Questa storia è originale, ed è dedicate ad una
persona per me speciale.
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Grazie
mille ^_^
Bacioni a tutti.
LaSignoraBlack
HOTTER THAN HELL
Stridono le unghie del disperato
Sulle pareti della follia.
Il ferro stridette. Gemeva lento. Un
suono acre annunciò l'arrivo di qualcuno nel buio
della cella, mura tenevano compagnia al detenuto loro ospite.
Quanta luce nelle spille applicate sulla divisa e sugli stivali
lucidi perfettamente laccati che entravano nella stanza.
Quanto
rumore assordante, cadenza nei passi, provocavano nel
silenzio delle tante e tante urla nel mezzo di quel posto dimenticato da tutto,
da ogni cosa, da chiunque. Passi.
La
porta si richiuse e la serratura scattò, una
figura era entrata nella stanza, nella stanza occupata da un detenuto, da un
detenuto con le armi puntate addosso.
Il
carceriere guardò l'uomo steso sulla branda, sul
misero cuscino di spugna stava la sua testa. Aria di schifo e
ripugnanza. D'un sapore quasi d'odio era il suo disprezzo.
Disprezzo verso l'uomo dai tanti capelli, arruffati e lunghi,
lunghi e scuri fino alle spalle che gli coprivano il viso e la rada barba
incolta che lo scuriva. La carnagione forse sotto sarebbe
stata chiara se l'avessero pulito. Era sporco. Come chiunque la dentro.
Il
secondino si schiarì la voce. C'era eco. Si risentì il suono per
tutto il corridoio.
“
Alzati “.
Ricevette
in cambio uno sguardo, uno sguardo incolore pieno del
nulla. Uno sguardo che cambiò espressione quando
l'uomo venne strattonato di forza da due mani grandi, mani grandi che lo
trattavano da animale. Gli occhi si accesero di ribrezzo e schifo, d'ira fino ad allora taciuta mentre guardava negli occhi il secondino,
mentre lo bruciava dentro, mentre lo distruggeva per anche solo un attimo.
Ricadde a terra. Il secondino aveva vinto. Lo aveva spinto contro la brandina
urlandogli ancora contro di alzarsi, di alzare quel suo pesante culo da terra e di muoversi, che non aveva certo tempo per
badare a lui.
Il
carceriere in uniforme lo portò all'esterno, chiudendogli attorno ai
polsi bracciali d'acciaio stretti da lasciare segni rossi e profondi nella
pelle. Fuori dalla cella altre due o tre guardie
attendevano come sempre il detenuto, sguardi compiaciuti, sguardi sereni e
freddi.
Non
si poteva intuire che ore fossero, le finestre non c'erano e tutto l'ambiente
era rischiarato da limpidissime, bianche luci artificiali. Le ombre sempre le
stesse. Stessa misura, stessa ampiezza e stessi volti
chinati od orgogliosi.
Non
si poteva mai intuire che fine facessero le persone che in quel luogo mettevano
piede. Il giorno prima c'erano, il giorno dopo non c'erano
più.
La
terra dei giardini attorno all'edificio veniva smossa
spesso.
Molti
detenuti facevano scommesse su chi sarebbe durato di più, sopportando
tutto, sopportando il dolore, la vergogna e la
lontananza dalla vita, sopportando i pasti congelati ed il freddo intriso nelle
ossa, o chi si sarebbe volatilizzato nel nulla, portandosi dietro la propria
storia ed il proprio credo - chi lo aveva -, o la propria professione di
stupratore od assassino. Oppure scommettevano
sigarette su chi avrebbe ceduto agli interrogatori mettendosi a piangere come
un bambino dinanzi agli aguzzini. Si scommetteva anche sulle innocenze o le
condanne.
Passatempi.
Ognuno aveva il proprio. Possedere per ottenere. Possedere,
possedere per…
L'uomo
aveva mani legate dietro la schiena, dietro la schiena coperta da un'ormai
lurida camicia senza neanche i bottoni, strappati dalle asole; camicia che un
tempo doveva esser stata bianca e linda. Una di quelle
profumate e stirate dalla moglie nelle pubblicità in televisione.
Una
divisa da carcerato ridotta a brandelli. A brandelli, come carne
da macello.
Le
guardie sorridevano, scherzavano fra di loro e
commentavano l'ultima partita di calcio, accerchiando il detenuto. Tanti petali
di un fiore. La corolla bianca ed il nettare sporco.
E
come lui altre persone, decine e decine di fiori scortate
verso pochi metri di cielo.
Il
cammino, così venivano considerate poche
piastrelle in quel luogo dove camminare significa andare al martirio. Il
cammino verso l'aria fu irritante per l'uomo. Stretto in una
morsa d'un gioiello di metallo, tirato come la corda dell'impiccato verso il
basso e strattonato, sempre la testa verso l'alto, sempre le occhiate di
una guardia su di lui.
Sguardi che lo incidevano. Il sorriso a malapena accennato
della velleità nella bocca fredda della giovane guardia.
“
Quanto abbiamo ancora? “ chiese un detenuto, i
sessant'anni passati nelle rughe sulla fronte, sulle guance, sulle mani. Erano
seduti entrambi sui gradini di una scala nel cortile, le mura colossali sopra
di loro.
“
Mezzora, ancora mezzora… “ rispose il
compagno. L'uomo, il nostro uomo, amava squadrare la
gente, osservarla nei gesti, indovinare che parole avrebbe utilizzato nella
frase successiva. Vedere se avrebbero sputato o se avevano la
fessura fra i denti.
Così
stava facendo anche in quel momento mentre, austera ed inflessibile, passava
davanti a loro ancora quella guardia, quella guardia
con l'uniforme blu notte e gli stivali lucidi, la bocca fredda ed i capelli
rasati. Pochi millimetri di biondo. Occhi azzurri che lo
fissavano, ambigui ed insinuanti.
Poi
la guardia ritornò dai colleghi, le mani ferme e curate, immobili,
statiche, lo sguardo spietato ed attento. Modi meticolosi ed andatura rigida.
L'uomo
non fu il solo a guardarla, non il solo a ricambiare
lo sguardo.
“
Ti ha puntato “. Il sessantenne continuò. “ Ora sono cazzi amico, cerca gli stargli alla larga… “. Poi
come avrebbe fatto un cane si leccò le labbra
sottili per l'età.
L'uomo
sbuffò. Fiato uscì dalle sue labbra. Labbra da
trentenne, tagliate al centro da una rissa con altri detenuti. Poi
guardò l'anziano, l'unico amico che si era fatto nel carcere da quando vi era entrato.
Pochi
amici. Pochi nemici. Vita ancora lunga.
L'anziano
era là dentro da anni, un vecchio ribelle come il nostro uomo, uno di
quelli che avevano combattuto militanti, che avevano bruciato e sparato sulla
folla. Uomini che avrebbero voluto in ogni momento una
rivoltella. Un ottimo regalo di Natale sarebbe stata una mitragliatrice,
nera e laccata. Sarebbero stati apprezzati anche chili di polvere da sparo.
Una
bella strage, una bella strage per
l’istituzione. Una bella strage per tutti.
“
Quello è il peggiore di tutti… “, il vecchio
proseguì.
Il
nostro uomo si girò, si voltò a guardare
l'amico. Indicava col mozzicone della sigaretta un angolo del carcere.
Tre
uomini. Tre figure comuni. Volti anonimi, che non prendevano
luce da anni.
Unicamente
movenze e cicatrici distinguevano i reclusi l'uno dall'altro. Come collegiali in divisa, tutti chiusi nella stessa camicia
bianca, nei pantaloni con la piega blu scuro, nella cravatta allentata, i
detenuti si creavano un loro modo esclusivo di porsi. Gesti e postura
identificano la persona.
“
Il tuo spasimante se li è voluti, se li
è voluti tutti per se, ci vedi? “.
No, il nostro uomo non sapeva cosa guardare, non capiva.
Erano semplicemente tre persone chiuse e scontrose che aveva visto si e no tre volte nella vita in prigione. Cos'avevano di strano?
“
Quello alto, appoggiato al muro, lo vedi? Cazzo e
guarda, è l'ultimo dei suoi possedimenti “.
Tre
persone. Tre persone pazze. Isteria.
“
Spesso nella notte nei corridoi si sentono urla… “, una pausa. Il
vecchio abbassò la voce, si guardò
intorno.
“
Cos'è questa, una storia di fantasmi? “ ribatté l'uomo,
neppure intimorito. Quasi un gioco. No. Una semplice scocciatura, detestava la gente quando iniziava qualcosa, e poi non la concludeva.
“
E stattene zitto e ascoltami… “ altra
tirata di fumo dal filtro “ spesso si sentono urla e unghie che si
spezzano. Dalla cella settecentocinquanta si sente di
tutto “.
Il
nostro uomo era da poco rinchiuso.
La
sua stanza era vicina a quella. Stesso corridoio. Settecentoventitré.
Poco tempo prima viveva in strada libero e ricercato. Sui
manifesti sparsi per la città la sua foto, la
taglia, il suo sorriso sprezzante in prima pagina. Ed
ora era là dentro dove neanche il sole entrava nelle stanze. Stanze buie
e sporche. Sepolcri per morti ancora vivi.
“
Tu stai esagerando “. Ed il vecchio rise. Rise e
scrollò la testa sudicia. I capelli appiccicati al volto, unti e
bianchi.
