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Autore: KH4    27/01/2010    6 recensioni
Il mio sogno è trovare un sogno. Cercarlo significa vivere? Non lo so perchè io non so se ho il diritto di questa mia vita o di questo mio desiderio. Non so cosa sia un sogno ma lo desidero così tanto perchè forse può darmi la felicità che non ho. Anche se cammino, respiro, osservo...sto forse vivendo come dovrei fare? Non lo so.Ho paura a trovare la risposta.Ho paura a guardare indietro. Ho paura di quello che sono. Ma io....chi sono?(prologo del cap.14).
La vita di Ace prima ancora che entri a far parte della ciurma di Barbabianca e durante la permanenza sulla nave di quest'ultimo, accompagnato da un dolce ragazza dal passato oscuro e ingiusto. Buona lettura a tutti!(introduzione modificata)
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Barba bianca, Nuovo personaggio, Portuguese D. Ace
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ed eccoci arrivati finalmente al momento che tutti aspettavamo!il quattordicesimo capitolo darà una svolta significativa a questa storia e la curiosità di molti verrà finalmente colmata.Fino a questo momento è il capitolo a cui ho dedicato più tempo e controlli perché per me rappresenta uno dei momenti più importanti di tutta la storia e renderlo abbastanza vivo da trasmettere il sentimento che emana è stato uno dei miei lavori più duri.Spero lo apprezzerete!Inoltre,tengo a informarvi e questa per me è una manna dal cielo che la situazione col mio computer è a posto!sto già utilizzandone uno nuovo,veloce e con tutti i miei lavori,e quale modo migliore di inaugurarlo se non con un nuovo capitolo?!

Beatrix:sapevo che avresti reagito così nel vedere la fine del capitolo ma data la situazione,la protagonista meritava uno spazio più ampio e ben fatto.Noto con piacere che il tuo amore per la ciurma di Shanks perfora il mio schermo come i cuori di Sanji alla vita di una bella fanciulla.Effettivamente quando un personaggio piace,saremmo disposti a tutto,compreso dargli una mano o navigare al suo fianco.Ti ci immagino al fianco di Shanks a combattere,scommetto che è un cosa che ti alletta!!Ahimè non ho potuto dare omaggio alla Red Force perché non avevo proprio idea di dove ficcarla ma non preoccuparti!Shanks farà la sua comparsa a breve,giusto per deliziarti prima dell’addio definitivo(e adesso chissà come verrò colpita da un mattone….)

Yuki689:festeggiare?quando ho visto Ace libero ho fatto i salti mortali fino al soffitto e ho ballato come una cretina per la felicità!ero pazza e non lo nascondo!!!dopo essere stata col cuore in mano per questo povero ragazzo (accidenti,Oda!se volevi farmi venire un colpo ci sei riuscito!!)finalmente abbiamo goduto della vista di quello che per tanto tempo abbiamo aspettato!!Fossi stata lì avrei fatto il pelo e il contro pelo a chiunque avesse provato ad avvicinarsi!!ora sono troppo curiosa di vedere il seguito,spero solo che non muoia nessuno,almeno non Barbabianca;il vecchietto mi è simpatico.E ovviamente rivolgo anche la mia curiosità verso la fine della tua fict.Oddio mi si stringe il cuore!spero che nel seguito ci sia ancora Ace o Yume,va benissimo anche Asuka!!!

Angela90:non posso che essere d’accordo con te cara!Ace è il mio personaggio preferito e anche l’occhio merita la sua parte!Un bel ragazzo non si può ignorare,specie lui.Felice di averti a bordo e grazie per il trovare carina la mia Sayuri;non credevo che la sua paura dei ragni fosse così contagiosa,è una effetto che non credevo di ottenere…

Maya90:io ho già dato 2 esami e devo darne uno a febbraio ma per ora non me ne preoccupo (è inglese).Sta tranquilla,in questo capitolo si avranno molte risposte e spero anche molto stupore perché ho passato l’intero martedì pomeriggio a rivedermelo e spero sia venuto bene.Sul capitolo 571 non posso che essere d’accordo con te….Dio,finalmente il miracolo è avvenuto!!!e adesso via con la fuga o col massacro!!

MBP:eh eh dopo il mio successo,modestamente dovevo festeggiare alla mia maniera e quale modo migliore se non offrire l’incontro di Ace e Shanks?in verità ho più volte revisionato questa parte,sia per la pubblicazione sia perché sentivo che mi mancava qualcosa e gira e rigira alla fine è uscito così ma se è piaciuto non ho più nulla da temere!!!

