5.
difesa
la
mattina seguente, per quanto mi fossi sforzato di alzarmi presto,
quando andai
nella stanza di Lizzie, non la trovai.
Sentii
uno stranissimo prurito allo stomaco: la sera precedente, quando
l’avevo
baciata, mi ero sentito leggero come una piuma, prima ancora che
potessi
chiedermi come lei avrebbe reagito al mio gesto.
Non
c’erano biglietti in giro. Temetti che quella mancanza
potesse essere di per sé
una risposta. Negativa. Segnale che avevo tradito la sua fiducia.
Stavo
per girare sui tacchi, e chiudere la porta della sua stanza, per
riservatezza,
ma qualcosa attirò la mia attenzione…
…era
il riflesso delle tre cornici che ornavano il comò di camera
di Lizzie.
Ne
presi una in mano, dopo essere tornato sui miei passi, e la osservai:
era in
bianco e nero.
Due
persone sorridevano all’obiettivo, e sullo sfondo, una valle
boscosa.
L’uomo
con i capelli leggermente mossi e neri come la pece, avvolgeva un
braccio attorno
alle spalle della donna, con fare amorevole; lei, i capelli bianchi
come neve,
adagiati sulle spalle, sembrava tesa e aveva gli occhi chini su un
fagotto che
teneva tra le braccia. Un neonato; di cui si vedevano di sfuggita solo
le
piccole manine, protese verso la donna.
Pieno
di curiosità, immaginai che quei due fossero i genitori di
Lizzie, e che quella
bambina, fosse proprio lei.
Che
strano…Lizzie mi aveva accennato qualcosa su suo padre, ma
mai nulla sulla
madre…
Con
un sospiro mi concentrai sulla seconda fotografia.
Stavolta,
venivano ritratti cinque ragazzi, seduti su un prato verdissimo,
vestiti con
toghe e cappelli quadrati tipici del diploma. Non potei proprio
resistere e,
aprendo il vetro, guardai sul retro della foto, nella speranza di
trovare una
didascalia.
La
calligrafia pulita e tonda di Lizzie, diceva:
“
diploma. Da sinistra a destra: io, Julian, Esther, Michael e
Danielle.”
Mentre
la rimettevo a posto, controllai ed analizzai una per una le persone di
cui ora
conoscevo i nomi.
Lizzie,
aveva un sorriso sincero, i capelli biondo rossicci raccolti in una
coda di
cavallo e, i suoi erano così luminosi che sembrava stessero
vivendo un sogno.
Mi
domandai se all’epoca della foto fosse stata razionale come
ora.
Il
ragazzo accanto a lei, Julian, sembrava un dannato tronfio, pieno di
sé e
spavaldo; solo allora notai che i suoi occhi di ghiaccio fissavano
ardentemente
Lizzie. Sentii una morsa gelida attorno alla nuca, e mi ritrovai ad
odiarlo.
Passai
all’altra ragazza: Esther. Lucenti boccoli neri le
incorniciavano il viso, egli
occhi color nocciola, che guardavano verso l’obiettivo, erano
sereni, come se
fossero consapevoli nel profondo di un’importante conquista.
Nel
momento in cui vidi Michael, per poco non mi cadde la foto dalle mani a
causa
della forte risata che non riuscii a trattenere.
I
capelli color carota erano pettinati alla perfezione, con la riga
precisissima.
La camicia sotto il maglione sembrava essere stata sistemata con un
righello.
Dietro gli occhiali da vista si nascondevano due occhi che sembravano
adorare
lo schermo del computer e, invece, non curarsi troppo del proprio
aspetto
fisico: come per esempio i radi brufoli che aveva in faccia.
Infine,
scrutai Danielle. Il nome mi sembrò francese. Era una
bellissima di colore, con
gli occhi neri, e dei soffici capelli castani.
La
posai, per passare ad ammirare l’ultima foto che stava sul
comò. E per poco non
mi venne un colpo: erano Lizzie e Julian! Sedevano su un divanetto di
pelle
colorata, abbracciati…
Che
stessero insieme?
Mi
scoprii ad essere pungolato da una dilaniante fitta di
fastidio…
Mi
sembrava che stessi per perdere il controllo, poi, la tensione che
minacciava
di farmi trasformare, scese di colpo.
