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Autore: Mue    06/02/2010    0 recensioni
Sono passati anni dalla questione del Magazzino di Disincantamento e Smaltimento Magico di Ilkley Moor, anni che hanno lenito ferite e consolato i cuori.
Ma un rapporto deve ancora essere ricucito.
Può il quadro di uno squattrinato pittore che ritrae una ragazza sfigurata riconciliare due anime?
Spin-off di “Verderame”
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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- Questa storia fa parte della serie 'Policromia'
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Capitolo II








Diagon Alley, 11 Febbraio

«Questa storia della Nuova Moratoria non mi piace nemmeno un po’. In questo modo praticamente tutti i ladri e i truffatori verranno rimessi in libertà e quelli a piede libero non potranno più essere arrestati. E’ vergognoso!»
«Io invece credo che non sia una cattiva idea. Dopotutto quanti, dopo essere stati in prigione, si reintegrano nella società? Non vengono nemmeno assunti se non per i lavori più degradanti a causa del loro passato, si immagini! La prigione non fa altro che alienarli ancor più dalle altre persone.»
«Sciocchezze. Secondo me questo dimostra maggiormente che se una persona è abituata a comportarsi male, lo continuerà a fare. Al massimo si dovrebbero rieducare una volta usciti di prigione, ma eliminare la pena per un delitto compiuto non fa altro che incoraggiare i malviventi a perseguire nelle loro azioni criminose.»
«Non sono d’accordo! Ci sono ex-detenuti che sono riusciti a farsi strada nel mondo grazie ad alcune opportunità, il che dimostra che chi entra in prigione non è irrecuperabile, ma stare rinchiuso per mesi in una cella fredda e umida non lo aiuta di certo a riprendersi. Guardi Roger Davies, il fondatore della Davies Verdigris, che in tre anni ha superato la Firebolt&co in vendite di scope da corsa.»
«Roger Davies è la dimostrazione del fatto che anche se uno finisce in prigione, può ricominciare con le sue forze, senza indulti nazionali anche a tutti gli altri criminali!»
Marietta sorrise e spense la radio. Chissà perché, ma aveva la sensazione che Roger non avrebbe confermato nessuna delle supposizioni dei due giornalisti.
Se li sentisse, probabilmente li manderebbe tranquillamente tutti a raccattare escrementi di drago, pensò tra sé, ridacchiando.
Era felice di aver mantenuto i contatti con lui nonostante si fosse trasferito da tanto tempo in Canada e avesse una ditta da dirigere. Una volta era anche venuto a trovarla e le aveva offerto un lavoro, ma Marietta aveva rifiutato: si era affezionata troppo a Oscar per lasciarlo ora che aveva bisogno di lei.
«Sta’ attenta che non s’innamori pure lui di te! Hai un ascendente poco salutare sui tuoi datori di lavoro» le aveva raccomandato Roger scherzosamente.
Marietta non aveva replicato: il pensiero di Ruben Armstrong era ancora una ferita aperta del suo passato, l’unica mai guarita.
Quando era uscita di prigione, era andata a cercarlo a Ilkley Moor.
«Ti aspetterò sempre» le aveva detto.
Non aveva mantenuto la promessa: Marietta era stata alla sua vecchia casa, ma l’aveva trovata chiusa e abbandonata, e lo stesso per la propria. Il magazzino era stato smantellato da mesi, ormai, e Cho non sapeva nulla.
Così aveva rinunciato, abbattuta.
Aveva pensato a Ruben spesso, durante il soggiorno ad Azkaban, più spesso di quanto potesse immaginare. L’aveva considerato un datore di lavoro e un amico, e forse addirittura un eroe, quando l’aveva salvata dopo che era entrata nella caldaia, ma nulla di più. Niente di più profondo.
Eppure le mancava, più di quanto non le mancassero sua madre, o Roger, o Cho. Le mancavano la sua presenza rassicurante, i suoi sguardi eloquenti, i suoi silenzi carichi di significato.
Ruben era stato la sua famiglia più di chiunque altro. Era stato il suo sostegno.
E ora, ora che l’aveva perso probabilmente per sempre, si chiedeva se avesse mai potuto essere qualcosa di più.
Il cigolio della porta dello scantinato che si apriva la distolse dai suoi pensieri e Oscar fece il suo ingresso, arzillo come non mai.
«Quante offerte alla galleria, oggi?» chiese lei con un sorriso.
«Sei, tutte sopra i tremilacinquecento galeoni» rispose Oscar allegramente. «Sette, a dire la verità, ma l’ultimo era chiaramente un giornalista che voleva intervistarti, dato che mi ha chiesto di incontrarti e sono riuscito a liberarmene solo dopo un quarto d’ora.»
Marietta tirò un sospiro di sollievo. Non aveva nessuna voglia di apparire sui giornali di tutta la Londra magica come un animale da esposizione diventato improvvisamente interessante.
