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Autore: _ayachan_    27/01/2010    1 recensioni
Diciassettesimo secolo, campagna italiana. Un villaggio indipendente viene requisito da un signorotto locale in cerca di una roccaforte da cui affrontare un avversario in battaglia. La popolazione, impiegata nella costruzione di un’estenuante quanto inutile trincea, sembra essersi arresa all’inevitabile, ma l’arrivo di un ambiguo gruppo di ribelli che dicono di lottare per un generico ideale di libertà interrompe il monotono tran-tran della vita di sempre...
Aspettiamo tempi migliori o lottiamo per crearli nel presente?
Questa storia si è classificata prima nel contest "Dal film alla storia" indetto da DarkRose86 sul forum.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Inverno-3

Inverno

La primavera arriverà










Capitolo Terzo

Temporale di primavera





I contadini rientrarono nelle loro case strisciando le estremità dei forconi a terra. Il metallo opaco si sporcò di fango e paglia, gli zoccoli si impiastricciarono fino alle caviglie, ma a soffrire più di tutto fu la speranza violentata che era fiorita nel cuore degli uomini.
Lia fu rimandata dalle donne, con l’incarico di nasconderle e proteggerle durante il combattimento; sarebbero tornate dopo la battaglia, qualunque fosse l’esito. Le guardie che sorvegliavano erano libere di agire come credevano.
Lorenzo rientrò con il cuore pesante e un fosco pensiero che si agitava nello stomaco. Evitò lo sguardo del padre, il più doloroso di tutti, e si gettò nell’angolo più buio della stanza, prendendosi la testa tra le mani.
«Hai fatto la scelta migliore.»
Le parole del padre furono uno schiaffo alla sua dignità.
«Hai risparmiato tante vite, non hai ceduto alla sete di gloria. Era la cosa giusta.»
Distruggere tutte le speranze e il coraggio di chi lo circondava? Vedere la delusione, l’orrore della sconfitta nei loro occhi? Se questa era la cosa giusta, non osava immaginare quella sbagliata.
«Arriverà la primavera. I campi si riempiranno di nuovo, smetteremo di lavorare a quella trincea...»
Parole, parole, parole intrise di rassegnazione, non speranza!
«E poi, se saremo fortunati, come sempre accade gli eserciti si distruggeranno a vicenda...»
Lorenzo rialzò la testa.
«Come?»
«Le battaglie non si concludono mai con una vittoria e una sconfitta» spiegò il padre, pulendo con cura gli zoccoli già lindi. «Perdono tutti, e il vincitore è quello che resta in piedi e torna per riferirlo. Ma dopo ogni guerra gli eserciti muoiono completamente, figliolo. E’ così.»
Il fosco pensiero nello stomaco di Lorenzo si agitò con più forza.
C’era qualcosa a cui non aveva pensato; qualcosa che lo tormentava ai confini della coscienza, un’idea che premeva per uscire e graffiava, graffiava, graffiava...
All’improvviso, grazie alle parole di suo padre, capì di cosa si trattava.
Balzò in piedi di scatto, gli occhi illuminati di luce nuova, e tutti nella stanza lo fissarono con ansia.
«Padre, odiatemi pure... ma devo dirvi che voi sarete il vero motore di questa rivolta!»
E con queste parole sibilline, Lorenzo si precipitò fuori di casa.

Il marchese della Ginestra era alla testa dei suoi uomini, un centinaio di ragazzi e mercenari armati che fissavano la Rocca in fiamme e storcevano il naso per colpa del fumo. Il suo cavallo nitriva nervoso, faticando a restare fermo, e il marchese lo maledisse e piantò gli speroni nei suoi fianchi, provocandone l’impennata.
Era un uomo piccolo ma muscoloso, con un principio di stempiatura nei capelli altrimenti folti. Dal suo viso squadrato non traspariva tensione o eccitazione, ma soltanto stizza macchiata di insofferenza.
«Signore, gli uomini del vassallo sono schierati dietro un abbozzo di trincea» gli comunicò una sentinella. «E’ un muro basso e sembra fragile, potremo abbatterlo con una carica, rinunciando alle prime due file.»
Il marchese annuì bruscamente, costringendo il cavallo a girarsi verso i suoi uomini.
«Ho bisogno di venti giovani coraggiosi, che riceveranno i più alti premi ed onori!» annunciò a gran voce. «Chi si offre per le prime file?»

