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Autore: Aurelia major    31/01/2010    1 recensioni
“Avevo tutto e a molto altro avrei potuto aspirare ancora… sarebbe bastato un cenno e la mia vita sarebbe stata completamente diversa… ma io scelsi di non scegliere, ed è qui che comincia la mia storia.” Spin-off da “Ipotesi per un ritratto a colori”, chi era Alexandra van der Post prima di diventare Siddharta?
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Voltò pagina, sbuffò inquieta e si sforzò ad andare avanti.

Stava scorrendo svogliata le righe del testo, come se quel mero esercizio potesse distoglierla dal chiodo fisso attorno al quale da giorni ruotava. Pure, di tanto in tanto, ugualmente divagava. Non c’era nulla da fare, doveva cedervi e volgere gli occhi a guardar  fuori, oltre il vetro.

Ancora nevicava, i fiocchi scendevano lenti, impalpabili, posandosi tutt’intorno con una levità quasi trasognata. Nascevano dal cielo plumbeo e, sebbene fosse solo primo pomeriggio, fuori era quasi buio. Volse il capo e oppressa tornò al libro che aveva tra le mani, la luce dorata della lampada da tavolo l’illuminava debolmente. Aveva dovuto accenderla per avere la luce sufficiente a leggere, ma volentieri avrebbe preferito restarsene in penombra, per confondersi ed annullarsi con le ombre di quel chiaroscuro.

Era in balia d’un umore  tenebroso, di una melanconia insistita, la cui morsa non voleva allentarsi. Per questo motivo stava provando ad eluderla impegnando la mente in quel complicato esercizio. Aveva sperato infatti che, perdendosi nella traduzione di quella lingua remota ed aprendo con un tonfo il pesante vocabolario, avesse potuto azzittire le voci del passato. Appunto per questo aveva scelto la versione più difficile tra quelle assegnatele dal professore di latino. Per la verità di tempo ne avrebbe avuto d’avanzo, ché a causa della nevicata inaspettata che da giorni scendeva sulla città, la scuola aveva chiuso i battenti prima del previsto. Ciononostante, quel che era stata una manna per gli altri, non era per lei e si era ritrovata senza niente di meglio da fare, tranne che cercare di sfuggire ai suoi fantasmi.

Meno male che la partenza è imminente, pensò. In effetti aveva contati i giorni con ansia e finalmente l’indomani sarebbe partita. Tornava a casa, a Ranfield Hall, nome quanto mai singolare per una magione della nobiltà tedesca, ma che, come per tutto, aveva una spiegazione che si perdeva nella notte dei tempi. Avrebbe trascorso le festività in famiglia, dividendosi tra il Conte, Sarah e una pletora anonima di parenti minori. Per non parlare della servitù, naturalmente. Tre giorni da trascorrere in apnea, ingessata in abiti formali e comportamenti altrettanto formali, culminanti nello sterile abbraccio, tutti stretti intorno al grosso abete che decorava il salone delle feste, che avrebbe sancito la fine del rito.

Chissà se anche quest’anno le sarebbe toccato l’assolo di violoncello. Sperava di no, augurandosi che l’incombenza passasse a sua cugina René, virtuosa del pianoforte, oppure a suo fratello Manfred che faceva tanto il presuntuoso con quel suo flauto traverso.

“Loro sì che sono dei veri musicisti, mica come me.” Si disse e, quasi a voler suggellare quell’ammissione, disegnò sulla condensa del vetro una chiave di violino ché sigillò nel perimetro della stella di David. Una smorfia rattristata le deformò il volto mentre contemplava quello schizzo. Già, da quel giorno non era riuscita più a suonare. Ogniqualvolta ci provava si bloccava e veniva scossa da un tremito irrefrenabile, tanto che non riusciva neppure a tenere l’archetto in mano. Ma non poteva confessarlo al Conte, no, suo nonno non avrebbe capito e doveva continuare a fargli credere che il suo studio fosse costante. Strano però, egli sapeva che, malgrado lo strumento l’avesse seguita in questo suo ennesimo trasferimento, non aveva seguitato a prendere lezioni. S’era aspettata delle rimostranze, ma tutto taceva e da mesi la pesante custodia contenente il muto strumento giaceva poggiata al muro a prendere polvere.