 

 

 Il mio sogno è trovare un sogno.

Cercarlo significa vivere? Non lo so perché io non so se ho il diritto di questa mia vita o di questo mio desiderio.

Non so cosa sia un sogno ma lo desidero così tanto perché forse può darmi la felicità che ora non ho.

Anche se cammino, respiro, osservo..sto forse vivendo come dovrei fare? Non lo so..

Ho paura a trovare la risposta.

Ho paura a guardare indietro.

Ho paura di quello che sono.

Ma io..chi sono?

 

 

Se ne era andata unicamente per non rovinare la festa agli altri e anche per poter rimanere un po’ da sola con sé stessa.
La neve scendeva leggera e delicata dal quel cielo sporco di grigio, cancellando lei sue orme senza alcuna fatica. Non aveva addosso il cappotto o i guanti, era uscita senza avere in testa una meta precisa, dimenticandosi così di indossarli. Voleva solamente stare da sola.

Camminava, guardando di tanto in tanto in avanti, ma alla fine si ritrovava sempre a guardare i suoi piedi portarla chissà dove e sospirava, come per cercare di non provare quel senso di oppressione che la stava facendo stare a quel modo. Neppure sapeva cosa sentisse. Nel prendere quel vecchio giornale di una settimana era stata colta dallo sgomento; qualcosa in lei si era spezzato e l’aveva distrutta in mille pezzi, permettendo che quell’entità, che per tanto tempo aveva rinchiuso, di uscire all’aperto. Autonomamente, il suo corpo si era mosso come fosse stato manovrato da un burattino e si era allontanata, senza comprendere cosa stesse provando.

Niente, il nulla. Nel vedere la foto allegata all’articolo, l’impulso di gettare a terra il giornale con tutta la sua forza non era emerso; una parte di sé aveva voluto farlo, aveva voluto distogliere lo sguardo, ma l’altro l’aveva spinta con mano silenziosa a guardare, a leggere quelle righe, a farle rimbombare nella sua testa da una vocina stridula e divertita.

Pensavi davvero di esserti lasciata tutto alle spalle? Sei davvero un stupida!  Le diceva.

Si fermò e nel levare lo sguardo su quanto la circondava, vide di trovarsi nei paraggi del palazzo di ghiaccio. Scossa da diversi brividi, si strinse le braccia intorno al petto, accorgendosi solo allora di non essere coperta a dovere. Gli abiti avevano già assorbito una buona quantità d’acqua, rendendoli umidi e bagnati.

Pazienza. Si disse Adesso non posso tornare di certo indietro.

Non era dell’umore adatto per festeggiare.

Si era allontanata subito perché l’impellente bisogno della solitudine era stato fin troppo forte perchè lei lo rifiutasse. Raggiunse il lago che affiancava il sontuoso edificio e andò a sedersi su una delle poche panche poste sotto le fronde di un albero innevato di cui ignorava il nome. La neve avvolgeva la sua chioma, creando una leggera penombra dove lei era seduta, riparandola dalla neve che fioccava dal cielo. C’era uno strano silenzio lì. Quando nevicava, il paesaggio diventava irreale, tutto bianco, ma con un che di magico. La gente rimaneva ipnotizzata, con la mente bloccata e incapace di riprendere a funzionare eppure quella di Sayuri era sempre stata attiva, in continua elaborazione di ragionamenti semplici e studiati. Anche adesso le era impossibile fermare il suo stesso subconscio poiché si stava addentrando in quell’antro oscuro dove le porte sigillate dal suo stesso spirito erano state spalancate.

Le porte di pietra che conducevano alla vera Sayuri, si affacciavano su un mondo che in cui lei aveva vissuto tempo addietro. Il suo passato.

 

 
Quell’incubo che cercava di perseguitarla ad ogni occasione di debolezza era cominciato ancor prima che lei nascesse.