Il Signore era sceso dalla Rocca lasciando che i servitori e le sue guardie personali cercassero di arginare l’incendio. Ostentando una tracotante arroganza, aveva percorso le file dei suoi uomini e commentato aspramente l’infiacchimento della truppa. Al contrario del marchese, lui era alto e leggermente in sovrappeso; aveva scuri capelli ricci, naso aquilino e labbra sottili, ma mani grandi come pale.
«Abbiamo una difesa insuperabile!» esordì, facendo riecheggiare la voce aspra da un lato all’altro. «Siamo riposati e confidiamo nella vittoria! Alcuni di noi morranno, ma saranno coloro a cui verranno tributati i più grandi onori! Chi invece resterà in vita, si godrà la vittoria, il vino e le donne! Lottate, miei uomini! Lottate per avere ciò che meritiamo!»
Dai soldati si sollevò un coro di giubilo – la menzione dei premi era sempre un’arma vincente. Il signore stirò le labbra in un sorriso e voltò il cavallo verso l’esterno del villaggio. In lontananza, ben visibili al limitare della foresta, gli uomini del marchese attendevano il primo segno.

La battaglia ebbe inizio in un momento non meglio precisato della giornata. Il cielo grigio e la luminosità diffusa impedivano di distinguere la posizione del sole, ma tutti sapevano che il combattimento si sarebbe concluso prima del tramonto.
La carica del marchese fu assordante, un clangore di spade, voci e corazze sormontato dal rombo dei passi sul terreno. Il fango schizzò in tutte le direzioni, le frecce sibilarono e si conficcarono oltre la trincea, colpendo e mancando a seconda del caso.
Lo scontro con le difese del Signore fu rapido e doloroso: le grida aumentarono di volume, la melma si macchiò ben presto di sangue. Le voci dei comandanti degli schieramenti si perdevano nel frastuono della battaglia, e ognuno agiva unicamente per salvare la propria vita e falciare quelle altrui.
La trincea resse pochi minuti. Ben presto i primi uomini del marchese tentarono di scavalcarla, ma furono rimandati indietro; allora presero a spingerla insistendo sulle parti ancora umide, e i sassi impastati di calce e fango cedettero, schiantandosi nel pantano come giochi di bambini.
Allora gli eserciti si mescolarono, e la guerra prese la sua forma canonica: un intrico di mani, teste e cuori disperatamente terrorizzati dalla morte.

Lorenzo osservò l’intero scontro appollaiato su un tetto, stretto nel mantello e senza sbattere le palpebre.
Vide le truppe del marchese invadere il terreno all’interno della trincea, vide le spade incrociarsi e il sangue schizzare sui volti dei sopravvissuti. Il suo stomaco si ribellò a quello spettacolo, ma lo mise a tacere con la forza della disperazione: uomini come il marchese e il Signore mandavano al macello altri uomini, in base a un diritto oscuro e arbitrario, e avrebbero volentieri fatto fare la stessa fine a lui e tutti i suoi compagni, se glielo avessero permesso.
Non poteva cedere. Come gli aveva insegnato Falco, dovevano combattere, magari anche morire! Però mai, mai arrendersi! E anche se Falco se l’era data a gambe nel momento del bisogno, le sue parole menzognere erano comunque valide.
Le avrebbe fatte fruttare al suo posto.
Rimase immobile sulla cima di quel tetto per tutto il tempo del combattimento, neanche un’ora. La superiorità del marchese avrebbe potuto essere schiacciante, se i suoi uomini non avessero viaggiato fin lì; ma, nonostante la stanchezza, era largamente bastante per vincere quella battaglia. I soldati del Signore erano fiacchi, demotivati, impigriti; non riuscirono a respingere l’assalto, arretrarono fino alle prime case, iniziarono a disperdersi. Lorenzo vide il Signore stesso colpito dalla lama di un nemico, trascinato giù dal cavallo e massacrato senza pietà. Dopo la sua caduta, gli uomini che aveva pagato si diedero alla fuga, e quelli fedeli al marchese esultarono sollevando le armi.
Di cento che erano arrivati, ne restavano al massimo quaranta.
Lorenzo si alzò, sgranchì le gambe anchilosate e scese dal tetto.

