Ron è morto.
Suicida.
Credo sia giusto far conoscere a chi ha seguito questi pochi stralci del suo
diario la triste verità, anche se a distanza di così tanto tempo. Avrei dovuto
scrivere questa nota prima; ma lo sconvolgimento causatomi dal folle gesto e la
scoperta di queste sparute, arruffate carte ritrovate qui, su questa stessa
scrivania dove ora vi scrivo, con l’incredibile orrore che questi fogli
inchiostrati ancora mi riversano gelido in corpo, hanno a lungo inibito ogni
mia capacità d’azione; perché stracciando ogni mia certezza sulle reali
condizioni di salute del mio povero amico, esse mi hanno rivelato il profondo del
cuore di quell’anima tormentata, di quel povero prostrato mentecatto che
divenne un mucchietto di carne sfracellata sull’asfalto, una calda notte di
fine giugno. Ed è stato uno shock per la mia mente scoprire quanto il mio
fraterno amico Ron si fosse rinchiuso nel suo mondo di fantasia.
Ginny ed Hermione sono scappate assieme, una sventurata
notte di due anni fa, a coronamento di un’insaziabile relazione che portavano
avanti da molti anni segretamente.
Essendo quella notte in viaggio di lavoro, non ne seppi nulla fino al mio
ritorno a casa, sei giorni più tardi, ma la cosa non ebbe su me grande effetto.
Fra me e Ginny l’amore era finito da tempo, e sospettavo frequentasse qualcun
altro già pochi mesi dopo le nozze; viaggiando spesso per lavoro, tuttavia, non
trovavo nulla da rimproverare a mia moglie: lei era spesso sola a casa e
trovavo giusto avesse un po’ di compagnia, come era giusto per me averne nelle
lunghe notti in hotel col mio campionario da piazzare.
Fui dunque più sorpreso dal sapere che frequentava una donna, che non spiazzato
dalla sua fuga, alla quale ero pronto da tempo. Per il povero Ron, purtroppo,
non fu affatto così semplice.
Ron era pazzamente innamorato di Hermione, e non lo dico col
senno di poi: mai vidi uomo nei miei viaggi così accorato nel parlare di sua
moglie, con gli occhi così vividi di emozione nel vederla e con sorriso più
smagliante del suo quando le era accanto. Forse, rivalutando alla luce dei
fatti recenti questa sua travolgente passione, si potrà chiamarla un’insana
ossessione, quella che arrivava a fargli persino tremare la voce; reputarla un’idealizzazione
sconfinata nell’adorazione, quasi Hermione fosse una fede, o la
personificazione dell’amor gentile da difendere a costo della vita; nondimeno,
era sincero e puro amore come mai vidi e, temo, più vedrò. In sua moglie, aveva
trovato tutto, dalla voglia di vivere all’ispirazione per i suoi racconti: era
passata, col matrimonio, dall’essere una semplice donna alla rappresentazione
pulsante di universo. L’universo in cui il mio disgraziato amico aveva deciso
di perdersi, a costo della propria ragione; e va detto che, per quanto fosse
possibile ad uno spirito cocciuto e dominante, ella ricambiava la dedizione del
marito con una dolcezza che avrebbe tratto in inganno anche il più scettico
osservatore. Non di rado avevo invidiato il mio amico per l’impareggiabile
emozione che vivevano e anzi spesso, tanto da sentirmi ora due volte in colpa,
avevo covato in cuor mio, più per insofferenza che per crudeltà, la speranza
che questa loro immensa gioia terminasse, o perlomeno fosse offuscata da
qualcosa. Ma sto divagando.
Tornato che fui a casa, quel fatidico giorno, Ron mi si avventò contro come un
pazzo, in preda ad una crisi isterica che lo aveva abbruttito e sconvolto fin a
devastargli il viso di una collera furibonda, spezzata nel colore purpureo
delle guance da due fiumi di lacrime. Ricordo lo sguardo vuoto che mi mostrò,
quel giorno che lo ritrovai in casa mia, farfugliante, sconnesso, impregnato di
un leggero tanfo di alcol, le mani sporche di sangue dopo aver devastato il
soggiorno e la cucina, a torso nudo e ora so, solo ora mi rendo conto che
quegli occhi, solo quella giornata e mai più dopo, erano i veri occhi del Ron
Weasly lanciatosi la notte del 26 giugno dell’anno scorso dal settimo piano di
questo appartamento.