Mi
ricordai che Lizzie, durante il nostro pick nick, mi aveva assicurato
che “non
c’era nessuno a prendersi cura di lei”.
Respirai
profondamente e mi accorsi di essere letteralmente affamato
su quella ragazza tanto riservata e, tuttavia, mi imposi
di rispettarla.
Se
avesse voluto, mi avrebbe parlato lei stessa dei suoi legami, dei suoi
interessi…
Mi
sforzai di mettere un piede davanti all’altro, per uscire
dalla stanza di
Lizzie; quindi, mi gettai sotto la doccia, e rimasi lì per
diverso tempo, in
attesa che la mente mi si svuotasse.
Mi
vestii con i primi indumenti che trovai e, presi a girovagare per casa
masticando un toast, che mi ero preparato.
Mi
sorpresi del silenzio che c’era in quella casa,
dell’armonica quiete in cui era
immersa, tanto da sembrare parte integrante della foresta.
Sentire
il verso squillante degli uccellini, mi fece desiderare di
trasformarmi, di
entrare di nuovo in contatto con la natura, sotto forma di lupo.
D’un
tratto però, lo sguardo mi cadde sul braccialetto di gomma:
era un regalo di
Lizzie. Non potevo abbandonarla così, sparendo di punto in
bianco.
Inoltre,
da quando ero al suo fianco e, mi ero occupato di venire a capo del
mistero
sulla sua vita, su cui lei manteneva il silenzio, avevo la mente vuota
il
dolore sembrava diminuire, e mi sentivo meglio.
Con
il sorriso sulle labbra mi abbandonai sul divano color crema che si
trovava nel
salotto, al piano inferiore.
La
stanza era circoscritta da immense vetrate, e, mentre mi perdevo ad
osservare
le fronde verdi degli alberi, che sembravano vividamente vicine,
scivolai
nell’oblio.
-
Jacob…Jacob?-
una voce mi chiamò, in lontananza.
Aprii
gli occhi a fatica, e riconobbi Lizzie, seduta accanto a me, che mi
sfiorava
una spalla.
Ritirò
la mano non appena la guardai, segno evidente che non voleva che ci
toccassimo…
Oddio,
baciarla era forse stato un errore?
-
ti
sei alzato dal letto, per venire a dormire qui?- ironizzò,
con un sorriso
radioso, notando che ero vestito.
-
Addormentato?-
chiesi, di rimando, mentre mi mettevo a sedere.
Dalle
finestre, la morbida luce del tramonto inondava la stanza.
Fissai
quella ragazza, con un sorriso ebete.
In
seguito acconsentii anche a preparare la cena assieme a lei, e, mosso
da un
sentimento sconosciuto feci:
-
sai?
Penso di non averti ringraziato abbastanza per quanto stai
facendo…vorrei
raccontarti qualcos’altro su di me…
quando
ero piccolo mia madre morì in un incidente d’auto,
e mio padre, in quello
stesso incidente, perse l’uso delle gambe. Da allora mi sono
sempre occupato di
lui, ma, pur essendo figlio unico, non mi sono mai sentito
solo…perché…bhè,
alla riserva, dove vivevo, ho trovato molti amici, che considero come
fratelli.- senza accorgermene avevo abbassato gli occhi sulle mani,
concentrandomi su quanto dicevo.
Il
tonfo di una padella, che cadeva in terra, mi riportò
bruscamente alla realtà.
Lizzie mi stava davanti, con gli occhi persi nel vuoto, forse immersi
in un
ricordo.
-
a
me è successa una cosa simile…vedi, anche mia
madre è morta in un incidente
d’auto. Avevo quattro anni ed ero con la tata, per questo a
me non accadde
nulla. Mio padre, che era accanto a lei, in macchina, ne
uscì illeso, e da
allora si dedicò quasi totalmente al lavoro, per assicurare
alla giustizia
l’ubriaco che aveva causato l’incidente.
Mi
sentii molto sola in quegli anni, imparai a fare della solitudine la
mia forza;
ma era anche un’arma a doppio taglio: se da una parte mi
insegnava ad essere
riservata e costruiva dei muri tra me e il mio dolore,
dall’altra mi provocava
profonda paura e sofferenza.