«Andate a spegnere quell’incendio!» fu il primo ordine del marchese della Ginestra, nuovo padrone e signore della Rocca.
I suoi uomini, intenti a depredare i cadaveri, abbandonarono le loro occupazioni con disappunto e si avviarono stancamente per il sentiero.
Il paesaggio ai piedi della collina era di una desolazione straziante: resti dell’uno e dell’altro schieramento, sangue, fango ed escrementi, armi spezzate, corpi calpestati. I militari non vi posavano gli occhi facilmente, ma i contadini fissarono lo scempio con la stoica indifferenza di chi ogni giorno ha a che fare con la morte, quella vera, quella che non è la morte per gioco della guerra.
I soldati li videro comparire a metà del sentiero che conduceva alla Rocca, e si fermarono interdetti: un gruppo di contadini rozzamente armati era l’ultima delle loro preoccupazioni.
Lorenzo, davanti a tutti, fece un passo oltre e stese il forcone.
Non alzò il mento, non parlò con arroganza, non fece nulla di ciò che aveva fatto con il capitano delle guardie del Signore. Il tempo del ragazzino eroico che giocava a salvare il mondo era morto con il tradimento di Falco.
«Avete vinto. Andatevene» ordinò senza alzare la voce.
I soldati si guardarono e risero, increduli.
«E tu chi sei? Il Re dei Poveri?» lo schernirono.
Le punte del forcone di Lorenzo ebbero un pallido brillio; lui non mosse un muscolo.
Le risate dei militari scemarono fino a trasformarsi in smorfie nervose.
«Va’ a chiamare il marchese» borbottò uno al compagno.
«La sua presenza non cambierà le cose» spiegò Lorenzo. «Voi siete stanchi, e siete la metà di noi. Se volete salva la vita, dimenticate questo villaggio.»
Il marchese li raggiunse quasi subito, in sella al suo cavallo. Stizzito e sbalordito chiese cosa accadeva, inveì contro i contadini che alzavano la testa, e poi ammutolì, turbato dalla loro immobilità. Nemmeno uno sguardo si distolse dal suo, e per un attimo ebbe a pensare che aveva davanti l’esercito più compatto che avesse mai visto. Fece un risolino nervoso.
«Cosa volete?» domandò poi, cambiando tono. «Oro? Terreni? Vuoi essere nominato mio vassallo?»
Lorenzo, suo malgrado, sorrise.
Che doni irrisori.
«Vogliamo libertà. Vogliamo che ve ne andiate dal nostro villaggio e lo scordiate per sempre. Solo questo.»
Il marchese lo scrutò diffidente.
«Perché? Cosa ci guadagnate?»

«E cosa ci guadagnate?» domandò Lorenzo aspro, senza fidarsi di mezza parola.
«Molto, credimi» l’uomo gli lanciò un’occhiata condiscendente. «Lo capirai anche tu, se arriverai vivo alla mia età.»

