dalla sorpresa le andò di traverso il
boccone. E fu sputacchiando a
coda di pavone che capì che a nulla sarebbe valso obiettare,
anche se, nei
giorni precedenti alla separazione, di quello gliene aveva data una
dose tale
da persuadersi che sarebbe stata sufficiente a placarla almeno per sei
mesi. Beata
ingenuità! Pensò facendosi beffe di sé
stessa. Ma come poteva essere altrimenti,
visto che, dopo appena una settimana, quella ninfomane vanificava la
totalità
delle sue prestazioni chiedendole una performance da hot line?
Ora,
si disse dopo un’abbondante sorsata, atta sia a mitigare la
meraviglia, che
salvarla dal soffocamento, non che una sedicente pudicizia le impedisse
di
prestarsi. Però, chiosò guardando con cupidigia
il festino che s’era con tanta
cura preparata, poteva mai posporre la cena, scordarsi della partita e
rimandare il concerto di flati a cui teneva tanto per darsi ad una
simile sceneggiata?
Ma non esiste proprio! Pensò
risoluta. E alé, in un colpo solo
aveva salvaguardato sia la dignità che l’appetito.
Eppure, aveva voglia di
sopportarne poi le conseguenze? Se la sentiva di passare attraverso la
trafila
di ripicche, dispetti e rotture che ne sarebbero conseguite? Ne valeva
davvero la
pena? Decisamente no, si disse sospirando, anche perché
Michiru era
un’indiscussa maestra quando si trattava di farle pagare con
ogni mezzo il fio
di quelle che reputava le sue mancanze. Per cui l’unica era
assecondarla e far
finta che.
In
fondo,
pensò Haruka
scrollando le spalle e ormai arresa all’idea di simulare la
focosità della
copula, ogni donna prima o poi ha finto.
Così
fu che decisero di comune accordo di mettere giù e
ricominciare daccapo con
tutti i santi crismi. Va’ da sé che, siccome le
sciagure non giungono mai da
sole, Haruka era fermamente convinta di poter sostenere quello show
seguitando,
senza difficoltà alcuna, a fare quanto stava facendo. Tanto
che ne poteva
sapere Michiru se, mentre ci dava dentro di libido, all’altro
capo del filo lei
banchettava e drinkettava? Nulla ovviamente. Di conseguenza, quando il
telefono
trillò nuovamente, Haruka a cuor leggero poté
risponderle suadente: “Salve, qui
è lo studio del dottor Lingua, come posso
aiutarla?”
Ottimo
esordio non c’è che dire, peccato che, mentre
Michiru le spiegava nel dettaglio
la natura del suo problema, illustrandole con dovizia di particolari
come
soccorrerla, Haruka commise l’errore di mettere il vivavoce.
Del resto, come
accidenti poteva tenere in mano contemporaneamente cornetta,
panino e
birra?
“Dì
un po’, non avrai mica la tv accesa?” Le chiese
Michiru mutando registro
vocale. In effetti il timbro passò dal tono de la favorita dell’harem
a quello sospettoso di un
investigatore del filone noir degli anni 30.
“Macché
scherzi?” Replicò impunita l’altra
mentre lesta, e solo momentaneamente, depositava
sul tavolo le vivande per abbassare il volume. Senza spegnere
naturalmente. E
come avrebbe potuto? L’attacco patrio infatti aveva appena
preso possesso della
palla e stava superando la linea di centrocampo. A parte questo
comunque, le
restava sempre d’occuparsi della sua vogliosa fidanzata,
quindi si riscosse un
attimo e, affettando una cadenza ardente, per prendere tempo le chiese
di
descriverle nel dettaglio le sue azioni.
“Ora
mi spoglio…” Le rispose Michiru voluttuosa.
“Sì…”
Fece mentre seguiva intenta la serie di dribbling cui si stava
producendo il
suo attaccante preferito.
“Ho
su della biancheria molto sexy e ho caldo, tanto
caldo…” Continuò la novella
Messalina andandoci pesante quanto a celati sottintesi.
“Sì…”
Mormorò Haruka piena d’ansia, non tanto per le
aspettative che Michiru credeva
di star generando, quanto perché quel cretino si era fatto
imballare in mezzo a
due difensori.