“Sono una vigliacca.” Pensò, giacché l’aveva abbandonata là, evitando persino di guardarla. Aveva forse timore che se si fosse azzardata ad aprirla, come dal vaso di Pandora, ne sarebbero scaturite tutte insieme le furie dalle quali ancora stava scappando?

In ogni caso era successo egualmente. Pure, sarebbe stato assai preferibile che una volta a casa non l’invitassero ad esibirsi. Ma se tanto le dava tanto, supponeva che il Conte, né sua madre, si sarebbero azzardati. In fondo non era neppure loro interesse che quel vaso si scoperchiasse e da tempo avevano provveduto a sigillarlo con cura. Estrema cura.

Dove sarà? Che starà facendo adesso? Si chiese e, come sempre, dovette arrendersi alla sterilità dei suoi interrogativi. Non le era possibile sapere, non ne aveva i mezzi ed era vincolata ad una promessa che l’incatenava senza scampo all’ignoranza. Guardò i contorni del suo disegno sciogliersi, colare lentamente sulla superficie della finestra e stancamente si passò una mano sul volto.

Per sua fortuna non avrebbe soggiornato a lungo tra le imponenti mura domestiche, giacché, subito dopo il cerimoniale natalizio, si sarebbe diretta alla volta di Istanbul. Una sortita che, una volta tanto, metteva d’accordo gl’intenti del Conte con i suoi. L’uomo infatti riteneva che godere dell’ospitalità del consolato tedesco in Turchia fosse un modo assai profittevole cui impiegare i tempi morti di quella lunga vacanza.

“Sì”, aveva assentito durante la telefonata cui le aveva comunicato la notizia di quell’invito, “trovo opportuno che tu, quale futuro capo del gruppo van der Post, coltivi ed incrementi i rapporti con i vari  attacchè diplomatici che avrai la possibilità di conoscere.”  Un’affermazione che la diceva lunga e Alexandra non aveva avuta nessuna difficoltà ad immaginarsi il ragionamento che aveva portato a quell’assenso. Più che probabile che suo nonno ritenesse quelle relazioni quali favorevoli ad un suo graduale ingresso in seno a quell’elite prestigiosa. Senza contare che Roelf sapeva perfettamente che in quella sede avrebbe dovuto interagire, se non tra suoi pari, perlomeno con personalità di spicco.

Ja, era chiaro che il Conte sperava che così facendo avrebbe cominciato ad assaporare la reale portata del cardine plutocratico cui era destinata. E di conseguenza, ne aveva concluso Alexandra, non senza un certo cinismo rassegnato, doveva essere grata a quella particolare forma mentis per il grazioso benestare che l’era stato concesso. Per quanto la riguardava invece, al di là di quelle tortuose mire,  aveva contemporaneamente l’opportunità di visitare un paese che molto l’affascinava e modo di rivedere persone che davvero le stavano a cuore. L’ambasciatore Taddeus von Hoppel e sua moglie Margot infatti altri non erano che il suoi padrini e la trattavano come una figlia prediletta, da vezzeggiare e lasciar crescere in completa autonomia. Sicché dal loro rapporto Alexandra attingeva quanto difettava in quelli con la sua famiglia, ché l’uomo e la consorte avevano nei suoi riguardi una dolcezza ed una tolleranza che al Conte e sua madre mancavano del tutto.

In ogni caso comunque non era tanto l’impazienza per quest’incontro a  farle sospirare il momento della partenza, quanto piuttosto la fuga che rappresentava. Già, sapeva d’aver bisogno di tempo per sé sola, d’un altrove dal quale osservare quella che era diventata la sua quotidianità con calma e in successione, in modo da cercare di sanare le ferite che improvvisamente avevano ripreso a sanguinare.

Inquieta spense la luce e si sedette innanzi al camino piantando gli occhi  nelle braci incandescenti. “Colpa della neve.” Pensò risentita. Ma a che pro indignarsene? Prima o poi comunque si sarebbe trovata ugualmente spalle al muro, era inevitabile in un certo senso. Perciò tirò un lungo sospiro e prese a percorrere ancora una volta la somma degli aventi che, nel giro di pochi giorni appena, avevano avuto il potere di turbare la tranquillità che credeva d’aver finalmente raggiunto.