Non era stato necessario invecchiare molto... D’altronde, non aveva mai saputo gli anni di Falco.
«Molto, credimi» rispose Lorenzo, senza smettere di sorridere, senza smettere di provare una feroce amarezza dietro la gratitudine.
Il marchese non capì, come non aveva capito lui a suo tempo. Pensò a un tranello, un trucco per assalirlo alle spalle. Scrutò la massa di contadini ottusi che gli si opponeva, guardò la Rocca ormai irrimediabilmente perduta, avvolta dalle fiamme e nera di fuliggine, si chiese se poteva rinunciare a uno sparuto gruppo di case e andarsene così...
Lorenzo catturò la sua attenzione schiarendosi la voce.
«Allora?» domandò severo.
Il marchese sorrise, un sorrisino viscido e lezioso che lo faceva assomigliare a un avvoltoio.
«Va bene. Avreste la vostra libertà, se vi piace tanto... La Rocca era l’unica cosa che poteva interessarci, e ormai è in fiamme. Siamo soddisfatti della vittoria.»
Il grido di gioia che si sollevò dai contadini spaventò i soldati che si accalcavano attorno al loro condottiero. I forconi si agitarono nell’aria offuscata dal fumo, qualche cappello fu lanciato e ripreso al volo. L’espressione del marchese, cristallizzata sul suo viso come quarzo, sembrava quella di una maschera.
Lorenzo si lasciò andare a un tremulo sospiro di sollievo.
Ce l’aveva fatta! Nonostante tutto, la rivolta era riuscita.
«Andatevene!» ordinò con voce incerta per l’improvvisa carenza di adrenalina. Agitò il forcone come un ragazzino inesperto, e il marchese, sempre sorridendo, fece voltare il cavallo.
Una freccia sibilò al di sopra delle loro teste, precisa e mortale. Con un curioso rumore frusciante si conficcò nel collo dell’uomo, poco sotto l’orecchio, attraversandolo da parte a parte. Mentre cadeva dalla sella, alcune gocce di sangue rimasero a brillare nell’aria grigia e improvvisamente muta.
«Tradimento!» gridarono i militari del marchese, almeno la ventina di servi fedeli che era sopravvissuta. «Sozzi cani della terra!» ruggirono, sguainando di nuovo le spade.
«Non siamo stati noi!» si difese Lorenzo, riscuotendosi dallo shock con veemenza. «Nessuno di noi tira con l’arco!»
«Bugiardi! A morte!»
I mercenari assoldati per il combattimento, metà dei reduci, si tirarono indietro. Ma gli altri uomini erano ansiosi di vendicare l’ssassinio del loro signore, e la carica che spinsero sui contadini fu così feroce da far tremare loro le ginocchia.
«Uomini! Difendetevi!» gridò Lorenzo, tornando precipitosamente tra le fila del gruppo.
Ora che la battaglia era inevitabile, per la prima volta si rese conto di avere paura. Sentì lo stesso sentimento serpeggiare tra gli amici che lo spalleggiavano, vide il tremito dei forconi ma anche i piedi saldi nel fango. Tutti loro sapevano che perdere significava morire, e se proprio era inevitabile, almeno volevano cadere dopo aver ucciso uno dei nemici.
Lorenzo serrò le mani sul forcone, incrociando lo sguardo del soldato più veloce.
Strinse i denti, fu assordato dal rombo delle sue orecchie, e con un urlo selvaggio si gettò addosso al nemico.