La
doccia veniva fatta una volta alla settimana, di
domenica mattina. Una guardia entrava nella stanza ed un idrante eruttava acqua
e schiuma. L'odore era sapone per i piatti, sapone per
i piatti verde acido che seccava la pelle e la rendeva squamosa. I rasoi non
esistevano. Come dare un giocattolo – le lame taglienti - ad un bambino.
Passava
un addetto per rasare la barba ai detenuti. Quando ne aveva
voglia.
I
capelli non venivano neppure più tagliati. Sarebbero ricresciuti. Le guardie oltretutto amavano tirarli ai detenuti, strapparglieli
voracemente. Lo trovavano un gesto così puramente fisico,
così crudelmente dolce.
E la guardia si staccò dal gruppo, si
allontanò dai suoi colleghi; un sorriso sornione dipinto sulla faccia.
Si
avvicinò al nostro uomo ed al suo amico attraversando il cortile. In
diagonale si abbreviano le distanze. Freddo e formale.
“
E’ ora di rientrare… “ cosa poteva mai volere da lui un
ragazzetto del genere, si domandò l'uomo. Un ragazzetto con la divisa
più grande di lui ed i denti da latte ancora addosso?
Non
ce lo vedeva proprio a menare la gente con le sue
anche ed il ventre ben nascosti dai vestiti d'ufficiale.
E neanche noi ce la vediamo la nostra guardia a menare le
persone. No. Troppo raffinato per sporcarsi le mani
dalle unghie perfettamente limate.
Alla
nostra guardia il dolore (non) interessava. Quantomeno non in modo
convenzionale.
Era
una persona alquanto originale la nostra guardia. Originale, disciplinata,
curiosa.
Ordine
e disciplina gli avevano insegnato. Ordine e
disciplina scorreva nelle sue vene.
La
nostra guardia aveva fissato negli occhi l'uomo. Intensamente, assolutamente,
atrocemente.
Gli
piaceva, sì, gli piaceva molto quell'uomo. Era
scortese e selvatico. Era schiodato dagli altri ed aveva fascino nel camminare
ombroso. E poi, quella barba non fatta sul viso lo
rendeva talmente maschio…
Forte
carica e testosterone. Una distesa immensa di testosterone.
Lo
aveva fissato con occhi socchiusi di rimando, l'uomo, le mani due pugni
allentati, il capo fiero. Il sole lo accecava.
Mentre si alzava a fatica aveva potuto ammirarsi la sua
preda la nostra guardia. Il suo nuovo fantoccio.
Corporatura
robusta, spalle forti e muscolatura tonica. Ideale per una scopata.
Schifo
e ribrezzo. Indistinto disgusto negli sguardi. Sguardi di ferraglia, sotto la
repulsione spesso si nasconde reciproca attrazione.
Ordine
e disciplina. Ordine e disciplina nascondono fetore e ripugnante attrazione.
Il
detenuto ritornò come gli altri nella propria stanza.
Una
mano sottile spinse forte la schiena del nostro uomo. La schiena che si inarca, la testa che si gira fulminea. La mano già
tesa a pugno, questo pronto ad essere affondato. Pronto ad infrangere la pelle
di qualcuno. La nostra guardia che sorride d'un
sorriso d'inverno.
La
porta si richiuse. La serratura scattò di nuovo. Otto volte al giorno.
Nessuna
serratura era mai stata incastrata. Tutto fila liscio come olio nei cardini
delle porte.
Sì.
Gli piaceva proprio tanto quell'uomo. Gli faceva venire la nausea. Lo innervosiva il fatto che l'uomo non gli desse importanza,
trattandolo come... come… No. Non era questo. Il punto era che non lo trattava affatto. Era una cosa che detestava,
che detestava dal profondo del cuore. Ma ci sarebbe stato tempo. Avevano tanto tempo da trascorrere.
La
guardia amava questo gioco. Rincorrersi e trovarsi. Sempre, perennemente.
Certezza intrisa nel petto flessuoso.
Guardia
e ladri.
Nelle
prigioni è di regola avere il proprio compagno di stanza. Per parlare, per discutere o raccontarsi le proprie storie, per
tirare avanti. Per attenuare le proprie voglie fisiche
sul pagliericcio, immaginandosi il volto d'una donna sul corpo sotto di
sé. Un corpo che ha peli, peli bruni dovunque.
E braccia forti.
Il
nostro uomo non lo aveva da settimane il compagno di cella. Se ne era andato, si era volatilizzato nel nulla in una notte
senza data. Lo avevano chiamato per essere interrogato e non era più
tornato a riprendersi il suo pacchetto di sigarette semi vuoto.
Nelle
prigioni è di norma anche un topo per amico. Il nostro uomo sfogliava un
libro dalle pagine gialle come i denti dei fumatori di tabacco e le scritte
piccole. Non badava alle parole. Oramai le conosceva a memoria.
Ogni
settimana passava il carretto dei tascabili da poter leggere. La musica di
sottofondo era quella caratteristica dei migliori film dell'orrore. Ferri
sbattuti e gemiti.
La
cena veniva servita presto, come nei pollai, nel
carcere del deserto. Mezz'ora e poi di nuovo tutti sulla propria branda. Tutti
sotto la coperta di lana a pensare o far lavorare le mani, le famose mani amiche - i più fortunati potevano vantarsi delle
labbra del compagno di cella più debole e sottomesso – per un
minuto di piacere.
Ai pasti tutte le gabbie venivano aperte e gli uccelli
potevano alzarsi e nutrirsi svogliatamente.
Il
nostro detenuto camminava lento.
Ogni
sera cercava un tavolo scostato dal centro sala dove volavano i coltelli. Ci si
azzuffava come porci.
Mai
avvicinarsi al capotavola. La morte veniva servita su
vassoi di plasticaccia marrone come fossero d'argento. Come una doppia razione
di cibo, peraltro mai ottenuta.
Ogni
sera l'uomo e l'amico sedevano in fondo, verso una finestra dalle inferiate arrugginite. Poi sbocconcellando pane parlavano
dei tempi andati del vecchio, e l'uomo ascoltava. Ascoltava sempre. La minestra
si faceva sempre fredda. Si diventa monotoni, ripetitivi dopo qualche tempo.
Attorno
ancora le pareti grigio topo a vegliare sui loro pensieri.
Mancava
il ragazzino con le spille sull'uniforme e la pistola alla cintura. –
l’uomo, dopo quello che l’amico gli aveva
raccontato la mattina, si chiese se persino le spille dell’uniforma
puntate sulla pelle gli sarebbero piaciute. - Mancavano le sue anche, le sue
gambe flessuose, le sue gote tese e scavate.
Glielo
fece notare l'amico.
“
Hn “ poi “ neanche ci avevo fatto caso “.
L'uomo
aveva un accento inglese quando doveva parlare
italiano. Il vecchio parlava inglese. Potevano capirsi senza farsi capire dalle guardie italiane. Un girotondo
d'incomprensione.
La
cena filò liscia come sempre, la campana suonò. Come tutte le
sere i detenuti rientrarono scortati dalle guardie. Alcuni venivano
sbattuti al muro e perquisiti.
“
Come se potessero avere qualcosa in tasca qua dentro. “ commentò
ironico l'uomo, gergo di strada. “ Chissà che arma letale ha nel
pantalone quello… “. Rise sommessamente alla propria battuta. Un
tizio vicino a lui era stato preso per la collottola, le dita strette alla gola
ed una pistola puntata sulla schiena pronta a regalare proiettili. La testa
fece un rumore sordo quando venne sbattuta contro il
muro da un secondino.
No.
Rimanete tranquilli sulle vostre sedie. Non era la nostra guardia.
Il
detenuto si lamentava ed il sangue sempre più colava
sugli occhi, annebbiandoglieli, distorcendogli la vista e rendendo tutto sporco
come sangue. Con le mani sudice si tamponava il brutto taglio sulla fronte.
Lagnandosi innervosiva le guardie, ma forse non era a conoscenza del dettaglio.
“
Zitto e cammina. Tu va' sempre avanti “ disse il
vecchio accostandosi al nostro uomo. “ Quanto devi
starci qua? “.
“
Finché ‘sta merda non finisce “. Invasori
nella loro terra.
“
Se vuoi uscire allora va' avanti e continua a
camminare “.
Le
luci venivano spente ogni sera da una centralina
nell'ala ovest dell'edificio.
I
corridoi perdevano colore. Ogni singola cella acquistava il nero cielo della
notte senza stelle.
Erano
passate già due o tre ore dallo spegnimento delle luci e tutto era nel
silenzio. Nella settecentocinquanta ancora tutto tranquillo. Tutto taceva.
Il
nostro detenuto, il nostro, amato uomo stava sdraiato, la
testa rivolta al soffitto. Frammenti di frasi incisi a sangue. Minacce, morti e dichiarazioni d'amore. Ricordi.
La
serratura scattò di nuovo. Nona volta in una giornata.
Una
mano prese per la spalla il nostro uomo, stringendo
leggermente. L'altra mano gli si attaccò a forza alla bocca. Il contatto
evitato da un fazzoletto umido e profumato. “zitto e buono”
sussurrato. Una voce fredda. Una voce rinchiusa nel gelo.
L'uomo
non fece a tempo a rendersi conto di nulla; gli occhi si chiusero, la mente si
spense.
“
Finalmente... “ medesima voce di prima. L'uomo poté riascoltarla.
Venata da autentico, roco, intimo piacere.
Com'era bello l'uomo semi disteso a terra, le braccia incatenate dalle
manette ad un tubo di ferro arrugginito e le gambe divaricate, pensò
la guardia. Aveva scelto bene, questa volta non poteva che complimentarsi con sé stesso.