Poco più di vent’anni prima, un'isola del Mare Meridionale era stata assalita da alcuni pirati di ritorno dal Grand Line. Si erano divertiti a saccheggiare, a uccidere gente innocente, ma uno di loro in particolare aveva goduto a violentare una giovane donna del villaggio, mentre i suoi compagni massacravano davanti ai suoi occhi carichi di disperazione il fidanzato. Furono giorni neri, i più brutti che quell'isola avesse mai vissuto, e quando gli invasori si stancarono, se ne andarono via a cercare un’altra isola da depredare. Gli abitanti che erano riusciti a salvarsi, avevano ricostruito le proprie case, coltivato nuovi raccolti e ricominciato a vivere; si erano fatti coraggio, ma non quella bella donna, che poco prima dell’orrore era prossima alle nozze. Era stata privata del suo sogno, del suo amore, della persona che sempre l’aveva fatta sorridere e per di più, dopo qualche settimana...scoprì di essere incinta.

Aspettava un bambino da quel pirata. Voleva abortire, ma il coraggio le veniva meno ogni volta, così come quando il pensiero di suicidarsi e falla finita per sempre le accarezzava con fare ingenuo l’animo già distrutto. Alla fine, dopo nove mesi, nacque una bimba, ma la cosa non allietò nessuno. In lei scorreva sangue nero, il sangue di un pirata, il pirata che aveva distrutto tutto il loro lavoro e stroncato vite innocenti e loro sapevano, erano ciecamente convinti, che sarebbe stata mela marcia. Un mostro come il padre....

La donna voleva sbarazzarsene, far si che fosse la Marina ad occuparsene, ma come poteva senza prove? La voce si sarebbe sparsa e allora si che non avrebbe più potuto guardare in faccia chi le dava ragione. Era costretta a tenerla, ma non a volerle bene. L’odio represso dalla tristezza provata, la tristezza data da quell’ingiusto allontanamento dal sua amato era riemerso e ora voleva solo dare sfogo alla sua rabbia contro l’unica, vera responsabile.

Non le avrebbe dato nulla, se non un minimo di cibo. Nemmeno un nome.
Non le avrebbe permesso di abbracciarla, ne di chiamarla mamma, perché non lo meritava e mai l’avrebbe considerata sua figlia.
Avrebbe infierito su di lei come era giusto che meritasse. Era colpa sua, solo sua se non poteva più essere felice. Per questo doveva pagare. Per questo doveva soffrire.

 

 
Cinque anni erano passati da allora e la bambina era evitata da tutti. Non c’era un solo abitante che si comportasse diversamente. Lei era piccola e pertanto, molte delle cose che le accadevano intorno le erano sconosciute, ma, ogni volta che passava per le strade, davanti alle case o ai piccoli negozi, il suo cuoricino le doleva terribilmente. Tanti puntaspilli le pungevano il petto in continuazione e lei non sapeva darsi risposta per quel continuo malore che la colpiva con meticolosa regolatezza.

“Ma deve proprio passare di qui?”
“Tsk! Se penso a quella povera donna. Occuparsi di quella...”
“Avrebbe dovuto gettarla in mare. E’ stata troppo buona”

Sentiva quelle parole sempre, costantemente, come in quel preciso istante, e nonostante provasse male, continuò a camminare verso casa come se nulla fosse, con in mano un mazzolino di margherite bianchissime. Proprio perché era una bambina, erano certi che non capisse le loro parole, quindi non si disturbavano a parlare a voce alta quando passava o li guardava e in parte era vero; non capiva, ma sentiva comunque male, però quel giorno si stava sforzando ancora di più per ignorare quello strano pizzicorio appuntito.

Piaceranno sicuramente alla mamma. Pensò nel guardare i fiori che teneva tra le mani.

Era felice, perché era convinta che portandole qualcosa di bello, lei le avrebbe sorriso. Aveva faticato tanto per mettere insieme quella semplice composizione, ma la sua fatica sarebbe stata ripagata ben presto, così pensava. Non le importava se le sue ginocchia erano sbucciate o se sulle braccia o sul viso avesse dei lividi provocatile dai bambini che si divertivano a trattarla come un fosse un sacco dell’immondizia, voleva solo che finalmente la mamma, la sua mamma, le sorridesse.

“Sono tornata! Mamma, ti ho portato un regalo!”

La casa in cui viveva era piccola, grande abbastanza per ospitare due persone. La stanza dentro cui era appena entrata in cui la bimba stava in penombra, illuminata debolmente dalla luce del tramonto. Seduta al centro, dove vi era il tavolo, c’era l’altra persona che occupava l’abitazione, una donna dai lunghissimi capelli dorati il cui volto era celato dietro a quest’ultimi. La bimba compì un piccolo passo in avanti verso la figura seduta a poca distanza, che si alzò lentamente dalla sedia, lasciando che la folta chioma bionda ricadesse lungo la schiena.
Era snella, con una pelle vellutata e due occhi azzurri cielo impareggiabili. Gli anni non avevano intaccato la sua bellezza. Per la piccola era bellissima, come un angelo, eppure il suo sguardo era perennemente spento, inespressivo, e questo l’aveva sempre impaurita, insieme a molte altre cose....