La battaglia fu breve ma cruenta. I militari erano stanchi, i contadini freschi, i primi erano furiosi e gli ultimi disperati. Esperienza e istinto si combatterono con ferocia, mietendo vittime da entrambe le parti, e lame e forconi uccisero in egual misura.
Lorenzo sbatté con la schiena contro uno dei compagni, rischiando di colpirlo a morte per lo spavento. Il terrore gli annebbiava i sensi, ma i suoi piedi agivano là dove la ragione tardava, salvandogli la vita più e più volte. Ogni lama era un nemico, ogni legno un amico: schema semplice e salvifico, nel marasma di orrore in cui era immerso.
A un tratto una spada calò sul militare che aveva di fronte, conficcandosi a fondo nella sua spalla. L’uomo gridò, accasciandosi a terra, e Lorenzo alzò subito il forcone per colpire, convinto di un errore degli avversari, ma dovette bloccarsi.
Davanti ai suoi occhi sbalorditi stava il Baio, armato come mai e barbuto come sempre.
«Alle tue spalle, pulcino spaurito!» abbaiò, facendolo trasalire, e Lorenzo si gettò a terra un attimo prima che una spada fendesse l’aria dov’era stata la sua testa.
Il Baio finì il militare che li aveva attaccati, poi tese una mano a Lorenzo.
«Tirati su, se non vuoi morire in meno di due minuti» gli disse brusco.
«Perché siete tornati?» ribatté lui, senza accettare la sua offerta d’aiuto. «Sensi di colpa?»
«Che stai dicendo, ragazzino?»
«Sto dicendo che siete scomparsi quando avevamo più bisogno di voi!» ruggì Lorenzo, rialzandosi e puntando il forcone alla gola dell’uomo. «Dov’erano Falco e le sue belle parole quando il marchese è piombato sulla scena? E voi sapevate che sarebbe arrivato! Non mentite! Ho visto le vostre espressioni quella mattina, so che avete sentinelle nei dintorni! Ci avete abbandonati quando meno sapevamo cosa fare! E ora... ora... Siete stati voi! La freccia doveva essere vostra, del Magro! Ho visto il suo arco! Volete ucciderci? E’ un gioco perverso del Demonio?!»
«Abbassa l’arnese, sciocco idiota!» sbottò il Baio, afferrando il manico del forcone e strappandoglielo di mano. «Il solito cretino arrogante! Sei corso alle conclusioni anche al nostro primo incontro, diffidente testa di legno! Ti sembra che vi vogliamo morti? Guardati attorno!»
Lorenzo, seppur contrariato, obbedì; allora si accorse che i contadini non stavano più combattendo da soli, ma erano circondati da una ventina di sconosciuti armati e bellicosi, che falciavano i militari rimasti come spighe di grano. La sorpresa lo scosse più della freccia che aveva ucciso il marchese. A quel punto guardò il Baio con disperazione.
«Dov’è Falco?» gridò. «Perché non è venuto quando abbiamo mandato a chiamarlo? Perché non ci avete avvisati dell’arrivo dell’esercito?»
La risposta del Baio fu soffocata dall’urlo di giubilo che contadini e ribelli lanciarono alla caduta dell’ultimo soldato. L’uomo scosse la testa e gettò a terra il forcone, tendendogli di nuovo la mano.
«Vieni con me, pulcino spaurito. Falco ti aspetta. Ma non piangere quando lo vedrai.»