Non
una guardia qualsiasi, oh no. Era decisamente la nostra
guardia.
E spinse dentro di sé prima un dito, poi due.
L'anello stretto ogni volta conosceva bene il proprio compito, sapendo
perfettamente come schiudersi, vincendo le difese che la guardia si creava come
fosse la prima volta, schiudendosi e prendendo ogni cosa forzasse prepotente
l'uscio. Il ragazzo stringeva forte le due mezze lune mentre
perforava il proprio corpo con le dita. Invocava le fitte, una
ogni tre, quattro spinte che gli sarebbero valse l'orgasmo.
Poi
si perforò con una mano dopo averla imbevuta nella propria saliva, dopo
averci giocato, dopo averci penetrato anche la propria
bocca d'oro davanti all'uomo appena rinvenuto. Aveva aspettato per un po',
attendendo il risveglio della sua bella addormentata, ma poi si era scocciato.
Aveva iniziato da solo.
“
Droga…” e la guardia sorrise dicendolo. “ Non volevo ti
facessi sentire da altri. “
Italiano.
Un italiano interrotto da piccole interruzioni. Ad un'intera mano non si era mai
abituato.
Aveva
provato di tutto, davvero di tutto, raramente una mano. Preferiva le cose alle
persone, non tutte erano addestrate a sopportare gli allucinanti ritmi che
piacevano a lui - si stancavano subito ed il sesso non gli piaceva più.
- Spingendosi dentro degli oggetti sapeva come muoverli, come sospingerseli,
come farli roteare, come creare danze… così poteva diversificare ogni nottata. Ogni notte una nuova notte,
sempre diversa, sempre diversificata.
L'uomo
aveva la vista annebbiata.
Era
nel mondo dei piccoli sogni o aveva davvero davanti a sé qualcuno?! Gli faceva male la testa.
Chiuse
e riaprì gli occhi. Li sbatté più volte.
No,
l'immagine non scappava. Niente fuggiva, tutto restava, solo il pavimento stava
cessando di girare. C'era qualcuno, sì, qualcuno davanti a lui. Un ragazzo in ginocchio, in ginocchio chino su se stesso…
ma… un momento…
No non poteva essere… un ragazzo che si
masturbava… uhm… oddio…
No…
con calma… no… un ragazzo… che si masturbava?
L’uomo
non credeva ai propri occhi. Ma quale uomo crederebbe
ai propri occhi dinanzi ad un ragazzo che si masturba… ficcandosi dentro
una… una mano?
Lo
sfondo un sottoscala. Forse un sotterraneo buio ed una finestrella. L'illuminazione un lampione della strada esterna.
E la guardia continuava, i pantaloni abbassati, la camicia
semiaperta, la cravatta allentata ed il torace meta di viaggi dell'altra mano.
Continuava ad infilarsi e togliersi le dita da dentro, ansimando debolmente,
spalancando sempre più quella piccola apertura - come un ginecologo con
la vulva di una donna -, il viso compiacente, le labbra aperte e lucide. Una
troia in appagamento.
“
Ma che? “ mormorò l'uomo ancora stordito.
Droga.
La bocca, la bocca languida e fredda della guardia che lo aveva
fissato tutto il giorno davanti a lui. Davanti a lui. Le mani sporche di sperma che frementi gli aprivano la cerniera del
pantalone. Che scostavano i boxer scuri mentre
la lingua si addentrava leccando ogni lembo di pelle fino all'asta ancora
distesa.
Le labbra, le labbra che lo avvolgevano ed una mano che usciva e
scompariva dentro il corpo delle stesse labbra. Delle stesse labbra che ansimando
sinuose come gli occhi e la lingua lo leccavano, lo risvegliavano, lo
accendevano. Caldo ed un fruscio. Stava soffiando dolcemente rilasciando
candido sollievo.
Lo
morse.
Il
corpo dell'uomo si inarcò e trattenne un urlo
affondando con i denti nelle labbra. Sanguinava debolmente,
piccole gocce di sangue scivolarono sul mento, sul collo, infine sul
petto.
Lo
stesso corpo poco dopo si muoveva, assecondava controvoglia quei gesti del
proprio seduttore, assecondava l'istinto, lasciandosi cullare dalla bocca del
ventenne attorno al proprio cazzo, la bocca che veniva
penetrata come una vagina, una vagina che si lasciava penetrare chiudendosi
attorno, movendo dentro la lingua, percorrendo l'asta con la stessa, dalla base
alla punta, tutta l'asta, un cono gelato, un frutto, un lecca lecca, un
bicchiere di liquore…
La
ragione dormiente.
I
polsi che sbattevano, martellanti facevano baccano crepitando sul ferro del
condotto, tirando aspro. Le mani che si allungavano cercando
di palpare quella carne così vicina, così totalmente
irraggiungibile. L’uomo bramante di quella figura davanti a
sé. Della figura della guardia che riprendeva a
toccarsi, a passarsi candide mani sul bel corpo sulla soglia dei vent'anni e
ritoccarsi, spalmandosi il proprio seme sul torace, sull'inguine, dove peli
rossicci facevano capolino, in bocca. Se lo
gustava come un boccone succulento, prelibato, ottimo.
“
Ora farai il bravo, vero? “ sussurrò all'orecchio dell'uomo la
guardia. Il suono un fruscio a carponi su di lui. Un
fazzoletto, lo stesso di prima. Ora legato stretto sull'asta turgida dell'uomo.
La guardia ne baciò la punta, poi sorrise, guardando le pupille verdi
dell'uomo dilatarsi. Un nastro stretto frenava il sesso ed il respiro si faceva
sempre più corto. Strinse di più. Un dolore acuto. Il detenuto
poté giurare di aver visto le labbra della guardia tendersi –
divenendo sottili sottili dallo sforzo di tirare quel
misero pezzo di stoffa- mentre il cazzo veniva stretto.
Un
lamento di dolore dall'uomo.
“
Sh… così non risolviamo nulla. Proprio nulla…”.
E prese le mani dell'uomo, ne leccò prima l'una poi
l'altra. Lingua fresca sulle mani sudate. Sapevano di polvere e frenesia.
Sembrava fare un pompino, un eccellente pompino. Gli
leccò ogni nocca di ogni singolo dito, lentamente,
poi lambì le estremità portandosele in bocca, giocandoci con la
lingua calda e succhiandole una ad una. Bocca piena e liquida.
Fece
fare lo stesso all'uomo con le proprie. Sapevano di
sperma e sangue. L'uomo sputando spostò la testa di lato, le labbra si
serrarono ed i capelli si smossero. Coprirono occhi stralunati ed increduli,
vuoti e verdi. Un verde spento.
Ricevette
uno schiaffo, uno schiaffo dolente quanto una puntura
d'insetto in pieno viso.
Erano gia abbastanza inumidite, pensò la nostra bella guardia
analizzando le proprie sottili dita contro la luce.
Si
sedette a terra, aprì le gambe, l'asta
drizzata. Non smise mai di guardare l'uomo. Le vecchie abitudini non si
dimenticano. I pantaloni vennero scaraventati via
mentre cercava qualcosa, qualcosa da trovare urgentemente. Non resisteva
più. Proprio più.
La
pistola d'ordinanza.
L'uomo
iniziava a sudare freddo. L'erezione non era andata a buon
fine imprigionata com'era nella fascia bianca. Faceva male, malissimo,
un dolore assurdo. La pistola non lo rincuorava di certo. Forse il vecchio
aveva ragione.
“
Non ti farò del male “ proseguì la voce della guardia, una
musicale sinfonia. “ Stai tranquillo… “.
Occhi
sbarrati. Occhi d'un gatto paralizzato. L'uomo
già pensava a che morte stupida sarebbe stata
la sua. Morto incatenato, mezzo nudo, in una stanzetta, nel
dimenticatoio di una prigione. Una pezza sul cazzo.
“
Cosa vuoi… “.
Quanti
avrebbero riso della sua morte? Uno, due, tre, dieci,
quindici – migliaia di - persone?!
“
Sh ho detto. Voglio che mi tu guardi “. La pistola d'ordinanza nelle mani
della nostra guardia. “ Guardami,
ora “.
La
sicura venne tolta, subito un suono fermo e sodo. Sodo
come il culo dei ragazzi.
L'arma
carica. Ritto su di sé e le braccia tese, i pantaloni
abbassati, il pene verso il cielo. La puntò verso l'uomo, sorrise
di nuovo rimanendo immobile per pochi attimi. Gli occhi
dell'uomo due centri perfetti nel verde della loro apatia.
Uno, due, tre, dieci, quindici… secondi.
“
Non preoccuparti… “ tolse dalla mira il volto dell'uomo “ mi
piaci troppo per lasciarti andare così presto “ e sorrise,
risedendosi a terra. Gambe aperte e supino.
Poi
due mani sull'impugnatura, il resto scomparso. Il nostro uomo non aveva visto
mai nulla del genere. Il ragazzo che si muoveva attorno alla
canna dell'arma, spingendosela dentro, inarcandosi come un'onda sulla schiena,
dentro fino in fondo, dentro se stesso, assorbendola, incorporandola.
Apice, apice del piacere. Sbattendo contro il
pavimento la schiena, graffiandosela con i piccoli sassolini appuntiti,
tagliuzzandosi leggermente, sfregando la propria bella pelle candida come in
mezzo alle gambe faceva l'arma, l'arma di ordinanza
con i suoi spigoli e le sue punte. Minuscoli tagli che
bruciavano e avrebbero bruciato per qualche tempo come ricordi ancora vivi.
