IL NIDO
La famiglia di mio marito ritornò al suo paesello.
Mio cognato Salvatore aveva preso la maturità a luglio del ’78, ma eravamo arrivati a dicembre e lui era ancora senza lavoro. Giuseppe gli prepose:
“Se vuoi restare qua la stanza c’è. Vieni a lavorare per me e mi aiuti facendo le cose che sai fare. Dividiamo le spese della casa e se Ombretta è d’accordo per quanto mi riguarda puoi restare.”
Salvatore fu molto entusiasta della proposta, perché non vedeva l’ora di andarsene dal suo paese; in fin dei conti aveva una ventina d’anni ed era senza un lavoro, in più il suo amore incondizionato per la madre lo portava a vivere un’esistenza limitata. Sebbene avesse tanti amici molto spesso Carpina lo portava a rinunciare a tante cose che essi facevano, con giustificazioni che finivano sempre per parlare di soldi.
Io, a dire il vero, non ero molto convinta di questa soluzione. Avevo Jane piccola e io non sapevo ancora bene come fare la mamma; ero consapevole delle mie lacune e una persona in più non mi avrebbe aiutato. L’idea di ritornare a lavorare mi allettava sempre di più; avevo pensato di iscrivere mia figlia, dopo i nove mesi, al nido in questo modo io avrei ricominciato ad avere la mia indipendenza ed essere, allo stesso tempo, una mamma presente, dato che avrei cercato un part-time. Ora, però, con Salvatore in casa, diventava sempre meno applicabile il mio progetto. In più, Giuseppe, che era un tipo furbo e non voleva che sua moglie andasse a lavorare, probabilmente perché nella sua testa il ruolo della donna è stare in casa a badare ai figli e alla casa, per convincermi a fare ciò che voleva lui mi disse:
“se vai a lavorare trascuri la bambina. Sicuramente, con i tempi che corrono, non ti metteranno mai in regola, quindi prenderesti uno stipendio da fame; se Jane si ammala avrai dei problemi perché al tuo datore non fregherà niente. Se invece accetti questa situazione, mentre lavi e stiri per Salvatore che ci aiuterà nelle spese della casa, puoi accudire la bambina e avremo qualche soldino in più.”
Non mi convinse del tutto, ma pensai che forse aveva ragione lui e quindi accettai la nuova situazione, senza più protestare.
Le giornate passavano tutte uguali. Giuseppe e Salvatore si alzavano la mattina per andare nei vari cantieri, mentre io rimanevo a casa a fare la mamma e le faccende di casa. Per superare questa delusione cercai un mio modo per essere felice come casalinga; quindi a parte le ore che dovevo stare a casa per riordinare e fare da mangiare, io e la mia bimba eravamo sempre fuori.
Con il tempo mi resi conto che mio cognato era molto più disponibile di quanto fosse diventato suo fratello. Ultimamente, Giuseppe, aveva sempre qualche cosa d’altro da fare. Mi ricordo di una volta in cui avevo un mal di denti terribile, non sapevo cosa fare, il mio dentista era dall’altra parte della città ed io, essendo poco più che sedicenne, non avevo la patente. Aspettai che i due uomini ritornassero dal lavoro, ma quando chiesi a mio marito di portarmi dal medico, lui, stravaccato sul divano, passò le chiavi dell’auto a Salvatore dicendogli:
“accompagnala tu.” Senza aggiungere altro.
Anche la spesa del sabato pomeriggio, quella più grossa, era diventata prassi che mi accompagnasse mio cognato, invece che suo fratello.
Giuseppe era cambiato nei miei confronti. Mi sembrava che, ora che si era accasato, gli interessasse poco che la moglie fossi io od un’altra. Non sapevo cosa fare, anche perché questa era solo una supposizione; arrivai persino a chiedermi se non fosse colpa mia e del rapporto che io e Salvatore stavamo creando. Infatti, spesso la sera, eravamo tutti e tre insieme, ma i discorsi erano solo tra me e lui, Giuseppe non si inseriva mai, era sempre interessato di più allo sport in televisione. Con il tempo e i discorsi in cui io e Salvatore ci raccontavamo a vicenda del nostro passato, penso che arrivammo a intenderci meglio di quanto ci conoscesse Giuseppe, nonostante fosse mio marito e suo fratello maggiore. Quando non era davanti la televisione, era al bar a giocare a carte. Anche in questo era riuscito a rigirare la cosa in modo che lui fosse dalla parte della ragione, infatti mi diceva che ci andava perché se vinceva mi avrebbe portato a casa il prosciutto o il salame. Insomma, qualsiasi cosa lui facesse, da come me la raccontava era sempre a mio beneficio.