“Devo
toglierla?” Chiese persuasa di star aumentando in modo
esponenziale la suspense
di quella che credeva essere un’appassionata compartecipe.
“Vai…
vai porca puttana, vai!!” Ululò Haruka
all’indirizzo del giocatore, che
finalmente si era liberato, senza pensare alle conseguenze del suo urlo
primordiale. Anzi, quando la palla entrò in rete, si
produsse perfino in una
sequela ininterrotta di sì che
infiammarono viepiù la sua bollente
interlocutrice. Già perché, sebbene trovasse
tutto quell’entusiasmo
spropositato, si convinse seduta stante che tale era la mancanza che
straziava
la sua dolce metà, da infiammarsi d’entusiasmo
persino ad un accenno appena,
appena succinto. Pensiero questo che la riempì di delizia e
la convinse maggiormente
a calcare i toni.
“Sono
nuda adesso, cosa mi fai?” Chiese invitante come avrebbe
potuto chiederlo
Lola-Lola in reggicalze e a cavallo della sedia.
“Mmm.”
Fu l’oscura risposta che ne ebbe. Naturalmente lo prese per
un sensuale invito
a seguitare, quand’invece era il mugolato di chi finalmente
stava saziando
l’appetito. In effetti Haruka stava mangiando con gran gusto
e a suo modo
davvero stava sperimentando l’estasi. Tanto che, dopo un
silenzio prolungato,
interrotto solo dal rumore lieve prodotto dalle mascelle che
tracimavano, capì
che doveva assolutamente uscire da quell’impasse. Purtroppo
per lei però non
aveva affatto seguito il filo del discorso e non riusciva proprio ad
immaginarsi fin dove si fosse potuta spingere Michiru nel suo delirio.
Per sua
fortuna però un break pubblicitario arrivò
provvidenziale a darle manforte,
giacché, innanzi ad uno spot dell’ortofrutta ebbe
l’illuminazione.
“Che
pere!” Esclamò, suggerita sia da quel che vedeva
che dal suo stomaco ruggente. “Che
spettacolo, me le mangerei.” Aggiunse improvvida staccando
vigorosamente un
boccone e triturandolo, talmente tanto, che l’eco
inequivocabile di quella
strage mangereccia giunse anche all’altro capo del filo. In
effetti stava
producendo lo stesso rumore di un’impastatrice industriale e
Michiru, la quale
era certa non avessero aperto un
cementificio
sugli Champs Elysees, immediatamente subodorò.
“Che
stai facendo?!” Urlò intimidatoria dopo
gl’istanti di silenzio, atti alla
comprensione e carichi di significato, che le erano occorsi a
realizzare che l’evidente
lussuria, con delizia ravvisata giusto qualche istante prima nella
compartecipazione
di Haruka, nulla aveva a che fare con lei.
“Nulla!”
Ribatté la sospettata mentre nel suo immaginario la sagoma
di Michiru, da senza
veli che era, si rivestiva immediatamente del saio vermiglio di
Torquemada.
“Balle,
tu ti stai ingozzando!” Dichiarò stentorea
quest’ultima puntando l’indice
accusatore innanzi a sé, come se davvero avesse potuto
cavarle gli occhi seduta
stante. Ma il peggio fu che in quel momento catartico, durante il quale
Haruka
avrebbe dovuto impegnare la totalità delle sue
facoltà cognitive per trarsi
d’impaccio, la sua attenzione purtroppo venne prepotentemente
richiamata da un
rumore sospetto. E così, mentre tentava di convincere la sua
collerica metà
d’essere oltremodo coinvolta in quel giochetto telefonico,
imbastendo
motivazioni mirabolanti tese a difendere l’indifendibile, con
un piede cercava
di allontanare la gatta che nel frattempo le era saltata addosso,
attirata com’era
dal profumo del pingue spuntino.
“Ma
ti pare che in un momento simile possa pensare al cibo?”
Affermò suadente,
avendo pure la faccia tosta d’insinuare nella voce una punta
di stupore offeso,
intanto che posava piatto e bottiglia sulla poltrona e afferrava
saldamente la
micia per la pelle del collo.
