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Autore: Bael    07/02/2010    2 recensioni
Voglio avvisarvi che da oggi cercherò di offrire alle signorine che hanno recensito Prometheus un racconto breve(tre pagine di formato A4 per tre capitoli U_U)come dono. Questo è per la gentile Reus, signori, spero che gradiate. "L'artista impazzisce al posto del suo pubblico, lasciate che vi racconti come."
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Julie3

E' l'ultimo capitolo, quindi metterò quel che ho da dire ai lettori nella parte superiore del raconto, in modo da lasciare il finale nel dovuto silenzio. Ringrazio chi ha recensito e anche chi ha solo letto. Se qualche passaggio vi risultasse illogico, non temete: non siete voi che non connettete, ma il personaggio XD Ultima cosa, una piccola nota alla persona a cui ho dedicato il racconto: buon compleanno, amore. Vacilli ragazza, ma resisterai.


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Quando si è appena svegli si ha il pregio di essere troppo rincoglioniti per impedire a certe idee insensate di colpirti, al punto che piegheresti la testa come un bambino fissando una briciola di pane tostato sulla tovaglia. Quando ti svegli non senti tua madre che dice qualche puttanata, non ascolti proprio un cazzo di quello che si chiacchiera in giro o che ronza il tg, o il meteo. Però senti il latte brontolare sul fuoco, ti concentri a fissare il bordo ammaccato della tazza ancora vuota che ti hanno messo davanti –chi? Tua madre? O l’hai presa tu?

Nel mio caso mi ero svegliato in auto, con la fronte che si era quasi appiccicata al finestrino, fuori c’erano i piccioni. Naturalmente ero così intontito che rimasi a fissarli. Erano due: uno camminò oscillando fino nascondersi dietro la ruota di un’auto, l’altro camminava in tondo. Era semplicemente. Folle.

Sorrisi, poi vidi che quello che si era nascosto dietro la ruota non c’era più. L’altro volò basso. Un secondo, due. Eccolo che si alza e si appollaia sul cornicione della scuola. Tutti staranno festeggiando il Natale, pensai. Dio solo sa quanto avrei voglia di indossare un maglione, di quelli che pizzicano, o prudono e puzzano di vimini, imprecare mentre cerco le ciabatte alla cieca coi piedi e invece trascino le dita sulle piastrelle e rabbrividisco. Perché sono fredde, Dio, se lo sono. Ma vorrei essere lì a casa mia e scoprire mia madre che ci è entrata, si è fatta un duplicato delle chiavi, lei.

Ero appena arrivato dove credevo di trovare Carl Fish. Prima che partissi avevano dato uno speciale in tv, come succedeva tutte le volte che la gente è talmente idiota da non capire chi cazzo ha ucciso chi, pur trovando il tipo di turno con un coltello dietro la schiena e il sorriso incolpevole. Insomma nel programma parlarono quasi solo del suo vecchio, dei precedenti, dell’allontanamento della moglie e del figlio, del fattaccio della fabbrica e così via. In effetti viaggiavo alla cieca. Dove abitava quest’idiota, di preciso? No, non quest’idiota, questa specie di genio che aveva gettato la mia piccola Julie a salutare due balconi prima di aprirsi sull’asfalto.

La macchina era praticamente congelata, girai la chiave per metterla in moto per quasi mezz’ora prima di capire che era andata.

Piegai la testa contro la spalliera, sembrava il pullman, lo stesso pullman che prendevo quando frequentavo le superiori, respirai piano. Le costole sembravano una gabbia ghiacciata e dolorante sotto la pelle, la schiena scricchiolò. Sembravo fatto di ingranaggi cigolanti di un vecchio orologio e quella macchina era come una tomba accartocciata e umida, aprii lo sportello e uscii. Fuori non faceva tanto più freddo che dentro l’automobile, ma quello a cui pensavo per davvero era che non avevo idea di dove cercare Fish. Ero ancora stanco e i miei passi raschiavano sull’asfalto, come quelli di Mr Todey.

Il piccione sul cornicione della scuola si guardò in torno col collo che andava a scatti, come la lancetta di un orologio, poi volò via. Camminai, girovagando come un barbone, percorsi il marciapiede della scuola, attraversai e continuai a camminare dritto davanti a me col sonno che man mano si scioglieva permettendomi di pensare a cose inutili. Per esempio dove mi stessi trascinando, il perché, o il motivo per il quale mi ero trasformato in una persona che vagava per istinto.

No, non istinto.

Ispirazione. Ecco! Ecco di cosa si trattava!

Ecco perché camminavo alla ricerca dell’uomo che aveva ucciso Julie. Ispirazione!

La parola era scivolata via, prima di quel momento, dietro esempi e spiegazioni che facevano acqua. Come il carcerato!, ricordai. Anche Mr Tovey, anche lui non ha bisogno di una motivazione per vendere dei fili colorati come dentifrici, ma l’ispirazione quella sì. E Julie poteva essere la persona insensata che era per lo stesso motivo.

Eravamo tutti geni ispirati, compresi. Eravamo bellissimi. Mi fermai.

Avevo raggiunto un cimitero dei carri allegorici di Carnevale. C’era un topo enorme tutto scrostato, con carta –era carta?- che colava via dalla faccia, svelando una rete verde per scheletro. Il sorriso di carta screpolata era quasi inquietante, dietro di lui ce n’erano altri, sembravano putrefatti, alcuni erano solo una rete accartocciata. Riuscii a scavalcare la ringhiera arrugginita con una strana euforia isterica, una sorta di panico felice.