Un giorno in cui, non ricordo il perché, non c’era Salvatore a casa, finito il pranzo, io e Giuseppe avemmo la nostra prima, grossa litigata. Stavo lavando i piatti e mi lamentavo del fatto che le domeniche fossimo sempre a casa perché non potevamo permetterci di fare altro che una passeggiata al parco. Per difendersi lui disse che non era colpa sua se i le persone per cui aveva terminato i lavori non lo avevano ancora pagato.
Senza più dubbi, convinta oramai che fosse giusto ritirai fuori il mio progetto di andare a lavorare.
“Forse hai ragione sul fatto che verrò sfruttata, ma alla fine del mese avremo qualche soldo in più per toglierci anche solo la voglia di gelato. Ti rendi conto che mi lasci £10.000 al giorno? Cosa credi che posso comprare, se pensi che ogni due giorni me ne servono il doppio per comprare il latte di Jane. Credi che la spesa che facciamo il sabato possa bastare? Prendere la frutta fresca da dare a tua figlia non è per me una cosa facile perché non mi lasci abbastanza.”
Mentre stavo per mettere un piatto nello scolapiatti, girata verso di lui a guardarlo, mi diede un manrovescio e, ancora nervoso, con la stessa mano, diede un pugno all’anta del mobiletto che si scardinò. Io, per istinto di autodifesa, più che per vendetta, gli diedi un calcio nei testicoli e, lasciandolo piegato in due in cucina andai a prendere Jane, precipitandomi poi in cortile dove c’era già il passeggino aperto; piangendo andai a casa dei miei genitori.
Quando vi arrivai trovai mio padre in giardino che sistemava i fiori. Sorpreso di vedermi, dato l’orario, mi chiese:
“cos’hai fatto, cos’hai?”
“Cosa ti fa pensare che sia io che abbia fatto qualche cosa; possibile che sia sempre colpa mia?”
Lui, allora guardò Jane e continuò:
“allora è successo qualche cosa alla bambina, cosa è successo?”
“No, Jane stà benissimo. E’ suo padre che mi ha appena dato un ceffone.”
“Cos’hai fatto?”
“Niente. Io voglio andare a lavorare, mentre lui vuole la mogliettina a disposizione a casa. Ma io non ci sto più. A casa non ci torno.”
Non lo avessi mai detto, rischiai di prendere un altro ceffone anche da mio padre.
“Pensaci bene perché adesso hai una bambina ed il matrimonio è fatto anche di discussioni. E poi dove andresti, cosa faresti?” il suo tono diventava sempre più astioso ad ogni parola che pronunciava. “Và in cà. Mettet un po’ tranquila, bev un bicier d’acua e po torna a cà tua. T’he vlu la bicicleta e alora pedala.”(*)
Non fui molto contenta, ma entrai in casa dei miei genitori , insieme a Jane mi sdraiai sul divano davanti alla televisione.
“C’è da trovare una soluzione” cominciai a pensare. “Mio padre non mi rivuole e forse ha le sue buone ragioni, ma io ho le mie. Devo tornare a casa da mio marito perché è questo che tutti si aspettano da me? Benissimo! Primo lui non mi tocca mai più, in tutti sensi, almeno fino a quando non recupera la mia stima. Anche perché le botte non si danno nemmeno ad un somaro. E poi essere picchiata perché voglio andare a lavorare mi sembra veramente esagerato.”
