E' l'ultimo capitolo, quindi metterò quel che ho da dire ai lettori nella parte superiore del raconto, in modo da lasciare il finale nel dovuto silenzio. Ringrazio chi ha recensito e anche chi ha solo letto. Se qualche passaggio vi risultasse illogico, non temete: non siete voi che non connettete, ma il personaggio XD Ultima cosa, una piccola nota alla persona a cui ho dedicato il racconto: buon compleanno, amore. Vacilli ragazza, ma resisterai.
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Quando
si è appena svegli si ha il pregio di essere troppo rincoglioniti per impedire
a certe idee insensate di colpirti, al punto che piegheresti la testa come un
bambino fissando una briciola di pane tostato sulla tovaglia. Quando ti svegli
non senti tua madre che dice qualche puttanata, non ascolti proprio un cazzo di
quello che si chiacchiera in giro o che ronza il tg, o il meteo. Però senti il
latte brontolare sul fuoco, ti concentri a fissare il bordo ammaccato della
tazza ancora vuota che ti hanno messo davanti –chi? Tua madre? O l’hai presa
tu?
Nel
mio caso mi ero svegliato in auto, con la fronte che si era quasi appiccicata
al finestrino, fuori c’erano i piccioni. Naturalmente ero così intontito che
rimasi a fissarli. Erano due: uno camminò oscillando fino nascondersi dietro la
ruota di un’auto, l’altro camminava in tondo. Era semplicemente. Folle.
Sorrisi,
poi vidi che quello che si era nascosto dietro la ruota non c’era più. L’altro
volò basso. Un secondo, due. Eccolo che si alza e si appollaia sul cornicione
della scuola. Tutti staranno festeggiando il Natale, pensai. Dio solo sa quanto
avrei voglia di indossare un maglione, di quelli che pizzicano, o prudono e
puzzano di vimini, imprecare mentre cerco le ciabatte alla cieca coi piedi e
invece trascino le dita sulle piastrelle e rabbrividisco. Perché sono fredde,
Dio, se lo sono. Ma vorrei essere lì a casa mia e scoprire mia madre che ci è
entrata, si è fatta un duplicato delle chiavi, lei.
Ero
appena arrivato dove credevo di trovare Carl Fish. Prima che partissi avevano
dato uno speciale in tv, come succedeva tutte le volte che la gente è talmente
idiota da non capire chi cazzo ha ucciso chi, pur trovando il tipo di turno con
un coltello dietro la schiena e il sorriso incolpevole. Insomma nel programma
parlarono quasi solo del suo vecchio, dei precedenti, dell’allontanamento della
moglie e del figlio, del fattaccio della fabbrica e così via. In effetti
viaggiavo alla cieca. Dove abitava quest’idiota, di preciso? No, non quest’idiota, questa specie di genio che
aveva gettato la mia piccola Julie a salutare due balconi prima di aprirsi
sull’asfalto.
La
macchina era praticamente congelata, girai la chiave per metterla in moto per
quasi mezz’ora prima di capire che era andata.
Piegai
la testa contro la spalliera, sembrava il pullman, lo stesso pullman che
prendevo quando frequentavo le superiori, respirai piano. Le costole sembravano
una gabbia ghiacciata e dolorante sotto la pelle, la schiena scricchiolò.
Sembravo fatto di ingranaggi cigolanti di un vecchio orologio e quella macchina
era come una tomba accartocciata e umida, aprii lo sportello e uscii. Fuori non
faceva tanto più freddo che dentro l’automobile, ma quello a cui pensavo per
davvero era che non avevo idea di dove cercare Fish. Ero ancora stanco e i miei
passi raschiavano sull’asfalto, come
quelli di Mr Todey.
Il
piccione sul cornicione della scuola si guardò in torno col collo che andava a
scatti, come la lancetta di un orologio, poi volò via. Camminai, girovagando
come un barbone, percorsi il marciapiede della scuola, attraversai e continuai
a camminare dritto davanti a me col sonno che man mano si scioglieva
permettendomi di pensare a cose inutili. Per esempio dove mi stessi trascinando,
il perché, o il motivo per il quale mi ero trasformato in una persona che
vagava per istinto.
No,
non istinto.
Ispirazione. Ecco! Ecco di
cosa si trattava!
Ecco
perché camminavo alla ricerca dell’uomo che aveva ucciso Julie. Ispirazione!
La
parola era scivolata via, prima di quel momento, dietro esempi e spiegazioni
che facevano acqua. Come il carcerato!, ricordai. Anche Mr Tovey, anche lui non
ha bisogno di una motivazione per vendere dei fili colorati come dentifrici, ma
l’ispirazione quella sì. E Julie poteva essere la persona insensata che era per
lo stesso motivo.
Eravamo
tutti geni ispirati, compresi. Eravamo bellissimi. Mi fermai.
Avevo
raggiunto un cimitero dei carri allegorici di Carnevale. C’era un topo enorme
tutto scrostato, con carta –era carta?- che colava via dalla faccia, svelando
una rete verde per scheletro. Il sorriso di carta screpolata era quasi
inquietante, dietro di lui ce n’erano altri, sembravano putrefatti, alcuni
erano solo una rete accartocciata. Riuscii a scavalcare la ringhiera
arrugginita con una strana euforia isterica, una sorta di panico felice.