“Tutta colpa della neve.” Si ripeté e maledisse silenziosamente il momento in cui il rigore delle gelate e il morso insistito della tramontana avevano ceduto il passo a quel fioccare morbido, che tutto ingentiliva e nobilitava. Pure, paradossalmente, la stessa che smussava gli angoli appuntiti di strade ed edifici, aveva messo allo scoperto i suoi.

La sua pace aveva preso impercettibilmente a decadere nell’attimo in cui, durante un giorno di scuola come tanti altri, un’esclamazione di sorpresa  aveva interrotta  la voce monotona del professore. Probabilmente qualcuno stava osservando pigramente al di là delle finestre e non aveva potuto far a meno di far notare a tutti dei  fiocchi che avevano preso a cadere. Le fu detto poi che di rado si creavano le condizioni perché ciò avvenisse. Il che le rese più comprensibile la ragione per cui i suoi compagni di classe si fossero precipitati alla balconata con esclamazioni di stupore deliziato. Per loro quello doveva essere un avvenimento inaspettato, quanto piacevole, a differenza sua, che se n’era rimasta al suo posto senza scomporsi. Tuttavia non era stato il suo solito distinguo snobistico a fermarla, quanto piuttosto la sufficienza di chi, provenendo dal profondo nord ed essendo abituato a ben altro, non  trova niente di speciale in quel che vede.

Così, come al solito, si era tenuta ai margini senza lasciarsi coinvolgere dalla festosità altrui. Anzi, quando al termine delle lezioni, appena fuori l’ingresso  dell’istituto, erano cominciate a piovere pallate, il suo unico interesse era stato di verificare se qualcuno avesse avuto il coraggio di prenderla a bersaglio. Aveva indugiato apposta per quello, ma nessuno aveva osato e ghignando aveva voltato le spalle alla puerilità dei suoi coetanei, soddisfatta del sacrosanto rispetto che aveva generato nei suoi riguardi quanto era successo in cortile, mesi addietro ormai.

Insomma era d’umore eccellente, eppure lì, mentre ponderava la scarsa audacia di chi, pur detestandola, la temeva, inspiegabilmente si ritrovò tutto ad un tratto persa nel gorgo delle ossessioni che credeva l’avessero abbandonata. Ci cadde ignara tramite il fastidio che avvertii osservando da lontano quell’allegria.  Perché quel turbinio d’adolescenti che giocava con la neve le ricordò i suoi luoghi e i ricordi a loro connessi. E le fu intollerabile. Ma non era tanto la certezza della spensieratezza che sapeva d’aver perduto ad angosciarla, quanto l’insostenibile confronto tra ciò che vedeva con gli occhi e quel che sentiva nel cuore. Poiché finché il sito del suo esilio era rimasto un sé stante, un qualcosa di alieno nei cui confronti non poteva scattare nessun termine di paragone, era rimasta serena e vi si era adattata senza colpo ferire. Ma ora che la neve l’aveva avvolto, rendendolo analogo a ciò che aveva dovuto abbandonare, ne era scaturita un’associazione che prepotente riportava a galla quanto in lei covava appena sotto la superficie.

No, non c’era confronto alcuno con i boschi innevati della Svizzera. Pensò misurando il presente con il passato, eppure,  prima che potesse impedirselo, quanto aveva intorno la rimandò a quel che tra quelle selve era avvenuto. “Ma era quasi estate allora.”.  Mormorò  intelligibile finché, con un soprassalto, non si rese conto di dove stesse errando il suo pensiero. E allora, colpevolmente, lo dirottò altrove guardando  nuovamente alla distesa immacolata che aveva davanti e raffrontandola al paesaggio che avrebbe potuto scorgere se fosse stata alle finestre della casa natia. Una divagazione necessaria questa, poiché le memorie appena evocate, s’accompagnavano ad un rimpianto che, lungi dall’affievolirsi, furtivo le aveva scavato dentro un solco profondo. E allora dovette ammettere quanto fino a quel momento aveva volutamente celato a furia di sola forza di volontà.

“Sono stata una stupida a credere che allontanandomene ne sarei guarita.” Si disse amareggiata. Poi fu colta da un’altra intuizione. Come l’era potuta sfuggire? Che stupida!  “Il Conte no, ne era certo. Per questo mi ha mandata qui senza far storie”.