Il ragazzo dalla bocca spalancata e dalle lacrime fantasma agli occhi. Gemere. Quando il dolore diventa piacere.
Come
una mano l'arma. Come un fallo l'arma.
Danzava il corpo attorno alla canna, sbattendosela dentro, inglobandola,
facendola propria. E pareva piacere, pareva piacere
anche al nostro uomo, al corpo del nostro uomo che non respirava quasi,
contorcendosi dall'eccitazione. L'asta che continuava ad
ingrossarsi, cercando d'espandersi, chiedendo immensità, crescendo vivamente
come una fiamma bloccata da un piccolo tessuto biancastro. Il proprio io
chiedeva soltanto di essere preso in una mano od in
bocca, scrollato vivamente mentre veniva scatenato, leccato, osannato,
dimenato, esercitato, conficcato in una qualsiasi apertura con il bacino che
sbatteva contro il ventre - contro le natiche - della fessura stessa.
Poi
il ragazzo crollò. La testa che riposa sul pavimento.
Respiri rumorosi dalla bocca socchiusa.
L'uomo
lo guardava, tenendosi alle braccia legate come fonte di vita. Pareva un
assetato dinanzi a una brocca d'acqua appetibile e
fresca.
“
Ora lasciami riposare. Devo avere paura di te o posso dormire in pace? “ ironico un soffio guardando i polsi ancora stretti e
lacerati dai gioielli argentati, quei polsi così maschili e forti.
La voce ritornata fredda e tagliente come lame, lame lisce
come i capelli neri dell'uomo. Sorrise sarcastico.
Le braccia dell'uomo ancora tese ed il corpo del ventenne steso a
terra, assopito. Gli occhi chiusi.
Il
nostro uomo non prendeva sonno facilmente. Soffriva d'insonnia. Quella notte
aveva pensato alla guardia chiusa a riccio con le braccia che coprivano il capo
fanciullesco, il sangue brunastro incrostato sul corpo e sull'arma, alcuni
segni sulla schiena. L'uomo non si chiese di che colore fosse
l'anima del ragazzo.
La
propria erezione si era acquietata. Non si era mai svegliata per un maschio.
Era sempre andato a letto con le donne. Il limite con un uomo era stato
semplicemente dormire col fratello in un letto matrimoniale
quando era nella sua casa, nella sua casa con un piccolo giardino di
fiori, prima che scoprisse i ribelli. Aveva quattordici anni o poco più.
Poi
era andato via di casa, aveva lasciato il fratellino
solo nel letto grande.
Posò
lo sguardo sulla figura dormiente; sorrise amaramente incurvando i propri
pensieri. Un vizioso bimbo viziato.
Come
quand'era lui bambino venne svegliato quando stava
giusto addormentandosi. Un viso rasente il proprio.
“
Devo riportarti dagli altri. Non che interessi a qualcuno
là fuori sia chiaro… “ sussurrato mentre gli sganciava dal
palo la mano destra “ però… “. La guardia
passò così vicino all’uomo, così
tanto vicino, sfiorando con le labbra il viso dell'uomo, leccandosele
lentamente, come quando regalava fellatio nei cessi della scuola, passandole
sui canini appuntiti, per poi liberare l'altra mano, intrecciandola con la
propria. “ Non voglio andarmene da qui. “
Impassibile
il volto dell'uomo
mentre si alzava, scrollandosi i sassolini dai vestiti. Respingere l'aiuto ad
alzarsi, poteva farlo da solo.
Impassibile
il volto dell'uomo nel tragitto verso la propria cella.
“
Vieni. Hai bisogno di una doccia. Tu puzzi. “
Impassibile il volto dell'uomo nei corridoi che si dilatavano come
nella notte il corpo della guardia, nascosti accanto alla guardia stessa.
Sicura, rapida, leggera. I passi che echeggiavano sordi.
Gli stivali lucidi risuonavano ad ogni passo scandendo il ritmo del disperato.
La porta che si apre ed una fila di docce davanti, l'una dopo
l'altra. Una serie perfetta. Piastrelle e mura bianche, solo qualche
rimasuglio di ruggine negli scoli. Il velo della perfezione copriva ogni cosa.
Vi
si appoggiò contro chiudendo gli occhi. Dei tocchi lievi su di lui.
Rumore d'acqua che scroscia e profumo di borotalco. Non
sapeva se fosse un'abitudine delle guardie in generale o una caratteristica di
quella davanti a sé massaggiare così abilmente la schiena,
facendogliela schiocchiare talmente bene, poggiandoci i palmi delle mani
così deliziosamente da eccitarlo quasi. Male poi il piacere.
Un'indistinta,
inconsueta, vaga forma d'orgasmo.
Portando le mani leggere sulle scapole, i polpastrelli fini sul
collo e sul torace muscoloso che non attendevano altro che essere sfiorati.
Lasciando scivolare il sapone sinuoso dove avrebbe poi passato la lingua,
assaporando l'odore di quel suo nuovo passatempo la guardia si chinava,
assaporandone il sudore, lasciandosene avvolgere. Dalla guancia destra
dell'uomo fino al retro delle ginocchia. Non aveva dimenticato nulla. La benda
non c'era più e la grossa verga puntava in alto.
Lo
aveva spogliato. Lo stava lavando del passato e lo avrebbe
avuto per sé. Soltanto per sé.
La
guardia lo buttò sotto il getto ghiacciato. Sorriso
sulla bocca mentre andava a prendere nell'armadietto di ferro due asciugamani,
ancheggiando debolmente, con le gocce d'acqua ancora sul corpo e sul bel
fondoschiena che formava due mezze lune perfette, perfettamente perfette.
Culo da ragazzo. Ad ogni amante era piaciuto palpare
quella deliziosa carne. Sempre vibrante al punto giusto, non deludeva mai
nessuno.
Era
l'ora libera quando uscirono dal corridoio; la guardia
lo portò con naturalezza nel cortile. Come ogni volta successiva.
“
Abbiamo avuto dei… diciamo problemi… “ e guardò male
il detenuto. Qualcuno si era preoccupato della loro assenza? Forse. Più
probabilmente qualcuno aveva sentito la mancanza del culo
della guardia, così adolescenziale, così sodo, così
femmineo.
I
colleghi si sorrisero a vicenda, maliziosi ed accordi;
uno gli posò una mano sulla spalla, una mano forte che lo aveva
masturbato molte volte. Risate. Lo sapevano tutti. La mano
scese lenta sulla schiena, premendo sulla colonna vertebrale fino
all'osso sacro. Coprì un'intera natica del ragazzo e la strizzò,
per poi depositarvi sopra uno schiaffo, mentre qualcuno diceva alla guardia che
ormai lo conoscevano bene, sulle sue scelte c'era da fidarsi, mentre chiedevano
se ne avesse mai trovato uno più esperto di
sé stesso a letto.
“
Non di certo qui. “ risposta fredda, un sorriso astuto e provocante.
Un’altra pacca sul culo.
“
Di certo tuo padre deve avertene date tante, come si fa a resistere? “
alludeva alle sculacciate.
“
Non più di quante io ne abbia date,
tesoro… “.
“
Non di certo a me, Daniele… al contrario, invece…”.
“
Basta. “ e la guardia posò di sfuggita lo
sguardo sui detenuti. Una panoramica, come allo stadio.
Tutti
potevano fare quello che volevano con i prigionieri, ammazzarli o andarci a
letto, picchiarli o sedurli, torturarli, toccarli, molestarli, baciarli,
tormentarli, farsi scopare, farsi fare… nessuno
avrebbe mai controllato o svelato qualcosa. I governi avevano una guerra da
combattere ed i giornalisti pettegolezzi rosei da inventare.
“
Com'era? “ un sorriso sornione mascherato da disinteresse. Allusione.
“
Niente di che. Un cretino, non sa neanche come si inizia
a far tirare un cazzo quello “ poi, guardando l'uomo, il suo uomo,
che si sedeva accanto all'amico salutandolo con un cenno del capo, sentì
un'intensa bramosia di possesso “ ho sprecato un'intera notte con quello “.
“
Tu invece di cazzi ne sai tirare, eh? Confronto a te anche la peggior puttana
è un’ignorante! “ pausa… “ comunque…
non me lo consigli? Sai, vero, in molti l'avevamo
puntato… “.
“
No “. Assolutamente no. La guardia non l'avrebbe mai raccomandato a
nessuno.
E il bello era che non aveva idea del perché. Però gli piaceva. Sedurre quel corpo, baciargli le
mani, guardarlo negli occhi. Occhi così verdi, così cupi,
così profondi.
Non
passò notte in cui il nostro uomo non vedesse
la guardia, sentendone i passi oramai familiari dall'inizio del corridoio.
Sempre la stessa storia. Si pettinava i propri capelli neri lunghi fino alle
spalle con le dita, capelli liscissimi come la coscienza, inflessibili. Lavava
i denti come poteva e si sistemava al meglio. I preparativi per un immancabile
appuntamento. Non l'aveva fatto mai per nessuna donna.
La
guardia non lo dovette più drogare. Non sarebbe stato tuttavia difficile
trovare della droga, la si usava ad ogni
interrogatorio.
Dopo
poco tempo l'uomo si muoveva silenzioso e discreto senza stupefacenti, senza
farsi udire da nessuno. Volontario e cheto si alzava
dal giaciglio, guardava la sua guardia e si lasciava condurre - sedurre
- per androni ora conosciuti, la mano della guardia sulla sua bassa schiena.