“Guarda, mamma, sono delle margherite. Le ho raccolte per te” le aveva detto sorridente porgendole il dono.

La donna la guardò, immobile, con gli occhi socchiusi e arrossati, fissi sui fiori. Attorno a lei, un grigiore spettrale sembrava infondersi nella stanza, fino a coprirla interamente, rendendo quello spazio spiacevole sia al tatto e alla vista. La bimba avvertì quel brusco cambiamento e percepì un gelido brivido percorrerle la schiena mentre la figura materna le si avvicinava sempre di più, diventando sempre più grande e inquietante. La piccola provò ancora più paura.

“Non...non ti piacciono, mam...?”

L’adulta non le permise di continuare; le schiaffeggiò le mani, buttando a terra i fiori raccolti. Alcuni di questi si ruppero, altri invece si salvarono.

“Mam...”
“Non chiamarmi in quel modo. Ti ho detto di non chiamarmi mai in quel modo” sibilò austera.
“Ma io.....ahia!”

La donna l’aveva schiaffeggiata con forza inaudita in faccia, gettandola a terra. Il suo rancore era così forte che come le molte volte precedenti, non si accontentò di una semplice sberla. Doveva ricordarle chi era, cos’era.

“Che cosa vuoi che me faccia dei tuoi insulsi fiori?!?”

La afferrò per i capelli e iniziò a prenderla a pugni. La colpiva senza avere in mente un punto preciso, bastava che soffrisse. Ignorava la mano che le doleva, ignorava le sue grida, ignorava volontariamente tutto quello che aveva lì attorno; ciò che la muoveva, le bastava per non vedere altro.

“Smettila, mamma! Mi fai male!” la supplicò in lacrime cercando di divincolarsi.
“Non chiamarmi mamma! Non nei hai alcun diritto!!” le urlò questa.

I suoi colpi infierivano dove capitava e la rabbia, l’odio, per non parlare dell’umiliazione subita, la stavano dominando completamente. Teneva stretta quella colpa per i capelli e non le importava se le stava facendo male. Non le importava affatto.

“Ti prego, mamma! Mi stai facendo male!” supplicò ancora la piccina.
“Ti sto facendo male? Ti sto facendo male?! BUGIARDA! Che ne sai tu, stupida!!”

La gettò con forza nell’angolo, con estrema noncuranza, piangendo quel rancore che le infiammava il sangue. Piangeva sempre, ogni volta che la vedeva, la sentiva, la picchiava....era più forte di lei.

La piccola, raggomitolata al fianco del grosso armadio, alzò la testa spettinata con fare tremante.

“M..Mam…”
“Ti ho detto di non chiamarmi in quel modo!! Non sono la tua mamma e tu non sei mia figlia!! Sei soltanto un errore, un errore, hai capito, stupida?! UN ERRORE!!! Non sei che uno sbaglio!! Non meriti niente da me, NIENTE!!! Ma perché…..” si accasciò a terra, distrutta e con voce roca e sommersa dalle lacrime, pronunciò le sue ultime parole guidata e sollecitata da tutto il suo io: “PERCHE’ DIAVOLO SEI NATA?!?!?”

 

 

I bambini indesiderati, nelle cui vene scorreva sangue pirata, erano considerati figli del diavolo. Affinché non ci fossero eredi, la Marina provvedeva ad ucciderli quand'erano ancora in fasce. Era inconcepibile, crudele, ma il Governo Mondiale non aveva altra maniera per impedire che generazioni future prendessero il posto di quelle vecchie.

La bambina non conosceva quella legge. Sapeva soltanto che l’essere la discendente di un pirata la rendeva agli occhi degli altri una persona cattiva, indipendentemente da come lei fosse dentro.
Non c’era giorno che non si guardasse e vedesse i lividi, i tagli sul suo corpicino.
Non c’era giorno che non provasse quel dolore al cuore quando la gente la guardava in quel modo.
E non c’era giorno in cui i bambini emulassero le gesta dei grandi eroi della Marina su di lei. Gli adulti erano stati così stupidi da trasmettere la repulsione anche ai loro figli: tra i tanti episodi a suo discapito, quello del pozzo rimaneva il più indelebile. Le pareti di pietra umide e scivolose, il pochissimo spazio, l’acqua gelida e sporca che la ricopriva fino al petto, i ragni che le sibilavano contro....