“Haruka
dimmi la verità!” L’ammonì a
quel punto Michiru, la quale era preda d’un
profondo conflitto interiore in quanto, se da un lato era fortemente
persuasa
di piantarle un casino per quell’evidente presa per il
sedere, dall’altro era assai
tentata a soprassedere e riprendere da dove si erano interrotte.
Magari, si
disse tentando di tenere a bada l’impazienza, poteva tornarci
sopra più in là e
castigarla come si meritava. Ma adesso... Indi e per cui pose la
questione in
modo tale da salvare capra e cavoli, ovvero, di gratificare corpo e
amor
proprio indignato.
“Giurin,
giuretta.” Fece Haruka ormai talmente in bambola, presa
com’era tra svariati
fuochi, da non sapere più se badare alla partita, lanciare
in terrazza la gatta
(che aveva ancora tra le braccia), sollevarsi dall’arsura che
la stava
prendendo a causa del nervoso (bevendosi tutta una cassa di birra e
vaffanculo)
o di buttare tutto nella mondezza, telefono compreso.
Per
questo, e solo per questo, giacché solo chi davvero ama ha
il nerbo di dire l’indicibile,
si sentì chiedere dalla gentildonna all’altro capo
del filo: “Allora dimmi dove
hai le mani!”
A
questo punto, visto che Michiru voleva la verità
e che effettivamente dicendoglielo sapeva di farle cosa gradita,
nonché di
salvarsi dal capestro, fu sincera.
“Nel
pelo!” Rispose, omettendo di chiarire che si trattava di
quello della gatta. In
fondo si trattava d’un peccatuccio d’omissione, ma
sufficiente da riportare il
sereno.
“Di
già?” Rispose infatti la violinista sorpresa, in
effetti, essendo quella la
loro prima performance telefonica, non pensava Haruka si prestasse
così
facilmente e soprattutto si spingesse con tanta velocità in
zona Cesarini. Pure
così pareva e non poteva che compiacersene. E
bontà sua che era convinta di
quello giacché, nel frattempo, buttata fuori dalla stanza la
gatta, quest’ultima
ormai stremata da quella manfrina, lanciandosi cadere di peso in
poltrona e
dimentica d’averci poggiato vivande e beveraggi, diede un
gemito frustrato.
“Tesoro,
tutto bene?” Chiese Michiru allarmata.
“Sono
tutta bagnata!” Sbottò Haruka fregandosene delle
conseguenze, troppo infatti l’aveva
shoccata la tragedia di ritrovarsi i resti del suo glorioso panino
spiaccicati
alle terga. Ma Michiru non poteva sapere, né lei poteva
confessarglielo,
perciò, quando si sentì dare pure
dell’egoista, non le restò che accasciarsi al
suolo, prendersi la testa nelle mani e lasciar scorrere amare lacrime
di delusione
e rimpianto.
“Hai
pensato solo a te!” Stava concludendo intanto la
sesso-defraudata, al che la
nostra, seduta in una pozza di birra, col culo imbrattato di maionese e
la
serata completamente rovinata, era ormai definitivamente matura per dar
voce al
sentimento. Perché, d’accordo che le cose
importanti son sempre le più
difficili da dire, ma per tutti alfine giunge il momento di emulare
Kevin
Costner e lasciar fluire le parole non dette.
“Michi,
gioia”, mormorò infatti con ingannevole calma,
“fammi la cortesia”, aggiunse perdendo
via, via la
compostezza, “guardati un
porno e non mi rompere i coglioni!”
Le
intimò e senza attenderne riposta, con somma soddisfazione,
buttò giù.
Dopodiché staccò telefono, spense il cellulare,
la connessione internet, sradicò
il citofono e, tanto per essere sicura
al cento per cento, andò pure a sparare ad un paio di
piccioni che
volteggiavano da quelle parti.
Fatto
ciò pareva aver riacquistato una certa
tranquillità, ma quando dalla tv riecheggiò
la voce di Stevie Wonder e le
prime note di I Just Called To Say I Love You, non le restò che
sparare
un colpo anche a quella.
“Domani
me la ricompro.” Si disse mentre si dirigeva in cucina per
prepararsi qualcosa
d’altro da mangiare, intanto che molti dei suoi condomini
provvedevano ad
avvertire la polizia.