CAPITOLO
DUE
Ormai aveva imparato a fronteggiare Rachel, sebbene ogni sua parola venisse detta con la paura a fare da sottofondo.
“E
chi altro può averlo fatto, sentiamo!”, esclamò Rachel, “Non
vedo molti coinquilini in questa fottuta cella!”
“Non ho mai toccato le tue cose, perché dovrei farlo adesso!”, continuò Meg in preda all’esasperazione. Presto sarebbe tutto finito, si disse, doveva solo starsene calma ed attendere che Rachel uscisse dalla cella, diretta verso la sua fottuta attività di rompi-il-cazzo-a-chiunque-ma-non-a-me. Il succo della questione? La sua compagna di cella si era alzata di pessimo umore, se l’era rifatta con lei per aver perso la sua maglietta preferita e non voleva starla a sentire.
“Ridammi la mia maglia!”, gridò Rachel.
“Signorine, adesso basta!”, tuonò l’agente Gibson, di turno quella mattina al loro piano, “Vi sentiamo dal fondo del corridoio!”
“Non me ne frega un cazzo!”, sbraitò Rachel.
“Modera i termini!”, ribatté subito l’agente, alterandosi in un attimo.
Quel rimproverò fu sufficiente a fare calmare Rachel. Meg si chiese per quale motivo fosse così agitata, da diversi giorni a quella parte dava in escandescenza ad ogni minimo segno di contatto umano. Volle dirle che era disposta a darle una mano, ad ascoltarla, ma era troppo furiosa con lei per porgerle il suo aiuto e se ne andò verso la sala mensa per fare colazione. Mangiò rapidamente, tanto che una volta messo piede in serra l’intenso profumo dei fiori la nauseò e stette quasi per vomitare, riuscì a contenersi a stento. La sua faccia pallida preoccupò i colleghi, ma Meg mascherò tutto con un sorriso e cinque minuti all’aria aperta, passati in compagnia dell’agente Evans e della sua sigaretta fumante. Non appena il suo stomaco si fu quietato, Meg riprese posto all’interno della serra.
“Bene.”, sentì dire a Daisy, “Oggi passeremo il nostro tempo fuori da questo ammasso di vetro.”
Così come ebbe trattenuto la colazione dentro di sé, Meg celò anche la sua improvvisa gioia.
“Megan, tu rimarrai dentro.”, Daisy cancellò tutto con quattro parole ed un sorriso dei suoi, “Puoi pulire?”
Un attimo di silenzio prima della sua risposta.
“Certo.”
“Perfetto! Andiamo fuori, che c’è un bel sole!”, disse agli altri.
Lasciò il passo ai suoi colleghi, che uscirono confortandola con sguardi compassionevoli.
“Acido in acqua.”, borbottò Carlos con la sua manona davanti alla bocca, strappandole un sorrisetto di assenso.
Così, munita di guanti, camice verdastro e tanta pazienza, si occupò della serra. Per prima cosa era saggio dedicarsi alle erbe fastidiose che crescevano senza permesso dentro ai vasi, andando a togliere nutrimento alle altre piante. Le avrebbe gettate sul pavimento ricoperto di mattoni rossi in lisca di pesce, che sarebbero stati puliti per ultimi. Non ci volle molto prima che l’agitazione e il cattivo umore prendessero il pieno controllo di lei. Se ne stava sola, in silenzio, senza alcuna distrazione a tenerle la mente lontano dalla discussione con Rachel. Meg doveva assolutamente capire quale fosse il vero motivo che scatenava in lei tutta quella rabbia, non poteva esserle utile solo come la valvola di uno sfogo violento, sapeva di avere una buona capacità di ascolto. L’aveva accusata senza alcuna prova del furto di uno stupido maglioncino, molto probabilmente le era stato sottratto in lavanderia, dove fatti del genere erano la quotidianità. L’aveva trattata come una ladra!