Restai dai miei il tempo necessario per dare la merenda a mia figlia e cambiarla, poi tornai piano, piano verso casa mia, dove non trovai nessuno. Il vuoto non mi fece nessun effetto, anzi finii di fare ciò che stavo facendo prima che me ne andassi con molta tranquillità e serenità. Verso sera rincasarono i due fratelli, entrambi facendo finta di niente. Giuseppe andò in bagno a lavarsi, si vestì ed uscì di casa. Salvatore, invece, rimase a cena con me e cominciammo a parlare di quello che era successo.
“Quello che ti ha fatto Giuseppe è sicuramente sbagliato. A dire il vero nemmeno io sono contento di come si stà comportando con me; non gliel’ho ancora detto ma sto cercando un altro lavoro. Ancora non ho trovato niente, ma ben presto me ne vado da qui.”
“Se tu te ne vai, però, io rimango sola” dissi egoisticamente, sapendo che se glielo avessi chiesto quasi sicuramente sarebbe rimasto. “Sei rimasto solo tu dalla mia parte, perché anche i miei genitori non mi vogliono.”
“Per il momento non te lo so dire. Vedrò.”
Poi uscì e se ne andò al cinema.
Per parecchi giorni andammo avanti nella totale indifferenza. Io e Giuseppe non ci scambiavamo nemmeno il buon giorno e anche con Salvatore le cose non andavano meglio. Penso che si sentisse schiacciato tra l’incudine e il martello: se avesse parlato con me si sarebbe trovato contro suo fratello e viceversa.
Intanto, convinta più che mai, andai in Circoscrizione Didattica per iscrivere Jane al nido. Non ebbi una gran bella notizia; il problema era che non andando a lavorare non c’erano i motivi perché mia figlia andasse al nido.
“Ma se non mi prendete la bambina come faccio a trovare da lavorare?”
“Purtroppo i posti sono inferiori alle richieste. In più tu hai i genitori che potrebbero accudire tua figlia mentre sei a lavoro.”
“E’ vero che i miei genitori hanno ancora le capacità per tenere la nipote ed è vero che sono in pensione. Ma ora sono custodi a tempo pieno da un noto avvocato.”
Stranamente, quando dissi alla segretaria il nome di questo avvocato, gentilmente, lei si lasciò dare il numero di telefono in modo che, quando a settembre avrebbe fatto in modo di inserire la bambina in un asilo, avrebbe potuto avvertirmi.
Non ero completamente soddisfatta, anche perché ci trovavamo a febbraio, marzo al massimo e settembre era molto lontano. A casa la guerra fredda cominciava a dissiparsi, almeno tra me e Giuseppe, mentre tra lui e Salvatore le cose continuavano a non essere delle migliori. Una sera mio marito, di ritorno dal lavoro ci disse:
“ho conosciuto un roccatore. Dice che c’è la possibilità di lavorare; è disponibile a vendere una macchina, mentre la moglie sarebbe vi insegnerebbe come si utilizza.”
“Roccatrice, cos’è una roccatrice?” chiedemmo in coro io e mio cognato.
A conti fatti nemmeno Giuseppe sapeva bene di cosa stesse parlando, tutto quello che riuscì a spiegarci fu che si trattava di una macchina industriale che serviva a dipanare le matasse di lana e trasformare in rocche. Ci diede a disposizione il garage di nostra proprietà. A sentirlo parlare, Giuseppe, si dimostrò decisamente molto entusiasta del fatto che io e suo fratello andassimo a lavorare insieme. Inutile dire quanto io e Salvatore rimanemmo stupiti della disponibilità di quella persona che, a mio avviso, era diventata tanto astiosa a causa del rapporto complice che era nato tra me e suo fratello. Arrivai addirittura a credere che fosse tutto un piano per farci allontanare: lavorare insieme non è per nulla facile, lo è invece litigare e rompere i rapporti.
Il giorno dopo Giuseppe ci portò da questo signore per vedere che cosa si poteva fare in pratica. Lui e la moglie si dimostrarono molto disponibili nei nostri confronti; il problema era che, quando parlammo di soldi e saltò fuori la caparra di £ 500.000, scoprii che nessuno aveva la somma a disposizione. Avevo chiesto ai miei genitori che mi avevano già detto di no; alla fine ci rimase l’unica opzione di andare giù, da Carpina e Luigi, per chiedere la somma. In effetti, quando Salvatore ritornò dal suo viaggio in meridione, aveva ottenuto tutti i soldi che ci servivano per cominciare la nostra avventura lavorativa.