L'unico loro contatto. Non avevano mai fatto nulla
assieme. La guardia si era solo e sempre lasciata guardare, come una
spogliarellista nei locali malandati di provincia alla quale si ficcano banconote nell'esiguo perizoma, nel seno abbondante
dai capezzoli flaccidi e cadenti.
Narciso
traboccante dal corpo della guardia. Adorava lasciarsi guardare
mentre si masturbava.
Andavano
sempre nel seminterrato, sempre assieme, scendendo le scale laterali, per
aprire una porta d’emergenza e scendere fino al piano terra. Nessuno li avrebbe sentiti, nessuno li avrebbe disturbati. Non avevano
mai parlato. Fuori, dinanzi agli altri, non c'era nessun segno di ciò
che accadeva nelle tenebre. Le loro notti annullate nelle ore
pomeridiane dove tutti esistevano. La loro notte divenuta il loro giorno.
La
guardia si sedette contro il muro, la testa reclinata all'indietro, le braccia
lungo il corpo. Fermo, qualche minuto a non pensare. A non pensare, a non
agire.
“
Non hai molto tempo… “ un italiano storpiato da un'esistenza
inglese.
“
Sono stanco ora… “ buttò fuori aria, fece
vibrare la mano a terra più volte. Non nutriva più molti dubbi. A
suo parere lentamente l'uomo stava incominciando a gradire i loro incontri.
“
Siediti “ l'uomo si sedette accanto alla
guardia, un sospiro.
“
Il tuo nome “.
“
Cosa? “
“
Il tuo nome. Dimmi qual è il tuo nome “.
Glieli avrebbe fatti amare, oh sì, amare
quegli incontri così illeciti, così fugaci, così notturni.
Oppure glieli avrebbe fatti desiderare, bramandoli
ossessivo, trovandoseli solo in effimeri sogni.
“
Allan “. Sicura la voce del proprio nome. Poco sicura
invece della piega che la nottata stava prendendo.
La
guardia tese la mano, senza guardare, ripetendosi nella mente il nome numerose
volte. Gli occhi chiusi, la testa ancora reclinata ed il ben
collo in vista. Collo sottile e sinuoso, una
scanalatura impeccabile, il pomo d'Adamo più bello del mondo.
“
Piacere mio, Daniele “. L'uomo stringeva sempre molto
forte la mano, guardando negli occhi chiunque avesse dinanzi. La
considerava una questione di principio.
Rimasero
fermi per qualche minuto, in silenzio, statici. Due
statue d'alabastro. A muoversi soltanto gli occhi del nostro
uomo sul corpo del ragazzo.
Poi
Daniele si spostò, andando ad accucciarsi fra gambe dell'altro. Una
culla marmorea ed adulta.
Senso di protezione, le braccia dell'uomo attorno a lui vellutate
ali bronzee. Si sistemò meglio e chiuse gli occhi, sperando che
le ali si chiudessero attorno a lui.
“
A cosa pensi sempre? “.
Silenzio
e quiete negli occhi dell'uomo. Senso di tranquillità.
Pareva
un bambino, un angelo quella guardia. Un bambino viziato che lo sorprendeva
colpendolo all'inguine ogni notte.
Una
carezza sul viso della guardia, mani ruvide da uomo. Istintiva amorevolezza, istintiva come sentimenti. Un gioco da ragazzi. Mani prese da altre mani e portate alla bocca nell'arco d'un
secondo.
Caldo,
la tiepida saliva e la lingua lambivano le dita dell'uomo. La guardia
ridacchiò al gemito non soffocato sopra di sé, sentendo la gola
dell'uomo mormorare sorda.
Suono
arrochito e basso, la voce dell'uomo era profonda ed
avvolgente. Era sempre tanto ardente, tanto carezzevole e
volgare, tanto dominatrice…era capace di far venire la guardia al
solo udirla.
La
guardia non sapeva con certezze se l'uomo si fosse sempre
trattenuto perché non gli piacevano le sue attenzioni, o se
invece lo facesse per non dar loro importanza. Non sapeva neppure se quei
momenti dimostrassero il contrario. Non l'aveva mai domandato. Non avevano mai
conversato. In ogni caso sapeva benissimo che nessuno avrebbe mai biasimato il
suo talento. Il suo talento sublime messo in atto anche all'ora,
scorrendo dalle dita al polso dell'uomo, fino alla spalla massiccia,
spogliandolo della camicia senza bottoni ed affondando con la lingua disinibita
nell'incavo fra il collo e la spalla. Disegnò piccoli cerchi attorno ad
un capezzolo finché Allan, rapido,
non si drizzò come l'uccello più in basso che sfregava contro i jeans, cercando appagamento e movendo lentamente avanti ed
indietro il bacino, - movimenti sempre meno quieti -, facendosi forza con le
reni potenti, cercando di avvicinarsi alla fessura del ragazzo, cercando di
sfregarvisi contro, per romperla, per rompergliela tutta, per spingersi dentro
ed inondarla. La saliva densa colava sul petto fino alla vita, rasentava la
linea dei pantaloni dove sopra si scorgeva un filo di peluria scura, una
freccia verso qualcosa di molto più lungo.
“
Ti porterò una nuova camicia, non voglio che gli altri vedano il tuo
cor…ah… po “.
La
schiena dell'uomo che si inarcava e le parole della
guardia sfuggivano senza venir capite, solo la musica del sesso, distorsione,
abrasione, passione, ostinazione, sopraffazione; mentre i denti della guardia
tiravano i capezzoli dell'altro, quasi strappandoglieli, togliendoli dal corpo
muscoloso ed appropriandosene. Vampiri ebbri di desiderio. E
l'uomo si sistemava, si lasciava furiosamente portare verso la terra del
piacere, senza inibizioni, senza freni, controllato dal cervello nell'uccello
rampante, e si stendeva a terra, la guardia a cavalcioni sulla sua spranga
ancora ingabbiata nei pantaloni.
Quanto
avrebbe voluto farselo sbattere dentro di sé il cazzo di quell'uomo la nostra guardia, ora. Quanto voleva prenderselo tutto
da egoista qual era, subito, come un cibo mangiarselo
in fretta finché buono e rovente, in quel momento. No, no, assolutamente,
non poteva aspettare, non poteva, sarebbe potuto
scomparire, proprio adesso... non riusciva ad aspettare. Se non lo fa adesso…,
pensava che sarebbe anche potuto morire lì, oh, chi non la capirebbe la
guardia, la nostra guardia Daniele inebriata da immorale voluttà?
Le
mani che saettavano in preda a convulsioni, la testa che pulsava come là
sotto il ventre faceva ancora più forte, spingendo il bacino avanti ed
indietro, avanti e indietro, ancora avanti ed indietro, ancora, ancora, ancora;
la testa che neanche ragionava cercando di togliere il pantalone dell'uomo,
un'impresa così assolutamente ardua per le circostanze, mentre l'uomo
gli stringeva come un invasato i fianchi scarni graffiandoglieli
da sotto la camicia, tormentandolo ed aumentandogli la voglia, facendogli
sentire il proprio cazzo duro coperto dalla fodera ruvida pronto ad incularlo,
sfregando il sesso contro le natiche bagnate del ragazzo, ed il ragazzo che
tentava di levarsi i propri pantaloni fantasticando sulle dimensioni già
note della verga pulsante che gli avrebbe - sperava tanto ardentemente -
spaccato a metà il culo.
Rimase
in camicia.
Il
suo desiderio si esaudì. Vide le stelle dal
dolore la nostra guardia, buttatasi tant'era ingorda sulla propria preda a
capofitto, - un eterno affamato, una ghiotta troia, una genuina ninfomane -,
stringendo il culo per sentirsi squarciare meglio, mentre l'uomo le apriva
sempre più le gambe e la sospingeva verso il basso tenendola per i
fianchi, riempiendole le viscere, toccando il fondo della cavità del
ragazzo - che, ah, se gemeva… - prendendosi tutto il posto possibile,
prendendosi tutto quanto con la sua verga grossa e piena di sperma che poi
avrebbe eruttato, mentre la guardia stringeva i denti ed il culo ricordandosi
della sua prima volta, quando la carne si era spaccata, quando il buco del suo
bel culetto si era rotto strappandosi sotto i feroci colpi di una lattina di
birra, a secco, a scatti frenetici, diventando carne a brandelli che pulsava di
dolore e che Daniele per un mese si divertì a masturbare ficcandoci
dentro arnesi sempre più grossi, come non ne trovava più, dalle
zucchine ai manici di scopa, dalle bottiglie di vino ai matterelli della nonna,
ogni cosa, ogni cosa che trovava se la ficcava dentro Daniele, mai appagato,
fino a forme di fallo in legno piene di schegge e borchie, forme esagerate ed
enormi che scolpiva lui stesso nella cantina della nonna, a suo gradimento,
piantandosele dentro - nell'anima, facendola grondare scarlatta - sul tavolo da
lavoro e lasciando loro sfregiare la membrana interna, tirandosele fuori e
respingendosele dentro, un continuo, un continuo sbattimento, a ritmo della
batteria del suo vicino di casa, un continuo, a ritmo della lavatrice, a ritmo
di un martello che conficca chiodi in un muro, divenendo un oceano di sangue
rosso, sangue rosso, sporco ed incrostato.
E
la guardia gemeva, gemeva ed urlava, gemeva ed urlava ed ansimava dentro la
bocca dell'uomo mentre la lingua di questo la soffocava,
trapanandola ed esplorandone ogni lato, mentre le profanava il palato; tirata
per la cravatta la guardia veniva giù, giù, giù, come con
un collare per i cani si faceva tirare in basso, per farsi penetrare meglio la
bocca dalla lingua dell'uomo ora una macchina da sesso della miglior fattura.