Un ciuffo di erba più ostinato non si fece strappare facilmente e Meg concentrò su di esso tutta la sua rabbia, afferrandolo con entrambe le mani e estirpandolo con forza, tanto che barcollò indietro. La fermò il grande tavolo al centro della serra, che si mosse e lasciò tre vasi cadere a terra. Si frantumarono, tre bocche di leone si trovarono a contatto con il pavimento in cotto.
“Merda!”, gridò Meg, gettando via il ciuffo d’erba.
Osservò il danno combinato, deducendo che presto si sarebbe riversata su di lei anche l’incazzatura di Daisy. Si chinò per racimolare i cocci rotti.
“Fermati!”
Meg aggrottò la fronte e sporse gli occhi al di sopra della superficie lignea del tavolo. L’agente si stava avvicinando a grandi passi, sembrava piuttosto preoccupato.
“Non toccarli.”, le disse.
Era quel tizio del nord, come si chiamava? Lo lesse sulla targhetta appesa alla divisa bluastra: Agente Jones.
“E… Cosa dovrei fare?”, domandò Meg, tornando in piedi, “Lasciarli qua a terra?”
“Devi farlo sotto la mia supervisione.”, le spiegò l’agente.
“Perché?”, le venne da chiedere ancora.
“Perché sì.”, tagliò corto lui, “Adesso puoi ripulire tutto.”
Rimase qualche attimo a fissarlo perplessa: aveva solamente rotto due vasi e doveva gettarne via i cocci, sistemando le piante altrove. Ancora stranita per il bizzarro atteggiamento della guardia, Meg andò a cercare un sacchetto della spazzatura e due terrecotte, sentendosi gli occhi dell’agente pungerle il collo con insistenza. Si inginocchiò ancora e, con movimenti grossi, tutti i frammenti finirono dentro al sacchetto. L’agitazione salì alle stelle quando il secondino si offrì di darle una mano.
“Grazie, ma faccio da sola.”, rispose con stizza.
Lui non l’ascoltò, quelli della sua specie erano sempre sordi alle parole pronunciate dagli appartenenti alla razza di cui Meg stessa faceva parte. Si chinò a terra e si occupò della terra sparsa sul pavimento.
“Come si chiamano questi… Questi fiori?”, le domandò.
“Bocca di leone.”, rispose Meg.
“Bocca di leone…”, ripeté l’altro, “Speriamo non morda!”
Supponeva di dover ridere, ma Meg non seppe farlo.
“Ok, adesso le rimettiamo… Nel vaso nuovo, vero?”, continuò l’agente Jones.
“Sì.”
Lui allungò una mano e prese le due terrecotte, riempiendole con un po’ della terra distaccatasi dalle radici dei due fiori.
“Ehm… Non le dispiace se lo faccio da sola, vero?”, gli disse, osservandolo sporcarsi le mani di terriccio scuro.
“Oh sì, fai pure.”, le rispose, “Sono anche allergico a tutte queste piante.”
“Ecco, così non le verrà uno shock anafilattico.”, borbottò sommessamente.
L’agente si alzò ma non si allontanò, rimanendo in piedi davanti a lei, che lavorava china sul pavimento. Una volta che il danno fu rimediato e i due fiori tornarono dentro a nuovi vasi, Meg si alzò. Mosse un passo verso la scopa e la paletta, ma l’agente la bloccò.
“Devo chiamare qualcuno che ti perquisisca.” “Cosa?!?”, esclamò Meg, “Non ho fatto niente di male!”
Chi era quello? Cosa voleva da lei? Non gli era bastato romperle le scatole? Che se ne tornasse alla sezione maschile!
Come qualche minuto prima, l’agente Jones la ignorò e prese la sua ricetrasmittente.
“Centrale? Qui è l’agente Jones. Potreste contattare l’agente Evans e dirle di venire in serra? Ho bisogno di lei. Passo.”
La voce metallica e frusciante dell’addetto alle comunicazioni interne si fece sentire subito.
“Qualche problema Agente Jones? Passo.”
“Una detenuta ha rotto un vaso di terracotta, c’è il rischio che possa essersi impossessata di un frammento tagliente. Non sono autorizzato a perquisirla, dovrebbe farlo l’agente Evans per me. Passo.”