Cominciammo subito ad andare dalla signora che ci insegnò a lavorare mentre, nel tempo libero, allestimmo il garage adibendolo a laboratorio, preoccupandoci di farci dare i vari permessi necessari dal comune. Ci iscrivemmo alla LAPAM, una associazione di artigiani; aprimmo una partita IVA a nome di entrambi; tutto sembrava filare molto liscio fino a quando non ci ritrovammo al punto da dover cominciare a cercare da lavorare. Il signore che ci aveva venduto la roccatrice ci aveva fatto il favore di passarci una maglieria, ma più si andava avanti più era chiaro che un solo cliente era troppo poco. Salvatore pensò di cominciare a girare per le varie maglierie e tintorie di Carpi ma, con molta tristezza, scoprimmo ben presto che quando mio cognato si presentava alla porta non gli davano nemmeno il tempo di parlare per chiedere un rapporto di lavoro, che gli rispondevano no.
“Secondo me è inutile che continui io a cercare il lavoro. Loro vedono che sono meridionale e non mi ascoltano neppure” disse una sera dopo qualche giorno di ricerca.
Alla fine decidemmo di comune accordo che la ricerca di clienti sarebbe dovuto essere un mio compito. Potrebbe essere stata anche una coincidenza, anche se io non lo credevo, ma da quando cominciai a girare io riuscimmo ad ottenere altre due tintorie. Finalmente il lavoro era sufficiente perché io e Salvatore potessimo pagare le cambiali che avevamo firmato per pagare la roccatrice.
Ci rimanevano solo due problemi: io non avevo ancora la patente, ma per questo dovevo aspettare ancora un paio d’anni; Jane non era stata presa all’asilo nido. Fu mio padre ad aiutarci. Alla mattina, il primo a scendere in laboratorio era sempre Salvatore; la roccatrice era una macchina che faceva del rumore e per rispetto alle leggi dovevamo accenderla solo dopo le 7.30. Circa un’oretta dopo arrivava mio padre, io gli lasciavo sua nipote e raggiungevo mio cognato a lavorare. Verso le 11.00 salivo a casa, per preparare la pappa a Jane, mio padre ritornava a casa sua; mentre Salvatore molto spesso faceva la pausa pranzo in laboratorio per non perdere tempo. Se per nostra fortuna c’era tanto lavoro mio padre ritornava a occuparsi di mia figlia anche il pomeriggio, ma se non ce n’era abbastanza per due, lasciavo Salvatore in laboratorio mentre io mi occupavo della bambina. Tutto questo fino a quando non sarebbe arrivata la chiamata dal comune in cui, finalmente, mi avrebbero comunicato l’inserimento di Jane all’asilo, contrariamente ai voleri del padre.
Sarà stato, più o meno, la fine di maggio, arrivò la chiamata da parte della direzione didattica che mi comunicava che si era liberato un posto e potevo presentarmi con la bambina per l’inserimento. Ero troppo soddisfatta, da quando avevo ricominciato a lavorare mi sentivo in difetto verso tutti: mio padre era sempre impegnato ad aiutarmi e il mio socio faceva molte più ore di me. Alla sera comunicai la novità a Giuseppe e lui, per tutta risposta, lasciò la cena incompiuta e uscì di casa. Da questa reazione capii che non era molto soddisfatto, ma a me, personalmente, non è che mi interessasse più di tanto. Io era felice.
Il lunedì mattina portai Jane, da sola, al nido. Qui ci furono i soliti commenti:
“A ma sei sua madre? Perché l’inserimento non lo possiamo fare con la sorella.”
“Ma sei una ragazza madre o questa bambina ha anche un padre?”
Ricordo di aver pensato che, come inizio, non era decisamente dei migliori. In mattinata le cose migliorarono nel momento che le tate videro che Jane non aveva problemi ad interagire con gli altri bambini e a giocare con loro; non sarebbe stata un soggetto che avrebbe dato dei problemi. Un’oretta dopo le maestre mi dissero di tornare il giorno dopo, sarei rimasta una decina di minuti per poi andare via per un po’ di tempo per poter vedere come mia figlia avrebbe reagito a stare in un posto senza la madre.