Poi,
quando iniziai gli studi, conobbi delle persone che ancora adesso posso
considerare come fratelli; condividemmo molte cose, pensa che ora
lavoriamo
anche insieme.- un lieve sorriso le accarezzò le labbra.
Probabilmente
stava parlando delle persone che avevo visto nella foto. Voleva loro
bene, era
chiaro.
Venire
a conoscenza di una parte della sua vita tanto delicata così
in fretta, però,
mi sconvolse e per tutta la sera mi sentii colpevole per
l’ombra di malinconia
che le contaminò gli occhi.
Mi
stupii di quanto avessimo in comune. Forse era per questo che accanto a
lei mi
sentivo in pace, al sicuro.
La
sentii ancora più vicina a me quando, in piena notte,
sentendola piangere, mi
precipitai da lei per abbracciarla, mentre le chiedevo perdono per
averle fatto
ricordare particolari tanto dolorosi.
La
settimana trascorse tranquilla e l’unico avvertimento degno
di nota, attorno al
quale ruotava la mia giornata, era il puntuale ritorno di Lizzie, la
sera, e, a
giudicare dall’entusiasmo che metteva nel raccontarmi gli
avvenimenti della sua
giornata, e, qualche particolare in più sulla sua vita di
tanto in tanto,
pensai che grazie a quel mio abbraccio, tra me e lei dovevano essere
cadute
molte barriere.
Il
sabato, poiché non doveva lavorare, decise che, siccome ero
da lei da quasi una
settimana, non potevo continuare ad indossare gli abiti del padre, e
perciò
dovevamo andare a far compre.
Era
una cosa che detestavo, ma accettai ugualmente rendendomi conto che era
del
tempo in più che avrei trascorso con lei.
Mentre
ci muovevamo per l’affollata città di New Port,
non prestai attenzione a nulla,
mi lasciai solo trascinare dalla mano di Lizzie, che stringeva con
sicurezza la
mia.
In
un grande magazzino, la ragazza scelse per me alcune paia di pantaloni,
qualche
maglietta e camicia, e poi, dopo averle ammassate tutte assieme, si
sedette e
mi ordinò di andare nei camerini per provare tutta quella
roba, poi uscire e
lasciar giudicare lei.
Sbuffai,
alzando gli occhi al cielo; decisi però che
l’avrei presa come un gioco: ad
ogni completo che indossavo uscivo dal camerino atteggiandomi in una
posa
diversa.
Lizzie
rideva con sincerità, ma alla fine riprese il controllo di
sé e mi consigliò di
acquistare alcuni jeans attillati (perché secondo lei,
quelli morbidi a vita
bassa, di moda in quel momento, mi davano un aspetto troppo
trasandato),
qualche maglietta colorata e una sola camicia.
Alla
cassa mentre lei pagava, ed io prendevo le buste per non farla
affaticare, mi
abbandonai al ricordo della sua mano che mi accarezzava di sfuggita il
petto
seminudo, in bella vista sotto la camicia che avevo avuto
difficoltà ad
abbottonare.
-
andiamo?-
mi invitò, carezzandomi i capelli con fare giocoso.
All’improvviso udimmo una voce: lei si paralizzò; io sentii il sangue ribollirmi nelle vene…
-
bene…bene…bene…Elizabeth…non
sapevo che ti divertissi a vestire i bambolotti…- era la
voce gelida di Julian.
Lizzie me l’aveva descritta quando c’eravamo ritrovati a parlare della sua relazione con lui.
Mi
girai lentamente, fulminandolo con lo sguardo.
Mi
parve di scorgere nell’espressione di Julian, una scintilla
di puro terrore.
Deglutì rumorosamente, a disagio.
Forse,
ora che gli stavo di fronte, si era effettivamente reso conto che non
gli
conveniva fare lo sbruffone, dal momento che la mia altezza e la mia
stazza
erano nettamente superiori alle sue.
Lo
squadrai, teso, come quando sotto forma di lupo mi preparavo ad
attaccare una
preda.