Ecco qual era il problema, Meg non c’era arrivata da sola. Era stata troppo ingenua e l’agente Jones troppo prevenuto nei suoi confronti. Come poteva esserle utile un coccio? Non aveva nessuno da ferire o ammazzare, aveva già una persona sulla coscienza ed era sufficiente. L'agente aveva bisogno della Evans per controllarla, dato che era severamente proibita la perquisizione di detenuti di sesso diverso. Non poteva metterle le mani addosso, né a lei sarebbe piaciuto sentirle.
“Non ho mai toccato le tue cose, perché dovrei farlo adesso!”, continuò Meg in preda all’esasperazione. Presto sarebbe tutto finito, si disse, doveva solo starsene calma ed attendere che Rachel uscisse dalla cella, diretta verso la sua fottuta attività di rompi-il-cazzo-a-chiunque-ma-non-a-me. Il succo della questione? La sua compagna di cella si era alzata di pessimo umore, se l’era rifatta con lei per aver perso la sua maglietta preferita e non voleva starla a sentire.
“Ridammi la mia maglia!”, gridò Rachel.
“Signorine, adesso basta!”, tuonò l’agente Gibson, di turno quella mattina al loro piano, “Vi sentiamo dal fondo del corridoio!”
“Non me ne frega un cazzo!”, sbraitò Rachel.
“Modera i termini!”, ribatté subito l’agente, alterandosi in un attimo.
Quel rimproverò fu sufficiente a fare calmare Rachel. Meg si chiese per quale motivo fosse così agitata, da diversi giorni a quella parte dava in escandescenza ad ogni minimo segno di contatto umano. Volle dirle che era disposta a darle una mano, ad ascoltarla, ma era troppo furiosa con lei per porgerle il suo aiuto e se ne andò verso la sala mensa per fare colazione. Mangiò rapidamente, tanto che una volta messo piede in serra l’intenso profumo dei fiori la nauseò e stette quasi per vomitare, riuscì a contenersi a stento. La sua faccia pallida preoccupò i colleghi, ma Meg mascherò tutto con un sorriso e cinque minuti all’aria aperta, passati in compagnia dell’agente Evans e della sua sigaretta fumante. Non appena il suo stomaco si fu quietato, Meg riprese posto all’interno della serra.
“Bene.”, sentì dire a Daisy, “Oggi passeremo il nostro tempo fuori da questo ammasso di vetro.”
Così come ebbe trattenuto la colazione dentro di sé, Meg celò anche la sua improvvisa gioia.
“Megan, tu rimarrai dentro.”, Daisy cancellò tutto con quattro parole ed un sorriso dei suoi, “Puoi pulire?”
Un attimo di silenzio prima della sua risposta.
“Certo.”
“Perfetto! Andiamo fuori, che c’è un bel sole!”, disse agli altri.
Lasciò il passo ai suoi colleghi, che uscirono confortandola con sguardi compassionevoli.
“Acido in acqua.”, borbottò Carlos con la sua manona davanti alla bocca, strappandole un sorrisetto di assenso.
Così, munita di guanti, camice verdastro e tanta pazienza, si occupò della serra. Per prima cosa era saggio dedicarsi alle erbe fastidiose che crescevano senza permesso dentro ai vasi, andando a togliere nutrimento alle altre piante. Le avrebbe gettate sul pavimento ricoperto di mattoni rossi in lisca di pesce, che sarebbero stati puliti per ultimi. Non ci volle molto prima che l’agitazione e il cattivo umore prendessero il pieno controllo di lei. Se ne stava sola, in silenzio, senza alcuna distrazione a tenerle la mente lontano dalla discussione con Rachel. Meg doveva assolutamente capire quale fosse il vero motivo che scatenava in lei tutta quella rabbia, non poteva esserle utile solo come la valvola di uno sfogo violento, sapeva di avere una buona capacità di ascolto. L’aveva accusata senza alcuna prova del furto di uno stupido maglioncino, molto probabilmente le era stato sottratto in lavanderia, dove fatti del genere erano la quotidianità. L’aveva trattata come una ladra!