Quando tornai a casa ero troppo contenta; finalmente i miei progetti si sarebbero realizzati. Da lì a qualche giorno avrei cominciato a lavorare alle 9.00 e avrei potuto continuare fino alle 17.00 senza dovermi approfittare di mio padre. Non era del mio stesso umore Giuseppe; quando gli raccontai di come si era comportata al nido sua figlia, finì di mangiare, ma subito dopo si alzò e senza aggiungere altro andò a lavorare.
Anche il secondo giorno filò tutto liscio come l’olio. In realtà non me ne andai perché la tata di quel giorno la pensava diversamente dalla sua collega del giorno prima. Così, invece di andare via, mi nascosi dietro ad una colonna. Jane si comportò bene, tanto che per il terzo giorno l’avrei lasciata seriamente al nido durante l’ora del pranzo.
Questo famoso terzo giorno era una giovedì, perché per disguidi di cui non mi ricordo fummo costrette a saltare un giorno. Giornata di mercato per Carpi dove passai il tempo in cui lasciai Jane al nido insieme alle tate. Mi sentivo molto tranquilla dato i risultati dei giorni prima e dal fatto che Jane non aveva mostrato particolari reazioni quando mi aveva visto andare via. Mi crollò tutto il mondo in testa non appena varcai il cancello e mia figlia mi venne incontro. Aveva un grosso cerotto bianco sulla guancia destra; la presi in braccio e guardai la tata che mi si era avvicinata:
“Guarda, ci dispiace tanto. Lei stava giocando, noi eravamo molto tranquille, ci siamo girate per un attimo ed un bambino che, credimi, ha dei grossi problemi in famiglia, le si è avventato contro e l’ha morsa.”
Alzai il cerotto e vidi sulla pelle i segni dei tre dentini superiori e dei tre inferiori. Pensai:
“e adesso come ci torno a casa?”
Per fortuna quel giorno Giuseppe aveva un lavoro urgente, così quando rincasai lui era già uscito; avevo tempo fino a sera per inventarmi qualche cosa. Arrivai a pensare e sperare che il morso sparisse in tempo. Quando ne parlai con Salvatore mi disse che secondo lui non era grave:
“i bambini se le danno. È una cosa normale. Tu sei sua madre quindi ti preoccupi, le maestre dovevano fare più attenzione, ma oramai è successo.”
Decisamente i due fratelli la pensavano in modo diverso.
Quando Giuseppe rincasò vide sua figlia e mi guardò:
“cos’è successo?”
Io glielo raccontai, senza omettere niente. Mio marito non batté ciglio:
“Tu non gliela porti più. E questo è tutto” mi disse senza battere ciglio e senza darmi la possibilità di replicare.
Mi rimaneva solo da accettare e vedere, senza poter fare nulla, i miei progetti crollare come un castello di carta.
(*) “Vai in casa. Mettiti un po’ tranquilla, bevi un bicchiere d’acqua e poi torna a casa tua. Hai voluto la bicicletta e allora pedala
A tutti: parto con il chiedere scusa per il tempo che ho impiegato per aggiornare.
ReaderNotViewer: sicuramente i tuoi ricordi potrebbero essere un mix di tante sensazioni reali, ma ti posso altrettanto assicurare che vivere a Carpi è molto diverso che vivere in tante altre realtà. Ai tempi della ff, qui da noi, era molto importante le differenze di livello sociale. I figli di papà, i ricchi, dovevano per forza far parte di uno standard; tanto che chi non lo faceva veniva diseredato o considerato un figlio dei fiori (sebbene non fossimo più negli anni giusti). Sono pienamente d’accordo con te per quello che hai detto sul lavoro. In effetti un professionista poteva permettersi di tenere a casa la moglie, ma forse perché allora ce ne erano meno di adesso.
Spero che continuerai a leggere e recensire; soprattutto perché sarebbe molto interessante scambiare le opinioni su questi anni che abbiamo entrambe vissuto.