Una riflessione questa che le mise addosso una smania prepotente d’urlare la sua frustrazione fino a perdere la voce, di correre a perdifiato in direzione ignota tanto da sfiancarsi e fare un qualcosa, qualsiasi cosa, di stupido, eccessivo e dannatamente teatrale.

Eppure non fece nulla di tutto ciò, limitandosi ad incamminarsi lentamente verso casa, per poi chiudercisi dentro e rifiutare sistematicamente qualunque contatto dall’esterno. Nei giorni successivi ne era uscita solo per andare a scuola e aveva accuratamente evitato di dar agio a chiunque di avvicinarsi. A nulla erano valse persino le insistenze di Lara, vanificate poi e fortunosamente da una provvidenziale influenza di stagione che l’aveva messa a tappeto.

Pure la sua reclusione era stata infranta quel mattino da Claudia la quale, dopo innumerevoli telefonate a vuoto e svariati tentativi d’abbordarla prima e dopo le lezioni, si era risolta a farle la posta sotto casa. Il che fu provvidenziale, Alexandra infatti era di ritorno da una lunga cavalcata, ma quell’umor nero pareva essere impermeabile ad ogni divagazione e nulla vi aveva potuto neppure il galoppare furioso di Nemesis. Perciò era ancora più abbattuta e l’energica botta che ricevette alla schiena la prese del tutto alla sprovvista. Disorientata si guardò intorno, nei paraggi non c’era nessuno, poi, resasi conto che quello scossone era il risultato d’una palla di neve molto ben assestata, con occhi minacciosi prese a scrutare tra gli alberi del vicino giardino.

“Sveglia Alekòs!” Fece Claudia spuntando da dietro un albero e rendendosi visibile, quindi le si parò innanzi e, incurante del cipiglio temporalesco che l’altra inalberava, continuò: “Dai, lamentartene pure! E’ da un pezzo che ti chiamo, lascio messaggi in segreteria e neanche mi dai retta.”

“Ho avuto da fare.” Fece evasiva la bionda per poi chiudersi subito a riccio. A che pro intavolare la discussione? Claudia avrebbe inteso alla svelta do dove prendessero le mosse le sue fisime e non c’avrebbe messo molto ad aprire il solito discorso. Del resto ai tempi dell’accaduto ne avevano parlato tanto, pure troppo, visto che Claudia era l’unica a sapere come fossero realmente andate le cose. O perlomeno, la sola che pur sapendo non ci si era immischiata, limitandosi ad offrirle una spalla su cui piangere e un sostegno che mai era venuto meno. Tuttavia Alexandra nicchiava titubante, non poteva rivelarle d’essere nuovamente al punto di partenza, d’aver finto di dimenticarsene per poi ricascarci così, al primo piè sospinto, senza contare che non aveva nessuna voglia di sentirsi ripetere la solita solfa. Ché per Claudia la soluzione era una e una sola, mentre per quel che la riguardava, non le era davvero possibile farla così facile. Per questo motivo preferiva tenersi per sé i suoi pensieri e, indossata una maschera quanto più possibile neutrale, la prese di contropiede e parlando del più e del meno, salirono nel suo appartamento.

Sì certo, le era grata per la distrazione portale dalla sua compagnia, eppure, nonostante le stesse prestando attenzione, non le riusciva d’essere del tutto presente e continuava a rimuginare sui pensieri che da giorni le giravano in testa.

Capita l’antifona all’istante Claudia si accomodò in poltrona chiedendosi nel frattempo se fosse il caso di lasciarla fare o di chiuderla all’angolo e darle spietatamente addosso. Ma davvero pensava di dargliela a bere così facilmente? Non ricordava che era là con lei quando la botola s’era spalancata? Si era forse dimenticata di quella notte terribile cui le aveva vuotato il sacco piangendo disperata?

Rimasta sola nel salotto, intanto che l’altra metteva su il tè, si guardò intorno intenta. Il violoncello era al suo solito posto, arreso all’inedia cui la sua padrona l’aveva condannato. Peccato, pensò, quando voleva riusciva a farlo vibrare con rara intensità. Ma poteva capire le ragioni cui addebitare quella rinuncia. Sospirò partecipe e da quello spostò lo sguardo allo scrittoio. I libri vi giacevano ancora aperti e c’erano innumerevoli fogli scarabocchiati che sporgevano dalle pagine. Segno, pensò Claudia scuotendo il capo, d’attività ossessiva nonché recente. In ultimo notò il disegno ormai completamente sbavato alla finestra. La chiave di violino era indistinguibile, ma le sei punte della stella giudea non si potevano confondere.