Un ciuffo di erba più ostinato non si fece strappare facilmente e Meg concentrò su di esso tutta la sua rabbia, afferrandolo con entrambe le mani e estirpandolo con forza, tanto che barcollò indietro. La fermò il grande tavolo al centro della serra, che si mosse e lasciò tre vasi cadere a terra. Si frantumarono, tre bocche di leone si trovarono a contatto con il pavimento in cotto.
“Merda!”, gridò Meg, gettando via il ciuffo d’erba.
Osservò il danno combinato, deducendo che presto si sarebbe riversata su di lei anche l’incazzatura di Daisy. Si chinò per racimolare i cocci rotti.
“Fermati!”
Meg aggrottò la fronte e sporse gli occhi al di sopra della superficie lignea del tavolo. L’agente si stava avvicinando a grandi passi, sembrava piuttosto preoccupato.
“Non toccarli.”, le disse.
Era quel tizio del nord, come si chiamava? Lo lesse sulla targhetta appesa alla divisa bluastra: Agente Jones.
“E… Cosa dovrei fare?”, domandò Meg, tornando in piedi, “Lasciarli qua a terra?”
“Devi farlo sotto la mia supervisione.”, le spiegò l’agente.
“Perché?”, le venne da chiedere ancora.
“Perché sì.”, tagliò corto lui, “Adesso puoi ripulire tutto.”
Rimase qualche attimo a fissarlo perplessa: aveva solamente rotto due vasi e doveva gettarne via i cocci, sistemando le piante altrove. Ancora stranita per il bizzarro atteggiamento della guardia, Meg andò a cercare un sacchetto della spazzatura e due terrecotte, sentendosi gli occhi dell’agente pungerle il collo con insistenza. Si inginocchiò ancora e, con movimenti grossi, tutti i frammenti finirono dentro al sacchetto. L’agitazione salì alle stelle quando il secondino si offrì di darle una mano.
“Grazie, ma faccio da sola.”, rispose con stizza.
Lui non l’ascoltò, quelli della sua specie erano sempre sordi alle parole pronunciate dagli appartenenti alla razza di cui Meg stessa faceva parte. Si chinò a terra e si occupò della terra sparsa sul pavimento.
“Come si chiamano questi… Questi fiori?”, le domandò.
“Bocca di leone.”, rispose Meg.
“Bocca di leone…”, ripeté l’altro, “Speriamo non morda!”
Supponeva di dover ridere, ma Meg non seppe farlo.
“Ok, adesso le rimettiamo… Nel vaso nuovo, vero?”, continuò l’agente Jones.
“Sì.”
Lui allungò una mano e prese le due terrecotte, riempiendole con un po’ della terra distaccatasi dalle radici dei due fiori.
“Ehm… Non le dispiace se lo faccio da sola, vero?”, gli disse, osservandolo sporcarsi le mani di terriccio scuro.
“Oh sì, fai pure.”, le rispose, “Sono anche allergico a tutte queste piante.”
“Ecco, così non le verrà uno shock anafilattico.”, borbottò sommessamente.
L’agente si alzò ma non si allontanò, rimanendo in piedi davanti a lei, che lavorava china sul pavimento. Una volta che il danno fu rimediato e i due fiori tornarono dentro a nuovi vasi, Meg si alzò. Mosse un passo verso la scopa e la paletta, ma l’agente la bloccò.
“Devo chiamare qualcuno che ti perquisisca.” “Cosa?!?”, esclamò Meg, “Non ho fatto niente di male!”
Chi era quello? Cosa voleva da lei? Non gli era bastato romperle le scatole? Che se ne tornasse alla sezione maschile!
Come qualche minuto prima, l’agente Jones la ignorò e prese la sua ricetrasmittente.
“Centrale? Qui è l’agente Jones. Potreste contattare l’agente Evans e dirle di venire in serra? Ho bisogno di lei. Passo.”
La voce metallica e frusciante dell’addetto alle comunicazioni interne si fece sentire subito.
“Qualche problema Agente Jones? Passo.”