Era nella casa di Garro, una delle più vicine alla Rocca. Quando Lorenzo e il Baio la raggiunsero riprese a piovere, e Lorenzo si sentì quasi confortato dalle gocce d’acqua gelida che cadevano, pesanti, sulle sue spalle: almeno loro erano rimaste le stesse, nonostante il mondo - il suo mondo - si fosse capovolto nel sangue.
Come quasi tutte le case al villaggio, anche questa era composta da un’unica stanza. Da un lato erano accatastati il tavolo e un’ultima sedia, nella parte opposta una serie di pagliericci umidi, attorno ai quali stava un capannello di sconosciuti. Il padrone di casa, lo stesso uomo che era stato mandato a cercare Falco qualche ora prima, si tormentava i lembi del mantello con la schiena contro un angolo.
«Baio, ma cosa...»
«Guarda coi tuoi occhi.»
L’uomo lo sospinse avanti rudemente, sordo alle sue richieste come lo era stato lungo il tragitto. Lorenzo si trovò d’improvviso tra gli stranieri che facevano gruppo, e guardandone i volti duri e segnati si sentì un bambino finito per sbaglio tra i grandi.
«Ehi, Fosco...»
Più roca, più fievole, infinitamente più distante, però ancora perfettamente riconoscibile: la voce di Falco aveva perso tutto, ma non l’essenziale.
Gli uomini che gli ostacolavano la visuale si scansarono, e finalmente Lorenzo vide il pagliericcio su cui giaceva Falco... Ciò che ne era rimasto, almeno.
Aveva retto al combattimento, all’omicidio di un signore, a quello dell’altro, all’orrore della battaglia e della morte, ma di fronte al viso irriconoscibile dell’angelo dei suoi ricordi lo stomaco gli si contrasse e contorse, costringendolo a piegarsi da un lato per ingoiare il conato di vomito.
Del vecchio Falco era rimasto solo un vago angolo d’azzurro, nascosto sotto palpebre gonfie e ulcerate, affondato nella carne deforme e riarsa di quello che una volta era un bel viso. Il fuoco aveva aggredito la pelle con indicibile violenza, si era portato via ogni singolo pelo e qualcosa di più, aveva premuto e disteso le pieghe a suo piacere... E poi, ritirandosi, aveva lasciato una massa deforme e tesa, sicuramente molto dolorosa.
Lorenzo non riuscì a impedirsi di guardare quel volto sfigurato con l’orrore del fascino macabro. Si soffermò sull’apertura che doveva essere la bocca, e si domandò che fine avessero fatto le labbra. Perché le palpebre c’erano ancora e le labbra no?
«Ora l’hai capito?»
Quel buco osceno si era mosso, lasciando sfuggire la voce di Falco. Lorenzo trasalì e si costrinse a fissare lo spicchio di occhi che sfuggiva alle palpebre devastate.
«Cosa?» balbettò.
«Per cosa lottiamo. Qual è la nostra ricompensa.»
Non poteva più sorridere come un tempo, ma fu come se lo avesse fatto.
Lorenzo sentì una stretta terribile al cuore. Sì, aveva capito perché lottavano. Solo ora, solo dopo la battaglia, poteva comprendere e accettare che c’erano cose che davano più piacere del denaro.
«Siamo incredibilmente egoisti, vero...?» sospirò Falco, e sembrò costargli una fatica immane. «Vogliamo liberare tutti e vederli spiccare il volo, ma in realtà siamo soltanto genitori vanitosi: vogliamo vederli crescere come noi ci aspettiamo. Perdonami, Fosco. Sapevo che sarebbe arrivato il marchese, le mie spie mi avevano avvertito con giorni d’anticipo. Ma come potevo dirtelo? Come potevo guardarti mentre ti ordinavo di abbandonare ogni piano, di rinviare? Avresti perso la speranza. Avresti perso i tuoi begli occhi... Ho preferito sacrificare le vite di tutti piuttosto che il tuo ideale. Perdonami, perdona questo povero folle...»
«Non abbiamo seguito il tuo piano» lo interruppe lui. La voce gli uscì dalla gola a fatica, e sembrava davvero il pigolio di un pulcino spaurito. «Pensavamo che... ci avessi tradito» fece un sorriso che non aveva nulla di allegro, un sorriso di sprezzo per sé stesso e amarezza. «Ma ora mi sembra evidente che non era così.»