Era
il classico tipo che cura maggiormente l’apparenza rispetto
alle qualità
interiori: completamente abbronzato, con i capelli biondi stirati, e
quegli
occhi di ghiaccio che avevo detestato sin dall’inizio, da
quando li avevo
trovati nella foto.
Notai
solo dopo che teneva per mano una ragazza di appena diciotto anni, con
i
capelli biondo platino, la carnagione chiarissima e un completino rosa
addosso
che le copriva pochissimo il fisico.
Mi
ricordava così tanto la vampira biondina che stava con i
Cullen…
-
e
tu, invece?povero stupido non sapevo che ti piacesse ancora giocare con
le
barbie…- sbottai, incapace di trattenermi.
La
ragazzina affianco a Julian scoppiò a piangere e corse fuori
dal negozio; lui
fece alcuni passi indietro, col cuore a mille, per lasciarmi passare.
Fuori
di me per la rabbia, lo afferrai per la camicia e lo sollevai da terra:
-
devi
delle scuse alla mia ragazza, buffone !-
gli intimai, scuotendolo come un pupazzo di pezza.
-
Jacob…basta,
andiamocene.- mi sussurrò Lizzie, che si era avvicinata e mi
aveva posato una
mano sulla spalla.
Il
suo tocco era freddo, segno evidente che era a disagio. In effetti,
tutti,
all’interno del negozio ci stavano fissando.
-
aspetta…non
ho ancora sentito nulla…- replicai, scuotendo ancora un
po’ quell’uomo
patetico.
-
E
va bene…va bene…mi
dispiace per ciò
che ti ho fatto, Lizzie.- si scusò con voce tremante e
strozzata, Julian.
Lo
lasciai andare subito dopo, e presi per mano Lizzie, tra il silenzio
generale.
*
-
che cos’hai? Non hai detto una parola da quando siamo usciti
dal negozio…-
buttai là, mentre Lizzie spegneva la macchina davanti casa.
Sbatté
con rabbia un pugno sul volante.
-
perché
l’hai fatto, Jacob? C’era per forza bisogno di
attirare l’attenzione in quel
modo? Avrei saputo difendermi da sola, e poi…come ti viene
in mente che io
possa essere “la tua ragazza”? Mi hai resa ridicola
davanti a tutti!- proruppe in
un fiume di parole, e quando ebbe finito, uscì dalla
macchina senza aspettarmi.
-
Lizzie,
aspetta! Lo so che puoi difenderti da sola, ma detestavo il modo in cui
quello ti ha rivolto la parola.- le
spiegai
quando fummo in casa, cercando di afferrarle un braccio,
perché si voltasse
verso di me.
Ma
le mie parole arrivarono tardi: per tutto il resto del giorno mi
evitò, rifugiandosi
nel silenzio.
Quell’assenza
di parole era straziante, logorante e ben presto mi ritrovai da solo,
steso sul
letto di quella che era diventata la mia stanza, completamente confuso.
All’inizio
non ero riuscito a capire il mio desiderio di sapere quanto
più possibile su
Lizzie; il fastidio che avevo provato vedendo le foto in cui Julian la
fissava
con bramosia; la necessità di proteggerla da chi, anche solo
verbalmente voleva
ferirla; o i brividi caldi che mi erano corsi lungo la schiena quando
lei mi
aveva sfiorato il petto e i capelli…
Ma
ora, tutto mi appariva più chiaro, anche se impossibile: io
la desideravo.
Desideravo
stringerla tra le braccia, sentire il suo respiro sulla mia
pelle…
Chiusi gli occhi, respirando a fatica. Non riuscivo a capire da dove mi nascesse questo desiderio, non aveva eguali, non era neanche paragonabile a quello flebile che un tempo avevo provato per Bella. Era tanto intenso da annebbiarmi la vista, da togliermi il respiro. Lizzie stava diventando tutto il mio mondo.
Che
fosse quello, l’imprinting?
Caddi
in ginocchio, prostrato dalla forza di ciò che provavo nei
confronti di Lizzie,
e decisi che, poiché probabilmente l’avevo
umiliata, affrontando Julian quel
pomeriggio, nonostante le mie intenzioni fossero nobili, ora, avrei
dovuto
stimolare in lei “l’istinto di
autodifesa”.