“Una detenuta ha rotto un vaso di terracotta, c’è il rischio che possa essersi impossessata di un frammento tagliente. Non sono autorizzato a perquisirla, dovrebbe farlo l’agente Evans per me. Passo.”
Ecco qual era il problema, Meg non c’era arrivata da sola. Era stata troppo ingenua e l’agente Jones troppo prevenuto nei suoi confronti. Come poteva esserle utile un coccio? Non aveva nessuno da ferire o ammazzare, aveva già una persona sulla coscienza ed era sufficiente. L'agente aveva bisogno della Evans per controllarla, dato che era severamente proibita la perquisizione di detenuti di sesso diverso. Non poteva metterle le mani addosso, né a lei sarebbe piaciuto sentirle.
“Va
bene. La mando subito da voi. Passo e chiudo.”
Passarono
i successivi cinque minuti in silenzio, Meg gli dava volutamente le
spalle facendo finta di occuparsi di altre piante. L’agente Evans
arrivò e, con fare frettoloso, le toccò le gambe e le braccia,
senza approfondire.
“Dovrebbe
impegnarsi di più.”, la consigliò l’altro, “L’ho persa di
vista per pochi secondi ma sono più che sufficienti.”
“Tranquillo,
Jones, è una a posto.”, disse Evans, sorridendo a Meg, “Non ha
mai dato troppi problemi, mi stupirei se iniziasse adesso. Tra un
anno se ne va.”
Bene,
si rallegrò Meg, era giusto che si beccasse quella frecciata ed
andasse a fare il prepotente altrove.
“Oh,
buona fortuna.”, rispose lui, senza scomporsi di un millimetro né
chiederle scusa.
Si
allontanò e tornò a prendere il suo posto vicino all’entrata,
dove molto probabilmente aveva passato tutto il suo tempo senza che
lei, occupata con il suo nervosismo e le erbacce, se ne fosse
accorta.
“Perdonalo.”,
le disse Evans sottovoce, “E’ da poco che è qua e, oltretutto, è
un uomo.”
L’agente
sorrise nel vederla alzare le sopracciglia e scrollare le spalle.
“Avanti,
finisci di pulire.”, le fece con tono più alto e deciso.
L’agente
Evans se ne andò salutando con un gesto formale il suo collega, e
Meg tornò a dividere la serra con quel tizio. Prese scopa e paletta,
con l’intenzione di raggruppare lo sporco e gettarlo via.
“Un
anno e poi sei a casa. Che effetto fa?”
Fece
finta di non averlo sentito. Lui non tornò all’attacco, doveva
aver capito che era meglio desistere.
***
L’aereo
atterrò in perfetto orario ed i passeggeri cercavano di farsi strada
nella folla, tutti muniti di valige con ruote che intralciavano i
passi altri con poco ritegno. Nella massa scorse una testa bruna,
nascosta dietro ad un paio di grandi occhiali da sole e sotto ad un
cappellino da baseball.
Sophie
era tornata.
Danny
allungò un braccio per attirare la sua attenzione e, non appena vide
un sorriso apparire sulla sua bocca, comprese che lo aveva visto. Le
andò incontro tendendole le mani, che subito si unirono dietro alla
sua schiena, sollevandola da terra senza alcuno sforzo, tanto era
leggera.
“Fatto
un buon viaggio?”, chiese subito alla sua fidanzata, dopo averla
riempita di baci.
“E’
stato piuttosto stressante.”, rispose lei, sospirando, “Ma ora
che ho messo piede a terra, sto meglio!”
“Vieni,
andiamo a casa.”, le fece, prendendola per mano, mentre l’altra
afferrò il bagaglio, “Avrai tutto il tempo di scaricare il jet
lag.”