«Comunque ho incassato la percentuale delle vendite dei biglietti della galleria di oggi e possiamo andare a mangiare fuori, magari al Paiolo Magico. E’ meraviglioso, non trovi? Ho anche comprato una nuova cravatta da mettere… ma dov’è? L’avevo messa qui, ero sicuro…» Frugò con le mani nelle numerose tasche del suo mantello e ne fece uscire oggetti di tutti i tipi, dai pennelli agli yo-yo, ma della cravatta nemmeno l’ombra. «Oh, che sbadato!» borbottò, accigliato. «Devo averla lasciata alla galleria quando mi sono fermato a chiacchierare con Jacques. Non importa, vado a riprenderla.»
«Vado io» lo frenò Marietta, alzandosi e recuperando la giacca. «Tu per oggi hai già preso abbastanza freddo, Oscar. Ricordati i tuoi reumatismi.»
«Oh, non importa!» esclamò il vecchio, battendo le mani con allegria. «Con i soldi della vendita della Vergine del fuoco potrò comprarmi tonnellate di barattoli di Unguento Antireumatico di Madama Sweetheart!»
Marietta sospirò, lo costrinse a togliersi la giacca e lo fece sedere sul divano rappezzato all’angolo della cantina con una tazza di tè caldo in mano.
«Vado a prendere la cravatta e torno» si raccomandò, e uscì.
La nebbia era ancora fittissima e il buio era calato da un pezzo: raggiunse in fretta la galleria di Nocturnal Square e si tirò su la sciarpa fino al naso prima di entrare, sperando che ci fosse poca gente ora che era quasi orario di chiusura. Non le andava di farsi riconoscere da qualche visitatore, soprattutto il giornalista di cui aveva parlato Oscar.
«Ciao, Marietta» la salutò Jacques all’ingresso. «A momenti non ti riconoscevo. Fa freddo, fuori?»
Marietta sorrise al custode della galleria, un uomo sulla cinquantina dalla calvizie incipiente e una sviscerata passione per il verde –come si notava dai suoi vestiti, quel giorno tutti color smeraldo.
«Abbastanza» disse Marietta. «Sono venuta a recuperare la cravatta nuova di Oscar. Ha detto di averla dimenticata qui.»
«Ah, certo! Aspetta, dove l’ho messa… eccola!» Ed estrasse dal cassetto in cui stava frugando un sacchetto di cartone con lo stemma di Madama McClan.
Marietta lo prese ringraziando il custode.
«Non hai voglia di dare un’occhiata alla galleria, già che sei qui?» chiese lui, indicando l’interno della sala. «Non sei più venuta da quando il tuo quadro è diventato un nostro ospite fisso, e abbiamo sistemato alcuni nuovi arrivi. Ti va di vederli?»
Marietta guardò verso l’interno della sala, incuriosita. «Beh, a dire il vero sì, ma…»
«Su, vai» la incoraggiò Jacques con un cenno. «Tanto ormai non c’è quasi più nessuno e puoi guardare con tutta calma.»
Lei sorrise. «D’accordo, grazie. Darò un’occhiata veloce.»
Jacques le fece l’occhiolino. «Buona visita. E attenta» aggiunse, serio. «Davanti al tuo quadro c’è ancora il giornalista di cui Oscar si è liberato, ma non credo si accorgerà di te: è troppo ipnotizzato dalla Vergine
Marietta annuì e si nascose meglio il viso con la sciarpa. Ricordò quando lo faceva sempre qualche anno prima: un gesto abituale tutte le mattine, quando entrava nel Magazzino dove lavorava con Ruben. Sentì la malinconia assalirla e si accorse solo dopo qualche attimo di ritrovarsi di fronte al proprio ritratto, al posto d’onore vicino all’ingresso della sala, che ricambiava il suo sguardo con un’espressione calma e imperturbabile.
C’era qualcun altro a osservarlo: un uomo alto, massiccio e dalla pelle scura. La sentì arrivare, evidentemente, perché si voltò e la vide.
«Cub.»
Un sogno: Marietta doveva esserci appena sprofondata. Un sogno impossibile.
«Ruben» mormorò, incredula.
L’uomo di fronte a lei fece un cenno d’assenso.
«Sei… sei proprio tu?» chiese lei.
Lui assentì di nuovo, senza parlare.
Era proprio Ruben. Ruben Armstrong in persona, avvolto in un grande mantello nero, i capelli tagliati e la barba corta. Ruben Armstrong, che parlava a cenni e non a parole, che la fissava dall’alto in basso senza per questo farla sentire inferiore. Ruben, che l’aveva amata profondamente e silenziosamente per anni, prima di Azkaban.
«Che cosa fai qui?» chiese Marietta che ancora stentava a credere che quella di fronte a lei non fosse un’apparizione ma qualcosa di reale.
Ruben rispose senza alcuna esitazione. «Ti aspettavo.»



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In diversi, alla conclusione di Verderame, mi avevano fatto qualche domanda sul fatto che Ruben e Marietta, dopo Azkaban, si sarebbero ritrovati, perciò ho deciso di provare a immaginare un loro incontro successivo. Con questo non voglio dire che in soli tre capitoli riuscirò a spiegare il motivo per cui poi non si separeranno più, ma almeno di dare un indizio, una possibilità per entrambi.
Se ci sono riuscita, bene, altrimenti pazienza: scrivere qualcosa per me rimane sempre e comunque un piacere, raramente poco di più.
Al prossimo e -già- ultimo capitolo, stasera ^-^
   
 
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