Lo sguardo della desolazione di un cuore divampato, estinto; lo sguardo senza
intelletto di un animale che voleva sfogare il suo dolore, in qualsiasi modo.
Per poco non mi ammazzò. E lo avrebbe fatto, se non fosse
crollato sfinito in ginocchio dopo aver tentato di strangolarmi nel bel pieno
del suo raptus. Era rimasto sveglio da allora, senza mangiare, soltanto
piangendo e urlando e fracassando tutto quel che c’era in casa mia e in casa
sua, e forse sarebbe morto di crepacuore e rabbia, se non fossi rincasato. Lo
misi a letto fra pianti e urla, e vomitò bile per tutto il pomeriggio; dovetti
sedarlo per farlo dormire, e per le settimane successive lo tenni in casa con
me, a dieta stretta di sedativi, mentre negli intervalli di lucidità smozzicava
piano altri dettagli, aggiungendoli al più che chiaro urlo ferino col quale mi
aveva accolto in casa: Se ne sono andate.
.. Se ne sono andate. Tutte e due,
capisci, tutte e due. Assieme. Si amavano, diceva. Da sempre, era stato da
sempre così. Non potevano più resistere.. non poteva più resistere con me. Era
insopportabile.. dormire.. con me. Pensando a lei. Chiudere gli occhi e pensare
a lei, mentre facevamo l’amore. Tradirmi.. spesso.. ogni giorno.. quando ero in
palestra, in giardino.. perfino sotto i miei occhi.. Con lei affianco, capisci.
Mi ha detto tutto con lei affianco.. senza disprezzo, senza affetto. Era..
infinitamente lontana..
Avevano litigato tutti e tre, la notte della fuga. Hermione
e Ginny volevano scappare mentre dormiva, ma Ron si era svegliato, trovandola
con la valigia in mano. L’aveva afferrata con forza, disperato, e lei lo aveva
schiaffeggiato col cellulare in mano, quasi fracassandoglielo sul muso e
lasciandogli una larga tumefazione sotto l’occhio. Era bastato per bloccarlo
come un cane bastonato, mentre gli spiegava tutto, e dopo se n’era andata,
assieme a Ginny, chiudendo la porta dietro di sé, senza rumore. Ron disse di
non ricordare più nulla, dopo, fino al mio arrivo; a casa sua trovai due
bottiglie di whisky vuote nelle macerie di quel fortino che aveva consacrato al
suo lavoro e all’amore.
Era distrutto, depresso. Temetti per la sua vita.
Consultai vari medici, mentre tentavo di contattare le fuggiasche per ottenere
spiegazioni; ma erano irrintracciabili. I dottori mi consigliarono di cambiar
casa e tenerlo sotto stretta sorveglianza e così feci, andandoci a stabilire in
un paesino molto lontano, sulle sponde di un laghetto sempre colmo di luce;
capisco solo ora che avrei dovuto farlo ricoverare.
I primi sei mesi
furono tragici, ma non provò mai a suicidarsi.
Era solo immensamente triste, chiuso, stanco. Perennemente stanco, eppure non
chiudeva occhio senza sedativi. Era come se non avesse più energie o voglia di
vivere, quasi fosse morto. Sedevamo lungamente in silenzio vicino al lago, e
ogni volta temevo lo avrebbe fatto esondare con le sue lacrime. Non voleva
vedere nessuno dei vecchi amici né della sua famiglia, e pochi dei miei amici
di lavoro riuscivano a sopportare il suo muso funereo, la cappa di mestizia che
lo accompagnava, ma mi sforzai di tenergli sempre accanto qualcuno, oltre a me.
Stette apatico per molto tempo, poi riprese a scrivere, con foga, strappando
quasi tutto quello che riversava.