“Ariel.” Mormorò e allora Claudia pensò che doveva assolutamente porgerle un appiglio cui aggrapparsi e venirne fuori. Mio dio, da quanti giorni andava avanti così? E lei perché non c’aveva pensato prima? “Ora è inutile chiederselo.” Si disse mentre sorseggiava la profumata bevanda e Alexandra si accoccolava a gambe incrociate sul tappeto. La scrutò al di sopra della tazza, aveva mangiato ultimamente? Pareva di no, il volto appariva scavato e, considerate le sfumature violacee che le decoravano le occhiaie, doveva aver dormito assai poco. “Meglio prenderla alla lontana.” S’ingiunse quindi. Sì, meglio partire  da cardine primo, da quella tessera iniziale la cui caduta gli eventi avevano preso a girare, su, su, fino a culminare nella presenza dell’amica lì di fronte a lei.

“Pensi mai al professor Evangheliòs?” Chiese di punto in bianco. Domanda questa impossibile da ignorare e, dopo una pausa neanche troppo lunga, Alexandra annuì.

“Ogni santo giorno.” Ripose. Poi, come a suffragare quell’affermazione, tirò fuori da una tasca un koboloi ambrato e glielo mostrò. Gesto che per Claudia fu più esauriente di mille parole. Si ricordava perfettamente di quell’oggetto e del giorno in cui Alexandra l’aveva ricevuto in dono al cospetto di tutta la classe. A quel tempo erano entrambe allieve presso l’internato di Reinheit  in Engandina e Costas Evangheliòs era il loro insegnante di storia. Un uomo singolare questi, basso e rotondetto, dall’espressione placida ed incorniciata in una fluente barba da filosofo presocratico. Impressione questa rinnovata poi quando egli stesso aveva confermato d’essere d’origine greca. D’altro canto, aveva detto sorridendo alle alunne, con un nome simile era difficile potessero sbagliarsi. Ma non era solo questo a farlo differente dal resto del corpo insegnanti, composto perlopiù da madrelingua tedeschi. Ché il nuovo arrivato non solo spiccava tra loro per i suoi colori e corporatura mediterranea, ma soprattutto per l’approccio col quale era solito trattare le scolaresche. Evangheliòs non seguiva gli schemi dell’educazione calvinista, perciò non era sua abitudine mortificare i guizzi caratteriali o fustigare le divagazioni intellettuali delle sue alunne. Anzi pareva incoraggiarle e, appunto come il filosofo peripatetico cui lo si comparava, faceva lezione ovunque: in aula, in biblioteca oppure portandole a spasso in corridoio o giardino, quando il tempo lo consentiva. Tra l’altro era l’unico che le lasciava fumare a loro piacimento, giacché, asseriva sorridendo bonario, preferiva restassero in sua presenza a farlo, piuttosto che chiudersi in bagno e perdersi la lezione. Insomma era assolutamente fuori da ogni schema e, quando si era ritrovato Alexandra di fronte per la prima volta, ne era rimasto folgorato.

“Così dev’essere stato Alessandro Magno!” Aveva esclamato infatti fissandone la bionda chioma e i tratti efebici. E da allora Alexandra

era diventata Alexandròs, poi, più affettuosamente, soltanto Alekòs. E durante il corso di quell’anno i rapporti tra insegnante ed allieva fatalmente s’erano intensificati. Lei letteralmente l’adorava e lui aveva nei suoi riguardi una predilezione di cui non faceva affatto mistero. Al punto da regalarle libri, portarla a concerti e a visitare siti culturali dei vicini cantoni. Ma soprattutto era solito riceverla persino in forma privata nel suo studio e a qualsiasi ora, sempre pronto a rispondere alla sue domande e a trarne piacere dalla sua compagnia. Insomma ce n’era stato d’avanzo perché lei fosse preda ad una sorta d’infatuazione platonica e lui finisse nell’occhio del ciclone. Tant’è non c’era voluto molto perché le istituzioni scolastiche s’allarmassero e quei dettagli arrivassero all’orecchio attento e scandalizzato del Conte.