Era
un quadrato di terreno inutilizzato, o meglio un terzo conteneva i carri, il
resto era probabilmente il rifugio di qualche gruppetto di ragazzini che ci
andavano per bere, fumare o scopare, nella maggior parte dei casi. I più
piccoli, quindi i più bastardi, ci avevano raccolto le lucertole per
giustiziarle in orari più soleggiati. Un’esecuzione sotto un sole terribile e
silenzioso. È tutto, tutto così ispirato. Camminai con le gambe rigide per il
freddo, mi feci qualche giro abbastanza inutile per tutto il terreno.
Dall’altra parte dell’inferriata sorgeva relativamente isolato un condominio
bianco con l’intonaco che cedeva, le ringhiere dei balconi erano attaccate alle
finestre, neanche con lo spazio per un vaso di fiori, uno schifo, insomma.
Attorno c’era qualche grossa bestia di metallo: per demolirlo, realizzai.
Scavalcai ancora, questa volta caddi a terra e i jeans strofinarono contro le
ginocchia fino a sbucciarle, alzai gli occhi fino a vedere quella casa in
prospettiva dal basso: un cono decapitato, no, no, più basso, un patetico
trapezio decadente e screpolato, mia alzai. Il portone doveva essere rotto e
non si chiudeva, dentro c’era un vaso di piante rotto, che vomitava terra
brunita e pastosa, non c’era ascensore: solo scale. Salii fino al terzo piano
dove vidi una delle porte aperta. Entrai senza far rumore, sulla mia sinistra
c’era una grossa specchiera annerita che probabilmente non erano riusciti a
smontare e portarsi via –erano tre specchi rettangolari che volevano un bel
pezzo di parete – perché tutta quella fretta poi?
Andai
avanti e la prima porta alla mia sinistra dava sulla cucina (a destra e un po’
più avanti c’era una specie di salone, ma le stanze che non fossero bagno e
cucina erano talmente vuote da non essere riconoscibili) c’era ancora qualche
mobile e una sagoma più chiara dove erano riusciti a toglierli e portarseli
via. Fantasmi di mobili, scherzai. Sbattei un paio di volte le palpebre quando in
mezzo a quelle chiazze chiare, ne trovai una scura e appollaiata che
canticchiava; quando mi vide, la sagoma scattò in piedi.
“Non
è che questa è casa tua, no?” bofonchiò la sagoma, scossi la testa e quello si
rilassò.
Quando
misi meglio a fuoco, vidi che il suo volto era familiare.
“Lo
so perché mi fissi, sono stato in tv, io. Sono famoso, sono quello della
tv”insistette.
“Fish”
dissi, lui rise.
“Quel
bastardo del mio vecchio non ci pensa neppure a darmi qualche soldo, quel
pezzente, guarda un po’ che mi tocca fare, questo non l’hanno detto ai
notiziari e a quei programmi”
Chiuse
il cassetto di un mobile lungo, di gusto orrendo, con qualche anta ammaccata di
nero.
“Che
stronzata, qui hanno spazzato via tutto”
“No,
per l’amianto sono morti un sacco dei mocciosi che andavano alla scuola qui
vicino, poi si sono incazzati, i genitori dico, no?, si sono incazzati, insomma
e allora in uno slancio di compassione – rise e tossicchiò – hanno fatto
evacuare il condominio, così in fretta che alcuni hanno lasciato qualche
schifezza … ah ecco qui!” aprì la penultima anta e mi lanciò l’unica bottiglia
che aveva trovato.
Provai
a bere, riuscii a ingurgitare qualche goccio il resto lo sputai a terra: quella
schifezza aveva qualcosa di strano dentro, come grumi di zucchero.
“Comunque
ti ho già visto” disse.
“Sì
ti ho visto in foto sei l’ex della – tirò su col naso e tossì ancora – della
piccola Arlowe”
Appoggiai
la bottiglia a terra.
“La
piccola Arlowe?”
“Così
la chiamavo all’università. Io ero quello studioso, no? Quello serio che fa da
tutor a… insomma e lei era la piccola Arlowe, d’altronde era quello che si
aspettavano tutti: che fosse la piccola…”
Quel
che rimaneva del lampadario oscillava in tondo, disegnano una spirale, o forse
ero io, ero io che ondeggiavo come un ubriaco. Su-giù, su-giù, in tooondo.
Ma se è su e giù
non è in tondo, razza di…
Lasciai
cadere a terra quel che restava della bottiglia andata in pezzi, che gocciolava
quell’intruglio di alcol e zucchero e sangue.
Fece
due tonfi vetrosi, quando cadde e saltò via soltanto un pezzo. Carl Fish a
terra aveva i capelli bagnati, con le gocce di Dr. Hyde Absinthe tedesco
che gli colavano dalla testa al viso, fino a picchiettare sul pavimento. Nel
suo portafogli c’era una foto di Julie in camicetta, pareva che portasse i
capelli parecchio lunghi, la mia. Julie.
Mi
sedetti a terra, appoggiando la schiena alla parete.
Guardai
il lampadario che prima nella mia immaginazione aveva preso ad oscillare.
Non
avevo provato nulla per Julie quando mi ero messo alla ricerca di Fish, e
invece l’avevo ammazzato. Io non ero mai stato violento in vita mia.
Non
so quanto tempo rimasi là seduto, inebetito a guardare il soffitto, ma quel
tempo forse breve, forse lungo fu sufficiente per capire. Non era stato
l’istinto, né l’ispirazione, né il caso a portare me e Fish nella stessa casa o
una grande sfera nera a demolire le pareti del palazzo sollevando un’alta
nebbia di polvere.
Ma la sua immagine, compresi prima che la polvere
mi fosse addosso.