Aveva chiamato aiuto tantissime volte, ma nessuno era venuto ad aiutarla. Erano sempre passati oltre. Ne aveva udito sempre i passi allontanarsi il più velocemente possibile. Era rimasta per un’intera giornata lì dentro e quando finalmente c'e l'aveva fatta ad uscire, se ne era tornata a casa ma ad attenderla, c’era stato qualcosa di ancora più sconcertante. Arrivata malconcia, si era fermata davanti alla casa, con solo il vento lì attorno. Con occhi stanchi e confusi, aveva guardato quella costruzione come se la vedesse per la prima volta, con occhi sgranati e il cuore scombussolato. La porta, le finestre e perfino il camino, erano state inchiodate da pesanti assi di legno, con tanti chiodi. Il tutto era stato fatto quand’era rimasta imprigionata nel pozzo.

Alla fine, la sua....quella donna aveva deciso di abbandonarla definitivamente.

Se ne era andata via.
Lei girò intorno alla casa, come a voler cercare uno spiraglio da cui poter entrare, ma non trovò nulla. Fu inutile rimanere sul posto. L'abitazione non si di certo sarebbe aperta magicamente per lei. Aveva fame, freddo, ma trattenne il tutto con le forze richiamate a tempo di recod; gli abitanti del villaggio non le avrebbero dato nulla, quindi non le restò altro da fare che cercare qualcosa nei dintorni che l'aiutasse a sopravvivere.

“Ehi, guardate! Quella stupida è ancora qui!”

Un giorno mentre cercava qualcosa da mettere sotto i denti, alcuni bambini l’avevano vista con in mano delle mele raccolte dai alberi vicini al bosco. Mele ricercate a lungo perché nel bosco si poteva entrare entro un certo limite e di solito in quella fascia non c’erano alberi che ospitassero frutta.

“Che credi di fare?! Non puoi raccogliere queste mele!!” il capogruppo gliele buttò a terra e le schiacciò con i suoi stessi piedi.

La bambina tentò di recuperarli e finì col farsi male alle mani.

“A feccia come te non serve altro che la prigione! Questa è roba nostra!” la schernì gettandola a terra.
“Appena la Marina avrà le prove verrà qui e ti porterà in prigione, insieme a tutti gli altri. E' lì che meriti di stare!” le disse un altro.

Non facevano altro che ripetere le stesse parole che i genitori trasmettevano con il loro disprezzo. Gli adulti non si sarebbero abbassati a picchiare una bambina, per questo avevano trasmesso l’odio ai figli e li avevano avvertiti. Se erano loro a farle male, non c’era nulla di sbagliato e se qualche estraneo chiedeva, loro rispondevano che le scazzottate tra bambini non erano niente di così grave da imporre un rimprovero. Ma di estranei non ce ne erano e di buona gente ancora meno, quindi per quel tipo di problema non c’era di che preoccuparsi.

“Per aver rubato le mele dal bosco devi essere punita!” decretò il capo gruppo
“Gettiamola nel pozzo!” propose un terzo.

Alla parola “Pozzo”, la piccola rabbrividì per la paura. Ricordava ancora fin troppo bene quanto aveva pianto prima di riuscire ad uscirne. Lì supplicò, ma fu tutto inutile, non l’ascoltarono. Non voleva finire ancora lì dentro, ne era terrorizzata. Totalmente dominata dal panico, si alzò in piedi e scappò via verso il bosco.

“Ehi, sta scappando! Prendiamola!”

Iniziarono a rincorrerla ma avendo più vantaggio di loro, riuscì a non farsi catturare. Quando oltrepassò il confine segnato dal villaggio, i bambini smisero di rincorrerla, sicuri che da lì non sarebbe mai uscita. Quella parte dell'isola era inesplorata e pertanto ritenuta pericolosa. Sapeva di non averli più alle calcagna, ma la piccola continuò imperterrita nella sua corsa, con le lacrime agli occhi e, a forza di andare avanti senza una meta, finì per perdersi. Era sola, in quel posto spettrale e non aveva la benché minima idea di dove andare. Oltretutto, era così affamata e stanca da non reggersi più in piedi. Camminò con l’unico desiderio di trovare qualcosa che potesse essere commestibile ma, ad ogni passo, le sue forze diminuivano drasticamente.