D’altro
canto, lavorando in polizia, doveva essere abituata alle esercitazioni
per
l’autodifesa, no?
Tuttavia,
non potevo spingerla a battersi con me; si sarebbe di certo fatta male,
ed
avrebbe scoperto che le mie ferite si rigeneravano più
velocemente rispetto a
quelle delle persone normali.
Come
avrei potuto fare?
Presi
a pugni un cuscino, frustrato, ed improvvisamente ebbi
un’idea.
*
non
appena la sveglia suonò, annunciando l’inizio
della domenica, mi svegliai,
precipitandomi giù dal letto, con un soffice cuscino tra le
mani.
-
sveglia,
sveglia, sveglia! In piedi Lizzie, dai!- esordii correndo in camera sua
e
gettandomi di peso, sul suo letto.
Presi
a picchiarle delicatamente il cuscino addosso, e di tanto in tanto
lasciavo
qualche morbido bacio sulle sue spalle, sulle braccia, sulla
fronte…
Trovai
i suoi splendidi occhi color cannella a fissarmi, stanchi a spaesati.
-
Jacob…che
cosa stai facendo?- mi chiese, senza sapere bene cosa fare.
-
Dici
di saperti difendere da sola…perché non me lo
dimostri, combattendo contro di
me ad una battaglia di cuscini…all’ultima
piuma?- proposi, per farla ridere.
E
funzionò. La risata di Lizzie fu così radiosa da
rallegrare anche me.
Approfittando
della mia distrazione, la ragazza si tolse il cuscino da sotto la
testa, e mi
colpì in pieno viso.
Nonostante
fosse solo un gioco, e Lizzie si stesse divertendo come una matta, mi
dimostrò
ciò che le avevo chiesto: in breve mi disarmò e
si sedette su di me.
Sorrise,
poi appoggiò l’orecchio sul mio cuore e con una
mano mi accarezzò dolcemente il
petto.
Era
incredibile quanto i miei muscoli fossero docili sotto il suo tocco.
Chiusi
gli occhi e, lentamente, mi spinsi verso Lizzie per baciarla…
Il
tocco delle sue labbra sulle mie mi provocò un brivido caldo
simile a una
scossa, che mi si propagò in tutto il corpo.
-
no…no…cosa
stiamo facendo?Oddio, che cosa ho fatto?-domandò Lizzie,
d’un tratto, più a se
stessa che a me. Posò la fronte contro la mia e, tenendo gli
occhi chiusi,
scosse la testa, nervosa.
-
Che
cos’hai? C’è qualcosa che non va?- le
chiesi, spaesato.
-
Sei
minorenne Jacob, non capisci? Quello
che ti ho fatto è sbagliato!- replicò, pronta. La
razionalità stava di nuovo
avendo il sopravvento su di lei.
Fece
per alzarsi, ma la trattenni.
-
non
andartene, per favore, lasciami spiegare…Lizzie, tu non mi
hai fatto nulla. Sono stato io a
baciarti, ad
abbracciarti. Ci vedi qualcosa di sbagliato in questo? Vedi qualcosa di
sbagliato nell’amore?-
ammutolii di colpo quando l’ultima parola uscì
dalle
mie labbra. L’avevo detto: l’amavo.
La
sottile paura che sentivo svanì, e ripresi a parlare:
-
è
così: io ti amo. Non voglio nient’altro se non
saperti al mio fianco, sempre.-
confessai, poi alzai gli occhi, facendomi coraggio.
-
Non
provi anche tu, questo?-
Per
tutta risposta Lizzie tornò con slancio tra le mie braccia,
ed unì le sue
labbra alle mie, in un lungo, appassionato bacio.
Quando
ci dividemmo, mentre lei esplorava il mio corpo con le mani, fui
costretto a
riprendere fiato.
Poi
facemmo l’amore. La sentivo vicina a me, più di
quanto non fosse mai stata
prima, ed ero felice.
Ma
avevo anche paura, perché il dolore era intensissimo.
D’un
tratto, come per magia, Lizzie mi baciò e il dolore
mutò in piacere.
L’abbracciai
mentre le nostre anime diventavano una sola.