Claudia a tutt’oggi non era al corrente dei provvedimenti presi da costui, né di cosa il nobiluomo avesse accusata la nipote quando la richiamò al suo cospetto. Naturalmente non ci voleva molto ad intuirlo e, sebbene fosse certa dell’innocenza di Alexandra, restava il fatto che dall’oggi al domani era stata cacciata dall’istituto e che la mozione d’espulsione era partita nientedimeno che dallo stesso Evangheliòs. Comportamento immorale, aveva scritto a margine di quella nota. Tuttavia, nell’ultimo giorno che Alexandra trascorse alla sua presenza, le regalò quel rosario scacciapensieri. Claudia ricordava perfettamente che nel darglielo l’uomo non aveva avuto neppure il coraggio di guardarla direttamente negli occhi, mentre biascicava qualcosa a proposito dell’augurio di un proseguimento felice dei suoi studi ovunque fosse andata. E, ancor oggi, ricordare l’espressione ferita dell’amica, era un qualcosa che le faceva ancora molto male. Soprattutto perché, pur nell’ignoranza, non era difficile immaginarsi il turpe mercato che il Conte doveva aver proposto ad Evangheliòs. Di certo concerneva la tangibile minaccia di rovinarlo come uomo ed insegnante e senz’altro doveva averlo intimorito ad un punto tale che questi, mettendo sul bilancino il suo benessere e confrontandolo alla simpatia che provava verso la sua Alekòs, aveva dovuto scegliere. E il risultato era che Alexandra aveva dovuto lasciare la scuola e lui vi era rimasto, diventando poco dopo addirittura membro del consiglio direttivo. Morale? Roelf se l’era comprato e così facendo aveva messo a tacere la faccenda.

“Fu una vera fortuna che mio padre fu trasferito dopo la tua espulsione.” Dichiarò a questo punto Claudia ritornando al presente. Poi soggiunse a mo’ di spiegazione: “Non avrei sopportato di restare là dentro un attimo di più senza di te e specialmente dopo quel che ti avevano fatto.” Chiarì prendendole la mano e fissandola con occhi traboccanti d’affetto, perché ancora una volta sapesse che lei sarebbe stata dalla sua parte in ogni caso, sempre.

“Sai una cosa Clà?” Replicò questa divincolandosi dalla sua stretta e soppesando assorta il koboloi. “Quella delusione avrebbe dovuto insegnarmi ad andarci più cauta, invece sono sta così cretina da incappare nello stesso errore una seconda volta.” Crucciata Alexandra lasciò che quelle parole restassero ad aleggiare tra loro per un poco. Poi, visto che l’altra si limitava a fissarla dispiaciuta, continuando a giocherellare coi grani, aggiunse: “Però adesso ho imparato, eccome se l’ho fatto. E quest’affare continuo a portarmelo appresso perché me lo ricordi ogniqualvolta mi venga la tentazione di legarmi a qualcuno.”

Detto ciò le sembrò assolutamente superfluo aggiungere altro e Claudia capì che per il momento non ne avrebbero più parlato. Forse aveva ragione lei, chissà, ad ogni modo le voleva troppo bene per forzarla e farla stare peggio. Perciò restò lì ancora un poco, aiutandola a fare le valige e facendosi promettere che, una volta a casa, avrebbe tentato di starsene il più tranquilla, onde non suscitare le collere assai suscettibili dei suoi. Del viaggio seguente poi si raccomandò solo che ne approfittasse quanto più possibile per rilassarsi.

“Cerca di non pensarci troppo, d’accordo?” Fece sulla soglia di casa dopo averla stretta in un abbraccio premuroso.

“Certo”, rispose Alexandra esibendo addirittura un pallido ghigno, “andrò a seppellirlo da qualche parte in Anatolia.”

Meditabonda Claudia si diresse alla fermata del bus e sola coi suoi pensieri ne attese l’arrivo. Al momento del commiato aveva mascherata la preoccupazione, ma intanto non poteva arrestare il corso inesorabile delle riflessioni che la conversazione con Alexandra le aveva messo addosso.“Oh Alekòs”, pensò sentendosi stringere il cuore, “perché ti tocca  sempre la via più difficile?”