Lasciandosi perforare dalla lingua che folle roteava ed impalandosi
bruscamente su quell'asta tesa allo spasmo, rigida, piena, grande, imponente,
perforante, come lubrificante unicamente uno sputo dell'uomo sotto di lui che
con solo la cerniera aperta se lo stava sbattendo, fiero, aspro, duro, manesco,
rabbioso, brutale, irruente. Maschio. Dio, Dio, Dio se la nostra guardia
stava godendo, venendo, assaporando l'odore dolce del sesso come una gatta in
calore, lasciandosene riempire i polmoni, la bocca ed il culo,
lasciandosi stuprare, lasciando che il proprio corpo venisse violato
ripetutamente ed assiduamente da uno di cui conosceva soltanto il nome,
istigandolo a farle male, aizzandolo a vendicarsi contro tutti nel suo corpo,
incitandolo, urlandogli Ehi, uh, ancora! Oh, ancora, di più, scopami,
ah, più forte, oh, sì, di nuovo, ancora mh! stringendolo per le spalle, graffandogli la pelle ambrata
con le sue unghie che ora stavano spezzandosi per la foga nello scalfire
l'altro, movendosi insieme al proprio corpo come fossero a cavallo, a galoppo,
su di una giostra, assecondando gli ansiti, assecondando i movimenti del loro
insaziabile passatempo, assecondando le spinte che divenivano sempre
più violente, sempre più aggressive, sempre più forti,
più eccitanti, più brutali, più selvagge, più
rabbiose, asfissianti, accanite, ardenti, mentre il cazzo duro dell'uomo la
trapanava incessantemente, senza freno, eternamente, senza una pausa,
tenacemente, dimenandosi fra le pareti del suo angusto ano e sbattendovi
contro, squarciandoglielo - come tanto la guardia desiderava - aprendole con il
cazzo e con le mani le natiche in due per entrare ancora di più, per
affondare ancora di più nell'ingorda carne, per spingervisi ancor più
dentro, per trovare chissà quale perverso tesoro, come un ossesso, un
torturatore, come un animale represso da anni.
E venivano. Insieme, lasciando che Daniele urlasse ed Allan
sospirasse basso e roco, scaricando il piacere nelle ultime, decisive spinte; le supreme, nelle quali la guardia riuscì a
tremare e sconquassarsi, concedendo allo sperma dell'uomo d'infiltrarsi in ogni
lacerazione interna del retto, lasciandolo scendere lento assieme al sangue fra
le proprie gambe come un ruscello d'estate, facendola sussultare, facendo
sembrare il ragazzo aperto un fiore tenero e grazioso imbrattato di sborra
biancastra. L'uomo sdraiato e gli occhi chiusi. Sopra di lui
una vergine puttana, una nuova, garbata, immonda, oscena, fradicia illibata.
Era
una bestia, una belva carnale, una furia impetuosamente passionale, una fiera
efficiente e selvatica, un animale da compagnia, una macchina per il sesso
quell'uomo. Era riuscito a fargli male, a farlo sul
serio godere, senza impedimenti o rallentamenti, – temuti ed odiati. Al
solo pensiero di scopare piano Daniele mugugnava dissensi-, come nessuno il suo
giocattolo, nessuno, nessun altro, stringendo Daniele, stringendo con una mano
il cazzo mentre se lo ramazzava, strattonandolo
intensamente, come nessuno mai, stritolandoglielo in una morsa d'acciaio…
e… ed era stato il più bel orgasmo della sua vita.
Neppure
la parvenza di un bel sogno, il retto faceva troppo male, il cuore
palpitava troppo dentro.
Neppure
la parvenza di un bel sogno. Nessuna parvenza, nessun
sogno.
Daniele
non aveva molta resistenza fisica. Una volta si immaginò
come sarebbe stato solcata la soglia dei cinquanta. Terribile. Si era domandato
inoltre se sarebbe ancora riuscito a provare piacere nel venir perforato dalla
verga di un uomo. Il buco si stava abituando lentamente ad ogni misura. Era una
cosa alla quale non avrebbe mai potuto rinunciare, essere preso violentemente e
sentire la pelle spaccarsi dall'urto feroce del cazzo di un uomo nerboruto.
Agguantato dalla paura aveva pensato ad altro.
Dalla
sera in cui si unirono per il piacer comune le forze della guardia
vennero ancor a meno. Sforzo incessante. Spietata ed amabile la certezza di essere (s)battuto da qualcuno con tanta foga e violenza.
Crollava,
inarcandosi come se stesse spezzandosi, come i castelli di cristallo e di carte
da gioco, piombando come un sasso sul petto dell'uomo che lo accoglieva sempre.
La guardia riceveva sempre qualcosa, un bacio sulla fronte, qualche carezza
sulla schiena martoriata. Il suo corpo dalle forme lievemente accennate dava vita a fantasie d'ogni tipo in ogni persona. La sua
bocca ospitale le intensificava e le ingrandiva come fossero
falli.
Il
nostro uomo non parlava con nessuno delle sue nuove abitudini notturne. Nemmeno
con l'amico, il vecchio carcerato.
Preferiva
continuare a discutere di politica interna del paese e, di rado, scommettere
qualche sigaretta sui nuovi arrivati - ogni giorno c'erano nuovi scarichi,
tutti li scrutavano mentre venivano trascinati nudi
nelle celle. - Non si preoccupava nemmeno che stesse iniziando a desiderare,
non solo ad avere la guardia bella con le labbra
soffici e capaci - ogni giorno Daniele aveva labbra tumide ed i lati
della bocca spaccati - figurarsi se all'uomo importava del giudizio altrui.
Dal
canto suo la guardia scherzava con altri, ridacchiando ed inventando palle. A
volte si faceva scopare nelle camerate da superiori e colleghi per giustificare
la camminata poco adeguata al proprio ruolo. Si faceva di giorno in giorno
sempre più evidente.
Il
suo passatempo imparava presto.
Alle
volte iniziava lui - l'uomo, l’uomo dagli occhi
verdi ed il sesso vibrante - dei giochi. Aveva idee alquanto fantasiose.
Una
notte aveva preso i polsi della guardia e li aveva legati con la cravatta sopra
la testa. Tirandogli le braccia fino alle sbarre della finestra, i piedi di
Daniele riuscivano soltanto a sfiorare
il pavimento. Non poteva scappare, non voleva morire, avrebbe
goduto. Aveva sussurrato qualche lieve e provocante parola
nell’orecchio della guardia, dicendo che, oh,
glielo avrebbe messo dentro tutto, tutto intero. Proprio tutto. Avrebbe potuto
giurare di aver sentito un gemito. Welcome.
Le
aveva aperto le gambe e velocemente glielo aveva
piantato dentro. Tutto interno, come aveva promesso, fino alla base, a freddo, facendo
sbattere i propri testicoli sul corpo del ragazzo, il tutto a crudo, senza
nemmeno una veloce leccata a prepararlo, saliva che lo avrebbe umiliato, che
non gli avrebbe fatto sentire tanto male. Nulla. Spietato e crudele. La nostra
guardia non aveva mai avuto un amante tanto premuroso in vita sua.
Daniele
aveva subito urlato di dolore e piacere assieme, inarcandosi, lasciando che il
proprio membro iniziasse a salire lento, aiutato dall'uomo che glielo
stringeva, glielo strattonava, glielo sbatacchiava come un giocattolo e
percuotendolo glielo tirava, insultandolo glielo spremeva come un limone,
un'arancia, come le mammelle delle mucche. Lo teneva per i fianchi e con le spinte lo schiacciava contro i mattoni logori, lasciando che
il culo gli si graffiasse con i bordi taglienti dei mattoni, che la schiena gli
facesse male; lasciando che le gambe spalancate gli si intorpidissero per la
posizione, lasciando che il giovane sentisse tutta la verga senza lubrificante
riempirlo, dentro per le viscere, passando per quell'orifizio che si tendeva
sempre più, sopportando ed accogliendo ogni cosa, sempre diversa, da
anni. L'uomo riceveva sempre incoraggiamenti ed ogni suo gesto veniva gradito. Lo dimostravano i gemiti. Certezza
d'assoluta melodia.
La
guardia assaporò perfino il gusto d'un possente orgasmo - come fossero
due uomini che se lo sbattevano assieme contemporaneamente -
quando l'uomo aggiunse alla propria asta il manganello nero di pelle
della divisa attaccato alla cintura, frustandolo con quest'ultima sulle
caviglie e sull'interno coscia, movendoli in sincrono, - il proprio cazzo ed il
manganello – lo teneva con la mano sinistra, era mancino Allan, e quella
era la mano che meglio sapeva usare…- dentro al culo, nell'altra mano lo
scudiscio dalla fibbia di'acciaio, stringendo poi la cinghia attorno al collo
del ragazzo e tirandola per baciarlo mentre se lo scopava. Dentro, fuori,
dentro, ah.
Da
passatempo a prenditempo. Un cambiamento notevole nella vita stantia di Allan.
Una
sera la guardia doveva essere d'umore particolarmente giocoso.
Quando
l'uomo entrò nel loro scantinato vi
trovò vari oggetti, probabilmente i preferiti da Daniele, che sorrise.
“
Ho portato di tutto, questa sera possiamo
divertirci… “ non era più un piacere unico, suo soltanto, lo
sapeva bene questo. “ Ho tutto quello che vuoi. Ti lascio campo libero
“.