Era un quadrato di terreno inutilizzato, o meglio un terzo conteneva i carri, il resto era probabilmente il rifugio di qualche gruppetto di ragazzini che ci andavano per bere, fumare o scopare, nella maggior parte dei casi. I più piccoli, quindi i più bastardi, ci avevano raccolto le lucertole per giustiziarle in orari più soleggiati. Un’esecuzione sotto un sole terribile e silenzioso. È tutto, tutto così ispirato. Camminai con le gambe rigide per il freddo, mi feci qualche giro abbastanza inutile per tutto il terreno. Dall’altra parte dell’inferriata sorgeva relativamente isolato un condominio bianco con l’intonaco che cedeva, le ringhiere dei balconi erano attaccate alle finestre, neanche con lo spazio per un vaso di fiori, uno schifo, insomma. Attorno c’era qualche grossa bestia di metallo: per demolirlo, realizzai. Scavalcai ancora, questa volta caddi a terra e i jeans strofinarono contro le ginocchia fino a sbucciarle, alzai gli occhi fino a vedere quella casa in prospettiva dal basso: un cono decapitato, no, no, più basso, un patetico trapezio decadente e screpolato, mia alzai. Il portone doveva essere rotto e non si chiudeva, dentro c’era un vaso di piante rotto, che vomitava terra brunita e pastosa, non c’era ascensore: solo scale. Salii fino al terzo piano dove vidi una delle porte aperta. Entrai senza far rumore, sulla mia sinistra c’era una grossa specchiera annerita che probabilmente non erano riusciti a smontare e portarsi via –erano tre specchi rettangolari che volevano un bel pezzo di parete – perché tutta quella fretta poi?

Andai avanti e la prima porta alla mia sinistra dava sulla cucina (a destra e un po’ più avanti c’era una specie di salone, ma le stanze che non fossero bagno e cucina erano talmente vuote da non essere riconoscibili) c’era ancora qualche mobile e una sagoma più chiara dove erano riusciti a toglierli e portarseli via. Fantasmi di mobili, scherzai. Sbattei un paio di volte le palpebre quando in mezzo a quelle chiazze chiare, ne trovai una scura e appollaiata che canticchiava; quando mi vide, la sagoma scattò in piedi.

“Non è che questa è casa tua, no?” bofonchiò la sagoma, scossi la testa e quello si rilassò.

Quando misi meglio a fuoco, vidi che il suo volto era familiare.

“Lo so perché mi fissi, sono stato in tv, io. Sono famoso, sono quello della tv”insistette.

“Fish” dissi, lui rise.

“Quel bastardo del mio vecchio non ci pensa neppure a darmi qualche soldo, quel pezzente, guarda un po’ che mi tocca fare, questo non l’hanno detto ai notiziari e a quei programmi”

Chiuse il cassetto di un mobile lungo, di gusto orrendo, con qualche anta ammaccata di nero.

“Che stronzata, qui hanno spazzato via tutto”

“No, per l’amianto sono morti un sacco dei mocciosi che andavano alla scuola qui vicino, poi si sono incazzati, i genitori dico, no?, si sono incazzati, insomma e allora in uno slancio di compassione – rise e tossicchiò – hanno fatto evacuare il condominio, così in fretta che alcuni hanno lasciato qualche schifezza … ah ecco qui!” aprì la penultima anta e mi lanciò l’unica bottiglia che aveva trovato.

Provai a bere, riuscii a ingurgitare qualche goccio il resto lo sputai a terra: quella schifezza aveva qualcosa di strano dentro, come grumi di zucchero.

“Comunque ti ho già visto” disse.

“Sì ti ho visto in foto sei l’ex della – tirò su col naso e tossì ancora – della piccola Arlowe”

Appoggiai la bottiglia a terra.

“La piccola Arlowe?”

“Così la chiamavo all’università. Io ero quello studioso, no? Quello serio che fa da tutor a… insomma e lei era la piccola Arlowe, d’altronde era quello che si aspettavano tutti: che fosse la piccola…”

 

Quel che rimaneva del lampadario oscillava in tondo, disegnano una spirale, o forse ero io, ero io che ondeggiavo come un ubriaco. Su-giù, su-giù, in tooondo.

Ma se è su e giù non è in tondo, razza di…

Lasciai cadere a terra quel che restava della bottiglia andata in pezzi, che gocciolava quell’intruglio di alcol e zucchero e sangue.

Fece due tonfi vetrosi, quando cadde e saltò via soltanto un pezzo. Carl Fish a terra aveva i capelli bagnati, con le gocce di Dr. Hyde Absinthe  tedesco che gli colavano dalla testa al viso, fino a picchiettare sul pavimento. Nel suo portafogli c’era una foto di Julie in camicetta, pareva che portasse i capelli parecchio lunghi, la mia. Julie.

Mi sedetti a terra, appoggiando la schiena alla parete.

Guardai il lampadario che prima nella mia immaginazione aveva preso ad oscillare.

Non avevo provato nulla per Julie quando mi ero messo alla ricerca di Fish, e invece l’avevo ammazzato. Io non ero mai stato violento in vita mia.

Non so quanto tempo rimasi là seduto, inebetito a guardare il soffitto, ma quel tempo forse breve, forse lungo fu sufficiente per capire. Non era stato l’istinto, né l’ispirazione, né il caso a portare me e Fish nella stessa casa o una grande sfera nera a demolire le pareti del palazzo sollevando un’alta nebbia di polvere.

Ma la sua immagine, compresi prima che la polvere mi fosse addosso.

  
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