Salì a bordo e durante il tragitto verso la zona residenziale ripensò a quanto era successo durante il tempo della loro separazione. Lei era tornata in Italia con la sua famiglia, Alexandra invece aveva migrato nel cantone franco-svizzero di Vaud. In ogni caso, proprio come aveva avuto modo di dirle, aveva lasciato Reinheit senza nessun rimpianto. Certo sarebbe potuta restare, era un’alunna brillante e le prospettive a cui avrebbe potuto ispirare con in tasca un diploma simile sarebbero state assai più ampie rispetto a quelle che poteva garantirgli il titolo preso nel suo attuale liceo. Ciononostante era stata lieta di abbandonare quel nido d’ipocrisie moraliste. Così, mentre lei si riabituava a vivere in patria, Alexandra si adattava ai nuovi ritmi e volti dell’approdo di Montreaux. Un posto prestigioso cui la vita era più comoda e i divertimenti consentiti. Ma, sebbene vi si trovasse abbastanza a suo agio, la tregua che credeva avervi trovata, non era durata. E ancora una volta gli eventi avevano congiurato contro di lei. Tanti ne erano stati i protagonisti e nessuno era esente da colpa.

“Neppure io.” Si disse Claudia, consapevole del fatto che si era limitata ad assistere a quella caduta dalla grazia da lontano. Certo nulla avrebbe potuto per scongiurare l’inevitabile. Pure, quando alla fine aveva saputo, ugualmente se n’era sentita responsabile. Già, come dimenticarsi di quella notte in cui Alekòs, ubriaca fradicia, le aveva confidato il doloroso segreto che covava nel petto? Allora apprese di Ariel, insegnante di musica a Le Rosembourg e primo anello della catena, il cui essere ebrea e progressista l’avevano resa fatalmente vittima designata. Poi venne fuori quella maledetta Leila Williams, compagna di scuola di Alexandra e di lei fin dal primo momento sventuratamente infatuata, la cui delazione aveva dato inizio a quel susseguirsi di voci e reazioni che avevano portato l’insegnante sul banco degli imputati. E, ovviamente, chi poteva presiedere un simile tribunale condannante se non il Conte Roelf van der Post? Così tra i singhiozzi e con parole rotte Alekòs le aveva narrata l’ira funesta dalla quale era sfociata una rappresaglia ancora più crudele di quella riguardante il professor Evangheliòs. Ché innanzi all’ostinazione perpetrata di sua nipote nel legarsi alle persone sbagliate il Conte non aveva avuta nessuna pietà. Anzi si era impegnato ad essere altresì sottile nel suo castigo, rendendola completamente impotente e schiacciandola altresì in modo trasversale. Cosicché ancora oggi ne pativa e ne soffriva soprattutto perché la reazione di Ariel Kohner era stata assai diversa da quella di chi l’aveva preceduta.

“Vecchio bastardo!” Pensò Claudia stringendo i pugni nel pullman semivuoto. Intanto, all’altro capo della città, piangendo calde lacrime, Alexandra aveva finalmente liberato lo strumento dalla sua guaina di velluto. Al buio se lo accomodò tra le braccia e dal nulla una straziante partitura di violoncello prese ad accompagnare il lento cadere della neve al crepuscolo.

 

 

 

 

 

N.d.A.

Dopo quasi un anno di colpevole mancanza, finalmente riesco ad aggiornare questa storia. Me ne scusino quelli che la seguono, ma in questi mesi, sebbene ce l’avessi chiara in testa, proprio non mi riusciva di mettere due righe l’una dietro l’altra.

Si sarà constatato inoltre che in quest’ultimo capitolo c’è una sovrabbondanza di carne al fuoco. Vero, ma ciò non solo per cominciare a gettare sprazzi di luce sulla personalità e i comportamenti spesso inspiegabili della protagonista, quanto per gettare le basi di quel che verrà a seguire, giacché, in tempi assai brevi,  il capitolo successivo sarà on line.  Questo non solo perché è già parzialmente scritto, ma soprattutto perché in tal modo spero di farmi perdonare il lungo silenzio riguardo a questa storia. In conclusione quindi, uno speciale ringraziamento va a chi ha letto, recensito e soprattutto pazientemente aspettato.

Grazie mille.

 

Aurelia

   
 
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