«Eh già...» la smorfia che voleva essere un sorriso fu raccapricciante e probabilmente dolorosissima, ma Lorenzo la sentì come il più bello dei regali.
«Sono io che devo chiederti di perdonarmi!» esclamò all’improvviso, cadendo in ginocchio accanto al pagliericcio e cercando la mano deforme per stringerla, incurante delle piaghe, della pelle lucida, finanche del dolore. «Tu hai fatto tanto per noi, per me, hai ridato a tutti la speranza... e noi abbiamo dubitato!»
«Vi siete arresi?»
«No! No, questo mai! Noi abbiamo dubitato... di te... Ma io non mi sono mai arreso, come ci hai insegnato! Ho pensato che... beh, è lunga da spiegare nei dettagli: abbiamo lasciato che i due eserciti si combattessero, e poi abbiamo affrontato i sopravvissuti.»
«Vero... C’era anche questa possibilità...» un respiro più lungo, più faticoso, sollevò la coperta che nascondeva pietosamente il resto del corpo di Falco. «Sei stato bravo. Sono fiero di te.»
«Non correre troppo, Falco» brontolò il Baio dal fondo. «Questo cretino stava per lasciar andare il marchese: sicuro come l’incenso in chiesa sarebbe tornato con uomini freschi e ceppi per tutti. Ci ho pensato io: non vedendolo tornare i suoi eredi penseranno che sia morto e daranno inizio a una faida con gli eredi del Signore, nel suo feudo d’origine. Il villaggio dovrebbe essere risparmiato, tanto più che la Rocca è stata distrutta dall’incendio.»
«Bene, bravi... Tutti quanti» approvò Falco. «Insomma, siete migliorati così tanto che sembra non ci sia più bisogno di me...»
«No!» protestò Lorenzo.
«Sì» ribatté il Baio, guadagnandosi un’occhiata di puro orrore. «Ho preso io le redini del gruppo, prima... Siamo cresciuti, Falco. Ci hai allevati bene, come volevi. Ora stiamo in piedi da soli; se vuoi... se vuoi andare, puoi farlo tranquillo.»
Lorenzo vide il pomo d’Adamo del Baio salire e scendere profondamente, e l’ira provata nei suoi confronti scemò all’improvviso. Chinò il capo, confuso, distante, smarrito come un bambino.
Non c’era nulla che potesse fare. Davvero, non questa volta.
«Lorenzo... per favore...» mormorò Falco, chiamandolo con il suo nome di battesimo. La sua voce si era fatta più fioca, tanto che il ragazzo dovette chinarsi per distinguere le parole. «Lia... occupati di lei. Non c’è bisogno che te lo dica io, ma trovale un marito. Un brav’uomo che coltivi la terra. Dille che mi dispiace... Avrei voluto rivederla un’ultima volta...»
«E’ al sicuro» gli assicurò lui. «Sta bene, ed è forte. Sopravvivrà. Tutti noi andremo avanti, ci hai tirati su come si deve.»
I muscoli sul viso di Falco sembrarono tendersi nell’ennesimo sorriso.
«Ricorda, Fosco... Il tuo cuore è libero, abbi il coraggio di seguirlo.»
«Falco...» sussurrò Lorenzo, fievole, quasi timido. «Qual è il tuo vero nome?»
Dal volto devastato non giunse alcuna risposta.
«Falco...?»
Dietro le palpebre rigonfie non brillava più alcuno spicchio di cielo.
Il freddo calò sulle spalle di Lorenzo con crudele rapidità, amplificato a dismisura dallo scroscio della pioggia sul tetto. Il rumore delle gocce che picchiavano contro l’impasto di paglia e malta avvolse i presenti nel suo abbraccio ovattato, concedendo l’estremo saluto a un uomo che aveva sempre agito dietro le quinte, lasciando la platea ai suoi figli.
Dopo un tempo che parve infinito, Lorenzo lasciò la mano inerte e si rialzò. Curioso. Il corpo di Falco appariva sfocato ai suoi occhi, sovrapposto con il ricordo che aveva di lui e del suo sguardo angelico e demoniaco al tempo stesso.
Si voltò, camminò verso la porta. Passando accanto al Baio gli sembrò di sentire un rimprovero, ma non se ne curò.
Lo so... Avevi detto che non volevi vedermi piangere.