Infine, debole, cadde ai piedi di una grande quercia e riuscì appena a rannicchiarsi per trovare un po’ di calore fra le sue stesse braccia. Lì, fece l'unica cosa concessale: si mise a piangere, come solo una bimba triste e sola poteva fare. Non aveva più niente, non aveva mai avuto niente e adesso che era ancora più sola, con le sue lacrime, non voleva far altro che piangere fino a morire. Pianse in silenzio e quando le forze le vennero a mancare completamente, cadde in un sonno profondo.

Se scomparissi qui....lei ne sarebbe ancora più felice....

Quel pensiero le era apparso in mente poco prima di sprofondare nel buio.

 

 

“Povera piccola, ti odiano per quello che sei, vero?”

A domandarglielo, era stato un anziano signore che l’aveva trovata mentre passeggiava in cerca di funghi. Aveva raccolto quel fagottino tremolante, portandoselo a casa senza pensarci due volte. La bambina, ridestatasi al suono di quella voce si era spaventata, aspettandosi di subire il trattamento da cui era riuscita a fuggire, ma poi, qualcosa l’aveva fatta calmare. Quell'anziano uomo...la stava guardando diversamente da tutta la gente del villaggio: in quelle iride azzurrine, quasi bianche, lei vide...la gentilezza. L'uomo scrutava quel cucciolo umano con comprensione, qualcosa che la piccola non seppe interpretare con certezza. Sapeva chi era, ogni tanto passava nei dintorni del villaggio e poteva immaginare fin troppo bene perché l’avesse trovata in mezzo al bosco, magrolina e svenuta.
Con un grande stupore da parte di lei, questo non si dimostrò come gli altri: le permise di restare. Lui era vecchio e solo e non voleva nient'altro che un po’ di compagnia, così da rallegrarlo. Non appena riacquistò le forze, la bimba potè uscire alla luce del sole. Nel guardarsi in giro, vide che la casetta che l’ospitava si trovava ai piedi di un’altissima scogliera, ricoperta da un fresco tappeto di erba che si estendeva in ogni direzione, con una spiaggia al di sotto d'esso, dove i paguri e i gabbiani zampettavano in tranquillità. Incosciamente, la bambina si ritrovò a contemplare quel panorama con occhi incantati, traboccanti di meraviglia: era un posto bellissimo. Poteva vedere addirittura il mare e stare lì per ore e ore a guardarlo, senza che nessuno la rimproverasse.

“Ti piace?” le domandò l’anziano sedendosi accanto a lei.
“........”
“Ancora in silenzio, eh? Eh eh, non ti biasimo. Con quello che hai passato, fidarsi delle persone è qualcosa che forse non ti riuscirà mai”

Le sue parole rispecchiavano quella realtà in cui lei era ancora invischiata e da cui avrebbe fatto emergere le sue capacità, il suo talento. Più guardava il mare e più il senso di vuoto nato in lei si ingrandiva, rinchiudendola come una gabbia faceva con un uccellino. La sofferenza le opprimeva il cuore come a pochi. Dovette passare un po’ di tempo prima che riuscisse finalmente a parlare, a fidarsi e fu difficile, ma quel vecchio seppe aspettare pazientemente; quando provò a comunicare con lui, non tentò in alcun modo di zittirla, ma si dimostrò disponibile, desideroso di ascoltarla. Sedevano sempre sulla loro sponda privata e la scena ricordava tanto un nonno in compagnia della nipotina, solo che le parole di lei non esprimevano alcuna felicità.

Al contrario, l’anziano signore, che un tempo era stato un valente marine, le raccontò quel che ricordava delle sue avventure. Si era spaventata quando le aveva detto chi era, perché temeva che la volesse portare in prigione. In realtà, una simile intenzione lui non l’aveva mai avuta.