Sapeva
l'uomo cosa significasse "campo libero" ? Lo sperava. Aveva una voglia
tremenda di lasciarsi, totalmente ed unicamente passivo, pervadere dal piacere
delle mani di quell'uomo sulla propria pelle.
“
Io voglio te “.
Ed accanto ad ogni arnese del campo sadomaso l'uomo prese
dolcemente la sua guardia, prendendola - conquistandola - come un amante.
Leccandole l'anello, vedendo da vicino ogni segno, ogni passaggio di ogni persona, ogni passaggio di sé stesso;
penetrandola con la punta fresca della lingua, sfiorando languidamente il
perineo ed i testicoli, massaggiandoli lento e minuzioso, passando poi al
membro che si alzava a fatica; con pazienza lo introdusse nella propria bocca,
sentendo un odore simile al suo, rimanendone assordato, lasciandosi cullare dai
gemiti del ragazzo che gli teneva la testa sul proprio inguine, per paura che
tutto smettesse, che tutto finisse, che si ritrovasse solo nel proprio letto
accanto al ciccione che non sopportava. - L'unico con cui non
era andato a letto dei colleghi. Almeno una fellatio
l'aveva fatta a tutti. Le braccia lardose e flaccide, le ascelle pezzate ed il
sesso piccolo e floscio del suo compagno di stanza lo disgustavano -.
Al
contrario dell'uomo che gli stava massaggiando il corpo, - sopra di lui un
cavaliere, un aitante, poderoso, vero maschio -, lambendo e carezzando l'interno coscia, pizzicando dolcemente con le unghie i
polpacci sodi e teneri, poi le ginocchia, infine le cosce fino ad arrivare
nuovamente lì, dove la carne tirava e la pelle si rizzava facendo male. Dove tutto il pensiero del ragazzo affiorava nella cappella
pulsante e nella solidità dei tessuti.
La
guardia aveva avvolto con le gambe il bacino dell'uomo. Si era impadronita
della sua vita. Daniele teneva le braccia sulla schiena sopra di lui,
stringendone i muscoli, assaporandone la consistenza. Il pene dell'uomo entrava
ed usciva dal suo corpo, lento e dagli impeti decisi, sfiorando i testicoli -
questo provocava nel ragazzo un lungo fremito intenso -, masturbandogli il
sesso con una mano mentre lo baciava, infilandogli a
ritmo delle spinte la lingua in gola. La guardia credeva di soffocare.
L'uomo
continuava ritto nell'apertura di quell’attraente corpo davanti a lui, in
mezzo alle gambe divaricate che ad ogni affondo si avvinghiavano più
forte, vedendo sul viso della sua guardia – d’incantevole bellezza
- espressioni di puro godimento, visibilio, estasi, esaltazione; senza fingere,
senza berciare. Senza fingere, soltanto godere.
Il
ragazzo si inarcò quando venne, l'uomo si
irrigidì. Lo sperma dell'uomo lo imbrattava dentro,
quello del ragazzo li marchiava entrambi sul ventre. Il ragazzo arrossì quando l'uomo passò la lingua sul suo
ventre macchiato di sperma. Le labbra si unirono e la guardia saggiò il
proprio sapore.
La
sera e la notte seguente si assopirono così. Il
ragazzo sotto, l'uomo sopra che gli sfiorava con le labbra il collo,
solleticandogli la nuca con le dita.
“ You are a so beautiful child “.
Il
pene ancora nella fessura che si stringeva attorno ad esso.
Quando lo tirava fuori faceva parecchio male e la
guardia tratteneva le lacrime lamentandosi dal dolore, gemendo per il bruciore
che ogni volta aumentava come i minuscoli tagli dentro di sé. Daniele si
acquietava solo quando l'uomo acconsentiva a
scoparselo lì, in piedi, sul momento, di nuovo.
L'uomo
adorava doversi fare perdonare, adorava baciare il
corpo –tutto il corpo- della sua guardia. Adorava farle il solletico, adorava carezzarle la schiena, adorava frustarla, adorava
insultarla, coccolarla, picchiarla, giocarla, violarla, averla. Tuttavia
avrebbe preferito vedere la sua guardia in viso quando
veniva e non gli sfregi sulla schiena.
Daniele
era nel proprio letto; sotto le coperte azzurre stava pensando. Il loro
rapporto non gli bastava più.
Voleva
averlo, Allan, ad ogni ora del giorno e della notte, Allan, poterselo baciare
e, soprattutto, - cosa che lo tormentava enormemente - aver la certezza che
nessun altro avrebbe toccato il suo prenditempo, il suo
premio. Conosciuto com'era di fama certamente
qualcuno avrebbe tentato di rovinarlo. C'erano già riusciti una volta. La sua festa di compleanno, un gran bel festino solo per lui.
La visione del corpo senza vita del suo vecchio amante, nudo,
steso nel suo letto, straripante di sperma - aveva sperato ardentemente
fosse solo quello - di chissà quanti uomini gli si era incisa nella
mente. Marchio impresso a timbro di ferro. Aveva pianto e picchiato i
pugni sulla parete più e più volte.
La
mattina gli era giunta una soffiata, poi, più
tardi, nell'armadietto grigio personale aveva trovato un preservativo usato.
Bianco, trasparente. CONDOM. E del liquido dentro,
avvizzito. Il biglietto accanto richiamò l’attenzione di Daniele.
“Per te faremmo questo ed
altro…”
Non
avrebbe rischiato. Il pegno alto da mettere in gioco. Era troppo rischioso il
prezzo da pagare in caso di perdita, troppo prezioso Allan per lui. Era
la prima volta che lo chiamava in quel modo ed arrossì. Allan,
Allan… Allan… un suono magnifico nella sua testa. Allan. Se lo ripeté infinite volte.
Ma doveva ancora pensare. Allan. Sì, ad Allan, a sé stesso. Ad Allan, a sé
stesso, a loro due…
Fuggire.
Dove?
E soprattutto, e qui la guardia increspò la
fronte e socchiuse nel buio gli occhi, come?
Nella
mensa tutti si girarono. Era un evento raro trovare un secondino dove i
carcerati erano muniti di coltelli, seppur di plastica riciclata e senza denti.
Tutti si voltarono mentre una guardia prese di
violenza il braccio di un detenuto, stringendolo, urlandogli freddo di venire
con lui, immediatamente. Sembrava un
S.S. nazista.
In
tanti insultarono la guardia, insultarono in varie
lingue e con parole diverse ciascuno. La guardia carceraria tirò avanti
senza frenare, senza pestare nessuno e neppure dando loro importanza,
camminando rapida e decisa. Dietro, nella morsa della sua mano, Allan.
Lo
sbatté contro il muro e chiuse a chiave la porta dietro di sé,
controllandone più volte la serratura. Guardò il detenuto
allibito. Si rigirò e diede un'ulteriore giro
di chiavi.
“
Domani all'alba. Io e te ce ne andiamo. Tu ora resti
qui. Io vado via, poi ti vengo a prendere e scappiamo. “ indugiò
lo sguardo sugli occhi dell'uomo, impietriti, allibiti, sbalorditi. Il volto
d’una espressione incomprensibile. “ Mi capisci quando parlo? “
l'uomo
annuì.
“
Come…? “ come vuoi fare? Come facciamo?
Era questo che stava cercando di chiedere al ragazzo davanti a lui. Non sapeva
se credergli o meno. Sarebbe stato uno scherzo di
pessimo gusto. Aveva paura. Paura… quel sentimento che solo poche volte
aveva sentito… paura? Paura di non poterlo vedere più.
“
Sht… “ e Daniele gli sorrise.
Appoggiò un dito dolcemente sulle labbra carnose dell'uomo ch'attendevano risposta. Labbra curiose, labbra
lussuriose. Curiose, anche in quei momenti, curiose quando gli
esploravano il corpo, curiose quando gli leccavano le
proprie labbra, curiose… curiose sempre. Labbra amate, da assaggiare, da
assaporare lentamente.
“
Devi dirmelo... “ labbra da baciare, da leccare ardentemente. La guardia
sulle labbra gli sussurrò di darglielo…
l’uomo restò rigido.
“
Lo vedrai poi. Sarà una sorpresa anche per te…”.
La
guardia rivelò il tutto quando l'uomo, presa
una caviglia del ragazzo di scatto, cominciò a stringere e lo
buttò a terra. La guardia aveva sbattuto la schiena contro il pavimento,
dove rimase ancora per qualche manciata di secondi.
Allan
gli montò sopra.
“
No, no…” ridendo “ così non vale…”. L'uomo
però era rimasto serio. Labbra da mordere, da graffiare, da possedere,
da lacerare.
Non
ha forse il sangue lo stesso colore della passione?
“
Non so se esista un inferno. Provvederò io stesso a
crearlo… non devi preoccuparti “.
Stava
ridendo di sé stesso. Non avrebbe mai pensato
di fare una cosa del genere, neppure quando si era
trovato come regalo di compleanno il cadavere di Joseph. Una scena orribile,
un’immagine tragicamente fissa nella sua mente.
“
ora un bel regalo ve lo faccio io… “
“
Hai detto qualcosa? Daniele parlavi con me? “ gli si era
avvicinato un suo collega. Erano negli spogliatoi e si stavano
rivestendo. “ Ti vedo in gran forma, sai? “
“
Tutto bene, grazie “. Tutto a meraviglia.