* * *


La pioggia non se ne sarebbe andata solo perché loro desideravano il sole.
L’acqua continuò a cadere con snervante puntualità, ma almeno lavò il sangue e la cenere accumulati attorno alla Rocca. Molte delle rocce di cui era costruita erano cadute a terra, lo scheletro di legno delle parti più recenti era annerito e fradicio, buona parte dei corridoi pericolante. Nessuno ci avrebbe più messo sopra gli occhi, questo era certo.
Lia seppe di Falco quando richiamarono le donne dal bosco. Volle vedere il suo corpo, ma Lorenzo glielo impedì.
Pianse poco, più per rabbia che vero dolore: in un certo senso, sapeva che il destino di uomini come Falco è quello di morire da eroi, ovvero in gioventù e per qualcun altro. Volle però assistere alla sepoltura, lontano dalle fosse comuni in cui avevano gettato i militari; da quel giorno l’onnipresente ottimismo che la caratterizzava scomparve, sostituito da una tempra più realista.
«E’ bastato conoscerlo per poche settimane, e siamo cambiati tanto...» commentò Lorenzo, di ritorno dal funerale.
«Già» rispose Lia, i capelli raccolti in un fazzoletto scuro e la gonna buona sollevata perché non si sporcasse. «Andrai con i ribelli?»
«Come lo sai?»
«Te lo leggo negli occhi. E poi ora fatico a vederti sposato e con una falce in mano.»
Lorenzo sorrise. «Sì, voglio unirmi a loro. Falco aveva detto che devo... avere il coraggio di seguire il mio cuore. Tu pensi che non vada bene?»
«Io penso esattamente quel che pensavo qualche giorno fa, quando hai parlato ai nostri genitori: penso che tu sia il degno erede di Falco, e che saresti sprecato in un piccolo villaggio di zotici. Senza contare che Falco stesso sembrava quasi innamorato di te... ti adorava.»
Lia arricciò il naso, e Lorenzo sbuffò distrattamente, ignorando l’ultimo commento.
«Il Baio ha detto che ho il loro benestare.» riprese. «Ho anche... beh, ho chiesto di ereditare il nome da battaglia di Falco, ma ha detto che dovrò sudarmelo. Però Lia... Per seguirli dovrei lasciarvi, dovrei partire...»
«A casa se ne faranno una ragione.»
Lorenzo smise di camminare.
Frase curiosa.
«Se ne faranno
Lia si fermò qualche passo più avanti, e lo guardò come lo guardava quando combinava una sciocchezza da bambino.
«Caro il mio Falchetto, sarai anche un ragazzo in gamba, ma mi risulta che ti sia sempre rifiutato di lavarti le mutande» sbottò, piazzando le mani sui fianchi. «Hai bisogno di una donna al tuo fianco, e credo di essere l’unica adatta a questo compito, a meno che non ci sia una poverina disposta a tale onere.»
«Ma-ma no, non è possibile... Non possiamo portarci dietro una donna...»
«Prego?»
«Gli altri non lo permetteranno mai...»
«Sarà bene chiederglielo, prima di fasciarsi la testa.»
«Ma sei mia sorella, per Dio!»
«E non infrangere il primo comandamento!»
«Lia! Non puoi dire sul serio!»
Lia lo raggiunse in due ampie falcate, e con rabbia puntò il dito nel mezzo del suo petto.
«I nostri genitori soffriranno. Non avranno eredi a cui lasciare la casa. Non avranno aiuti nei campi. Non avranno più nulla se ce ne andiamo entrambi. Io ci ho pensato, e ho preso la mia decisione: non sta a te negare una scelta tanto difficile!»
«Vuoi dire che dovrei lasciarti agire indisturbata? No!» Lia sbuffò, roteò gli occhi e riprese a camminare verso il villaggio. «Lia, per noi diventerai un peso! Per nostra madre sarai un grande aiuto! Lia, Lia pensaci, proprio perché io me ne vado...»
«...Proprio perché te ne vai dovresti tacere
«Lia! Lia!»


Sotto la pioggia, due fratelli gridavano.
Tutt’attorno a loro il villaggio tornava lentamente alla sua vita di fatica e sudore, una vita conquistata a caro prezzo e preziosa più del sole.
Il premio per chi se ne andava era la gioia di aver visto il cucciolo spiccare il volo, la gioia di averlo allevato con ogni cura.
E un giovane Falco si sarebbe levato nei cieli di lì a poco, pronto a crescere altre nidiate come lui.

La primavera è arrivata.





Fine.







Note finali: dopo tanto tempo volevo un lieto fine canonico, e chiedo scusa se suonerà scontato. Ma se sono qui è perché volevo fare un ultimo appunto sul linguaggio utilizzato: naturalmente imbastire il volgare era inutile e impensabile; ho cercato di rendere i dialoghi per lo meno passabili di essere secenteschi – e contadini – quindi qua e là potrebbero esserci irregolarità grammaticali o, più facilmente, toni retorici e drammatici che di solito mi sono estranei. Se il registro in alcuni momenti risulta teatrale è per la medesima ragione: aderenza – per quanto possibile – all’epoca, in cui gli accenni al Padre Celeste e le scene di pianto erano all’ordine del giorno tra gli eroi. Con buona pace di Lucia Mondella e del Manzoni.



POSTILLA: chiedo scusa se quest'ultimo capitolo viene pubblicato con tale imperdonabile ritardo... Purtroppo, lo confesso, mi ero dimenticata che mancasse l'ultima parte. Sono una mentecatta, lo so. ._. Chiedo davvero scusa, e mi congedo in sordina sperando di essere passata quasi inosservata...
  
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