“Tu sei la figlia di un pirata e questo non si può cambiare. Le persone ti guarderanno sempre per quello che pensano e non per quello che sei. Ti allontaneranno e ti odieranno, ma questo perché sono abituate e credere a quel che i loro occhi vedono. L’apparenza offusca la vista e la mente di tantissime persone e spesso anche la loro testardaggine, li rende più stupidi di quanto già non lo diano a vedere” le disse un giorno, sempre sulla spiaggia “E’ vero che quelli come te vengono cercati e uccisi per impedire che il sangue maledetto continui a vivere, ma io ritengo che un figlio non debba pagare per le colpe del genitore. Anche se sei considerata diversa, devi sempre tenere a mente che decidi tu chi essere, non una persona, non il tuo passato. Nessuno, solo tu”
“E come faccio a sapere chi sono?” gli aveva chiesto tristemente. Non aveva neppure un nome.....
L’anziano le sorrise e la prese per la mano “Vieni, ti voglio mostrare una cosa”

La condusse sul retro della casa, proprio dove c’era il suo tesoro. Protetti da un piccolo recinto di legno, vi erano dei bellissimi gigli bianchi, fragili quanto meravigliosi. I petali, di un candore puro, risplendevano sotto la luce del sole e godevano ogni tanto dell’acqua che il loro padrone si premurava di dargli. I gambi sottili e spessi esibivano foglie verdi brillanti con la punta arricciata. Erano pochi, massimo cinque, ma trattati con riguardo e amore; non ostentavano a nascondere la loro bellezza, il loro rigoglio e le piccole goccie d’acqua che ne abbellivano i petali li rendevano ancora più incantevoli.

Di tutti i fiori che aveva visto, la piccola trovò in essi qualcosa di raro, unico e inimitabile.

“Sayuri” disse infine l’uomo.
“Uh?”
“E’ il tuo nome. Significa giglio. A una bambina che presto diventerà una donna splendida occorre un nome altrettanto splendido. Questo è ciò che ti posso dare ma se vuoi veramente vivere come tutti quanti, allora trova il tuo sogno e inseguilo. C’è chi parte con il proprio da realizzare ma chi non sa cosa cercare, va per mare guidato dal fato”

Sayuri. Il suo nome. Indicava purezza. Indicava un fiore la cui bellezza era così ricercata che perfino le ombre la bramavano. Nel guardare quei fiori, la piccola percepì qualcosa, simile ad un battito. Qualcosa in lei aveva ripreso a vivere, a sperare e le venne voglia di sorridere per la felicità. Aveva un nome, un nome che le piaceva, anche se inizialmente si era imbarazzata. Sayuri le appariva un nome così raffinato, grazioso mentre lei era....beh, ancora non lo sapeva.

“Non ti piace? E' un nome da angelo” le disse dolcemente l’anziano per colmare la sua lacuna.
“N-no, mi piace....solo che non credo di essere un angelo. Gli angeli sono più belli e hanno anche le ali” gli rispose titubante.

Per caso, quando era ancora in convalescenza, aveva trovato un libro vicino al comodino e nel sfogliarlo, era rimasta totalmente incantata nell'ammirare l’immagine di quei esseri magnifici, candidi, con grandi ali bianche, che volavano in cielo. Possedevano lunghe chiome dorate e occhi azzurri celestiali, per non parlare della loro pelle nivea e di come il loro corpi fossero avvolti da veli del medesimo colore delle ali.

“Oh, le tue ali sono diverse dalle loro. E’ ancora troppo presto perché tu possa spiccare il volo”
“......Nonno”
“Che cosa c’è?” gli domandò premurosamente lui.
Sayuri lo guardò con i suoi occhi color cioccolato “Che cos’è un sogno?”
“Uh?”
“Tu mi hai detto che per vivere è necessario avere un sogno, ma io non so neppure che cosa sia. E’ davvero così importante averne uno?”
“Più di quanto credi, piccola mia” le rispose prendendola in braccio “Sognare è la sola cosa che divida gli uomini dalle bestie ma se questa non ti basta, allora dovrai cercare da sola il suo significato”

Doveva aspettare per sapere ma lei continuava a pensare che Sayuri fosse un nome addirittura troppo bello per lei e che il sogno tanto menzionato, fosse qualcosa di intoccabile, ma il suo nonno ci credeva e pian piano anche lei volle provare a pensarla allo stesso modo. Fu quando compì sette anni, che chiese al suo tutore di insegnarle le arti marziali. Da tempo ne era affascinata e voleva apprendere il sapere dell’anziano affinché potesse difendersi da sola, di modo tale da identificarsi come qualcun altro. Se doveva cercare il suo sogno, voleva essere in grado di dimostrare di essere meritevole di tale ricerca. Non si trattava di un capriccio, perché quand’egli accettò, prese sotto la sua ala un talento senza eguali.