Lo
sguardo del collega si fermò per più d'un
istante sul corpo della guardia. Daniele gli aveva lanciato uno sguardo
malizioso, per poi sbrigare a vestirsi ed uscire con l'uniforme impeccabile. L’andamento cadenzato, molleggiato leggermente sulle anche,
lasciando che i pantaloni si piegassero sul fondoschiena, su quel fondoschiena
accecante ed invitante. Invitante, invitava ad essere preso. Da
chiunque.
Continuava
a crogiolarsi nei ricordi del suo uomo congratulandosi con se stesso mentre lasciava defluire a terra la benzina. Nei
sotterranei, nelle fondamenta della struttura. Dovunque.
Mentre
l'accendino veniva lanciato a terra corse a prendere
Allan. Un botto e tutto doveva essere perfetto, non doveva
perdere. Non doveva, non voleva, non poteva
perdere.
Corse,
arrivò al sottoscala quando la sirena
dell'antincendio lo stordiva già da abbondanti minuti, minuti preziosi, minuti
preziosissimi. La luce d’emergenza scattò. Illuminò il
corridoio di luce rossa, quel corridoio che Daniele stava percorrendo, percorrendolo
spedito fino alla meta, come da bambino durante le gare di corsa a scuola, come
durante gli allenamenti nell’esercito sotto pioggia e neve, come quando
era riuscito ad arrivare primo, una volta soltanto, una soltanto, che doveva -
doveva! - riaccadere ora. Sbrigati, su, oh Daniele! Corri,
corri da Allan…
Un
rumore assordante ed acido, nauseabondo. Doveva soltanto correre, correre fino alla porta, fatto,
bastava solo aprire la serratura, l'aveva fatto tante di quelle volte, pensava
la guardia, - intanto frenetico stava cercando nelle tasche la chiave -,
solamente trovarla, quante volte aveva aperto quella stramaledetta serratura?
Dieci, venti, cento? …dove sono? Quante volte
Daniele aveva fatto scattare quella maledetta serratura? Quante notti? Quante?
Quante? Quante…
Ed
ora… dove sono, dove, dove…
dove sono le chiavi?! Per una volta voleva
ottenere qualcosa, prendere qualcosa… e non essere preso, preso
dagli altri, preso dal superiore, preso da Allan… preso dal panico…
doveva prendere! Prendersi il suo Allan, maledizione… Allan… Allan,
questa la parola che frullava nella sua mente mentre – tremante e
silenzioso - frugava nelle proprie tasche, nelle mutande, nei pantaloni, alla
ricerca di quella dannatissima chiave, mentre le mani gli si bagnavano di
sudore e dalla fronte scendevano gocce cristalline. Aveva
caldo. Aveva tanto caldo da aver paura.
Dov'era? Dove si era cacciata quella dannata chiave?! Angoscia, un'angoscia terribile.
Panico. No, no. Non poteva andare così. Non adesso, no, no…
no.
Adesso
che poteva avere…
E
si sentiva solo di morire, di sprofondare nel terreno in fiamme, si sentiva
svenire come dopo l'orgasmo, ma ora no, no, ora non
c'era Allan sotto di lui che lo accarezzava, che lo baciava, che lo sfiancava.
Allan, sempre Allan che lo penetrava energicamente… ora no… no, no,
no… Allan era dietro quella porta - bloccato -
mentre il fuoco brillava già lontano nel corridoio, avvicinandosi
ed inghiottendo come una bocca tutto ciò che aveva di fronte; porte,
pesanti travi di legno, armadi, cattedre e tavoli, porte, mura, sedie, porte,
Allan, no! Allan! “ Allan! Allan! “ E lui sempre lì a
cercare quella cazzo di chiave. Dietro la porta un bussare costante, forte. Almeno Allan era vivo.
Sì,
era vivo. Era vivo ed il fumo entrava dalla finestrella avvolgendolo e
soffocandolo. Tutto diventava nero, nero come la
morte. Come la morte, come il buio, come un incubo, come la cella di notte,
come il copricapo delle guardie, guardie come
Daniele… Daniele… quanto ci metteva, cosa stava facendo, cosa
succedeva, maledizione… tutto intorno era nero e non c'era più
aria, non respirava più, gli girava la testa, il fumo negli occhi
bruciava, gli occhi lacrimavano, faceva caldo…
Non
poteva… no… non poteva essere…
Panico.
Nel
taschino della camicia, nel taschino che mai usava,
come c'era finita? Negligenza ad errore. Si sarebbe fatto punire dal suo uomo
per questa sua svista, questa sua vitale
svista.
“
Eccomi! Allan eccomi, ora, ora, adesso, un secondo Allan… ti apro. Aspetta… “. Aprì la serratura con
le mani che ancora gli tremavano, le lacrime agli occhi, il viso pallido, sbattendo
con un calcio la porta, staccandola dai cardini, trovandosi davanti un Allan
ansimante, appoggiato ad un muro con il viso sporco su di una mano ancor
più sporca. Boccheggiava.
Il
viso sudato, sudatissimo. Sporco, accaldato, quasi
delirante… aveva guardato gli occhi del suo uomo e vi aveva visto solo
paura. Una disperata paura, folle.
Disperata
disperazione che lo stava portando a crollare, a crollare
giù, giù, giù…
Cos'era
successo? Aveva davvero
fatto ciò che aveva promesso? Rinchiuso là dentro non poteva sapere
niente ed era quello che chiedevano i suoi
occhi quando la guardia prese il suo volto fra le dita, gridandogli
disperato il suo nome, chiamandolo con il suo nome, urlando isterico con voce distorta. Dissonanza e terrore.
Daniele tremava tutto, le sue dita lunghe e
affusolate, le unghie rotte, le spalle da adolescente, il viso arrossato, le
labbra scosse.
Mani che incatenano altre mani, furiosamente, correndo tra le
fiamme che si espandono e divorano tutto. La voce di Daniele, libera,
leggera, soffocata solo dalla tosse, la voce di Daniele che incitava Allan a
sbrigarsi, che rassicura, che diceva che
l’uscita sarebbe stata vicina, ancora più vicina, sempre
più vicina, sempre più… Passi sempre più veloci,
verso il fondo, precipitandosi giù per una scala, correndo per un
corridoio che pareva immenso, giungendo alle docce, guardandosi dietro col
terrore di esser visti o raggiunti dalle fiamme, da quelle fiamme rosse come la
passione, rosse, rosse, rosse come il sangue, scivolando in un altro corridoio
infinito, affrettandosi, aprendo un'altra porta, aprendone un'altra ancora,
aprendo infine la porta di servizio, un'uscita - l'uscita! - secondaria e dimenticata da chiunque.
Corsero,
corsero via mentre tutto cadeva a pezzi e l'edificio
si chiudeva in sé stesso, cadendo sulle proprie pietre. Implosione. Le
sirene continuavano a suonare, continuamente, ancora, ancora. Continuarono a suonare per qualche decina di minuti, poi bruciarono
anch’esse.
Tutto
a causa di un ventenne innamorato.
Piccante
sorpresa nei letti.
Daniele.
Daniele,
piccolo adolescente. Dentro di sé stava già male, male da morire. Cosa
aveva fatto? Cosa aveva davvero fatto? Ripetersi
lentamente la domanda lo addolcì. Aveva fatto qualcosa. Ce l’aveva fatta.
Daniele,
piccolo adolescente… sapeva bene che nessuna guardia avrebbe mai osato
perdere un solo attimo di tempo per liberare i prigionieri invece che salvare
la propria pelle. Sarebbero morti tutti. Puzza di morto per i
corridoi e ceneri a riempire l'atmosfera. Puzza dappertutto, mai
più nessun corridoio, nessun muro, nessun
edificio a contenerla. Nessun latrato avrebbe ancora rotto l'intossicante aria
che ancora si respirava là dentro. Nessun là dentro. Le guardie
che correvano saltando su fuori strada marcati
Esercito Italiano non avrebbero parlato, dopo aver raggiunto i centri urbani.
Avrebbero impiegato qualche ora, forse un giorno intero ad attraversare il
deserto. La notizia forse neanche si sarebbe mai saputa lontano da quel luogo,
per non plagiare le politiche, i crediti, i debiti, i funzionari, i governi, le
nazioni.
Chi
poteva accorgersi di un detenuto vivo? Chi poteva accorgersi di una guardia
morta? Unici testimoni i fantasmi di una prigione.
Ma chi darebbe retta a dei fantasmi?
A
nessuno importava di niente là dentro.
Daniele
chiese ad Allan di fare l'amore davanti all'edificio in fiamme. Amabile,
avveduta, austera creatura. La nostra guardia voleva ammirare lo spettacolo
– il suo spettacolo - sprofondando
nell'abbraccio - nella sicurezza - dell'uomo accanto a sé. L’uomo
sorrise debolmente, gli occhi che brillavano, il volto che annuiva.
Daniele
esigette inoltre di essere penetrato lentamente per gustarne il momento - si
sa, lo spettacolo d'una prigione in fiamme inabissarsi
nelle tenebre non è evento giornaliero - assaporando il pensiero di poter
avere Allan solo per sé, soltanto per sé. Senz’alcuna
paura. Il corpo di Allan per sempre inviolato. Le
fiamme bruciavano. Gli occhi della guardia liquidi e
fermi.
Baciò Allan, alzandosi leggermente sulle punte dei piedi per
guardarlo negli occhi, senza chiuderli - voleva immergersi nel verde di
quegli occhi alla luce del cielo di notte -. Poi si girò, si
piegò a novanta abbassandosi i calzoni, i gomiti poggiati sul muretto di
una vecchia costruzione e gli occhi ed il corpo aperti, mentre l'uomo dietro di
lui lo portava in paradiso.
Fine