E poi un giorno lo vidi sorridere.L o avevo portato in giro, quel giorno, per
tutto il paese, e in un parco giochi una bambina aveva lanciato da mangiare ad
una paperella, mentre lo fissava con quello sguardo tipico dei piccoli, misto
di timore e curiosità. Lui le sorrise, senza sforzo, con leggerezza: ma come
capisco ora quale sventurata forza lo mosse, quale fosse la spietata, lucida
follia della quale riuscì a sorridere quel giorno. Allora pensai semplicemente che
fosse ritornato alla vita, per quanto sconvolto, e che i miei sforzi fossero
stati ripagati, mentre la bimba ricambiava con naturalezza il sorriso.
Ad otto mesi dalla fuga, sembrava tornato normale. Più
silenzioso e meno energico, cupo, certo; più curvo e brizzolato, come
invecchiato; però vivo, attivo. Si rimise a scrivere d’impegno, pubblicò un
paio di libri di modesto successo e comprò un appartamento in una palazzina a
poca distanza dalla mia dopo altri quattro, cinque mesi.
Ginny ed Hermione erano fuori dalla nostra vita, arrivò a dirmi, ed era ora di
rifarsene una nuova. Annuì con sincera gioia e ripresi il mio lavoro,
viaggiando però sempre un po’ preoccupato e senza allontarmi troppo e per
troppo tempo. Non ebbi modo mai di dubitare della sua malinconia, né della sua
tristezza o del suo risentimento verso le latitanti, né tuttavia potevo far
meno di rassicurarmi che fosse rinsavito e recuperato.
Ora so di quanto in realtà fosse uscito di testa, tanto da
creare questo mondo di fantasia e magia e crearsi addirittura una figlia mai
avuta, per esternare l’odio e addolcirlo; eppure fu così astuto nella pazzia da
non farne trapelare una singola traccia, o un riferimento, se non qualche
sguardo vuoto o degli attimi in cui si estraniava, ai quali era difficile però
dare tanta valenza.
Ron, il mio caro amico Ron, nella sua testolina da scrittore aveva ideato
questo mondo di stregoni, di accademie magiche, di famiglie e bizzarie per
fuggire la quotidianità.
All’inizio un rifugio temporaneo, un gioco innocente; verso l’arrivo dell’estate,
la sua realtà; tanto consistente nella
sua mente da convincerlo a lanciarsi, una notte, con una scopa dal terrazzo,
credendo di poter volare dalla sua bambina che, non trovando in casa, temeva
fosse stata rapita da uno stregone malvagio.
Ecco, questo della bambina per lungo tempo rimase un mistero
nel mistero per me.
Ron ed Hermione – e ormai avrete capito che questi, come Ginny e Harry, sono nientr’altro
che i nomi di fantasia con cui lui ci chiamava nei suoi deliri – non avevano
figli, perché Hermione era sterile, da quanto mi aveva detto. Né avevo mai
visto bambine bazzicare in casa loro, o nel suo appartamento. Eppure..
Possibile fosse solo un’allucinazione?
Forse si ricollegava alla bambina vista quel giorno nel parco.. ma quando ormai
mi ero convinto di questo, e stavo per mettermi a scrivere questa nota, per voi
che, come ho scoperto, avete letto alcuni brani del suo diario pubblicati da
lui stesso in rete, la mia attenzione fu attirata da un ciuffo di pelo marrone
sopra l’armadio davanti la mia scrivania.
Il gatto di Ron, di cui mi ero preso cura venendo ad abitare nella casa del mio
amico.. ma cosa ci faceva là sopra? Salendo su una sedia, vidi la causa e il
colpevole fisico di quella morte catapultata nel vuoto: il gatto di Ron dormiva
vicino ad una bambolina di pezza, impolverata, con gli abiti a brandelli, come
se fossero stati morsi o graffiati.
Un braccio era lacerato da tagli verticali e sull’etichetta, vicina al muso del
gatto, vidi la scritta: Rose.
Ho affidato la bestiola, per me un familiare del diavolo
ormai, alle due fuggiasche – ah, giusto, dimenticavo: Hermione e Ginny hanno
partecipato al funerale di Ron. Non le avevo più rintracciate dopo che il mio
amico era andato a vivere da solo, ma non sono mancate alla messa solenne del cuore
che avevano ucciso – e ho portato la bambolina nella tomba del mio defunto
compagno.
Voleva andarla a salvare, una bambolina di pezza.. e ora sarà lei a vegliare su
di lui, per l’eternità.
In fede, Harry
29/01/2010