Le insegnò da prima i principi sacri, come non uccidere o infierire per puro divertimento, poi le basi del karate. La piccola allenava corpo e mente e lo faceva con una calma e una pazienza innata che molti non possedevano, tanto che quando ne fu in grado, rese più suo quello stile, adattandolo alle sue esigenze. Gli occhi di quella persona ormai chiamata nonno, in quei pochi anni videro crescere una bambina dall’animo nobile, incapace di odiare, forse addirittura troppo maturo per una ragazzina della sua età, ma tutta quella ponderatezza serviva a contenere il dolore che da tempo non soleva più sentire. La sua forza cresceva giorno dopo giorno, quel fiore stava lentamente cominciando a sbocciare e lui l’aveva notato, non solo mentalmente ma anche fisicamente; i suoi petali si abbellivano, la figura diventava più armoniosa, rendendola più graziosa e bella, proprio come lui aveva sempre immaginato. Anche se la vista lo stava abbandonando del tutto, riuscì a vedere quella ragazzina che sempre si mostrava gentile e sorridente verso di lui, trasformarsi in un gioiello che avrebbe attirato a sé molte persone.

Quando poi raggiunse i dodici anni, il pover uomo, ormai stanco, la lasciò nuovamente sola, ma con parole confortanti e di incoraggiamento:

“Sei diventata forte mio piccolo angelo bianco, ma..hai ancora tanto da imparare e le tue ali sono molto lontane dall’essere viste da tutti. Il mondo è pieno..di persone che non esiteranno a farti del male” le aveva detto “Persone che distruggeranno, derideranno quello che difendi, ma non devi mai abbassare la testa o mostrarti per come loro ti voglio. La libertà...è già tua, difendila. Adesso mostrami...mostrami dove puoi arrivare”

 

 

Era morto quando aveva dodici anni, lasciandola sola ma non più amareggiata. Quei anni passati ad allenarsi le erano serviti a creare un confine tra il presente e il passato, a concentrarsi unicamente sulla ricerca di qualcosa che la spingesse ad andare avanti. Aveva la sua libertà, doveva proteggerla perché al momento non aveva nient’altro. Quando aveva abbandonato l’isola non si era voltata indietro, ma, prima di cimentarsi nella corsa della sua vita, aveva voluto fare in modo che quei gigli che tanto le piacevano venissero con lei, per questo, quand'era giunta nella prima terra del suo viaggio, si era fatta tatuare i suoi tesori sulla spalla destra. Da lì in poi aveva vissuto come meglio credeva e pensava che sarebbe bastato impegnarsi a fondo per arrivare laddove non era ancora giunta ma forse, per tutto quel tempo, si era soltanto illusa di poter fare finta di niente, di vivere felicemente, di poter ignorare che sangue le scorresse nelle vene, di trovare il suo sogno..

Che diritto ho di cercare qualcosa che non merito, se mi faccio condizionare così apertamente dal mio passato?

Si strinse le mani attorno alle braccia.
Per la prima volta, dopo tanto tempo, dai suoi occhi fuoriuscirono delle lacrime. Sin da quand’era bambina non aveva più pianto e in quel momento, nemmeno si era rese conto di quel che stava facendo. Teneva gli occhi chiusi, senza sentire freddo, cercando di dare una risposta a tutte le domande a cui non aveva mai trovato soluzione e sentondosi una stupida. Quei anni passati col nonno erano stati i soli attimi felici della sua vita e quando lui se ne era andato, si era fatta coraggio, proseguendo il suo cammino ma dentro di sé, si era sentita ancora una volta abbandonata. Non aveva colpa quell’uomo, così come quella donna.
Col tempo aveva imparato a valutare ogni situazione con molta attenzione e nel ripensare a quei cinque anni passati con lei, era giunta alla conclusione che chi aveva sofferto più di tutti era stata proprio quella donna che non voleva farsi chiamare mamma. Lo aveva accettato per quello che era, e non poteva replicare, ma allora....perché adesso stava così male?

Se mi vedessero in questo stato... non mi riconoscerebbero. Pensò

“Sayuri?”

Al suono di quella voce spalancò gli occhi. Rigida sia per il freddo che per volontà sua, rimase immobile, avvertendo quella presenza familiare alle sue spalle.

Incespicò nel respirare e quando finalmente riuscì a voltarsi, si sentì sprofondare definitivamente. A pochi passi da lei, con uno sguardo decisamente allarmato, c’era la persona che meno avrebbe desiderato che la vedesse in quello stato pietoso.

“Ace...sei qui” 


 
  
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