Chiunque
avrebbe potuto capire che Sophie non era inglese: lingua ed aspetto,
accento e pelle olivastra. Era americana, veniva dalla Florida ma
abitava da un paio di anni a Londra, insieme a sua sorella, che aveva
sposato un tipo della City. Si erano conosciuti poco dopo il suo
trasferimento a Holloway, era un’amica di Harry. Sophie
aveva passato le ultime tre settimane dalla sua famiglia, a Tampa, in
Florida, per assistere al matrimonio della cugina, di cui era stata
la damigella d’onore. Danny non si era unito per due motivi:
essenzialmente il lavoro non glielo permetteva ed in aggiunta non
stavano insieme da molto, non volevano affrettare le cose. Gli
sarebbe piaciuto vedere l’America, non c’era mai stato, ma non lo
avrebbe di certo fatto in quella occasione.
Sebbene
avessero avuto modo di tenersi in contatto, il viaggio in macchina fu
speso nel raccontarsi tutto quello che era successo in quelle tre
settimane lontani. Danny seppe così ogni particolare del matrimonio,
dalla prova dei vestiti alla scelta dei cibi, dalla sistemazione del
giardino alla cerimonia vera e propria, svoltasi all’aperto in una
giornata di sole pieno, con le mamme che piangevano e le strette di
mano dei papà. Un tipico matrimonio americano, niente a che vedere
con la tradizione inglese e le lunghe cerimonie in chiesa. Alla gente
d’oltreoceano piaceva esibire le loro possibilità economiche,
beati loro. Se avesse detto a sua mamma di volersi sposare
all’aperto, si sarebbe disperata: il suo unico figlio adorato che
rischiava di prendersi un tipico acquazzone inglese. Impensabile!
“Un
anno e divorzieranno.”, concluse Sophie, “Quanto vuoi
scommetterci?”
“Dici
che accadrà?”, le chiese.
Avrebbe
voluto domandarle qualcos’altro, ma uno starnuto poderoso lo
interruppe.
“Cos’hai?”,
gli chiese subito lei, “Il raffreddore in primavera?”
“No…
E’ solo allergia ai pollini.”, spiegò Danny, prendendo
frettolosamente un fazzoletto e soffiandosi il naso.
“Fatti
una cura.”, lo consigliò Sophie, “Così non ne soffrirai.”
“E’
quello che sto facendo, ma non funziona.”
“Provane
un’altra.”
“E’
colpa del lavoro.”, le disse.
Lei
lo guardò stranito.
“Ti
chiudono in una serra piena di fiori?”, fece Sophie, scoppiando a
ridere per l’assurdità della sua affermazione.
Eppure
aveva avuto ragione.
“Beh…
Sì, è proprio così.”, disse Danny con voce fortemente nasale e
gli occhi infastiditi dal prurito, “Seguo un gruppo di detenuti che
lavora all’aperto e gestisce una serra…”
“Fai
un reclamo e fatti destinare ad un altro lavoro.”, propose Sophie.
Come
se fosse stata la richiesta più semplice del mondo. Era l’ultimo
arrivato, l’ultimo della lista e doveva tenersi i compiti che gli
affidavano, che fossero state ore a contatto con i fiori oppure turni
massacranti nel fine settimana.
“Tenterò.”,
le disse con tono conciliante.
Già
un’altra volta erano caduti in quella discussione. Sophie voleva
esortarlo alla battaglia per i suoi diritti di lavoratore onesto e
fedele al corpo di polizia a cui apparteneva. Lui, che conosceva il
sistema del dare-avere che caratterizzava il rapporto con i suoi
colleghi, sapeva di avere poca esperienza sulle spalle per potersi
permettere uno sfizio del genere. Avevano litigato duramente e Danny
si era fissato una delle sue tante note mentali.
Dare
sempre ragione a Sophie in tema di diritto del lavoro.
“Cosa
ti fanno fare in quella serra?”, chiese lei, osservando il
paesaggio urbano che si estendeva in movimento fuori dal finestrino.
“Niente
di che, devo solo controllare i detenuti che lavorano.”
“Sei
da solo?”, domandò ancora Sophie.
“No,
di solito sono in coppia con un altro agente.”
“Perché
allora non ti fai dare il cambio?”, avanzò lei, “Così puoi
rimanere fuori, mentre quell’altro sta in serra.”
Danny
sospirò.
“Non
ci avevo pensato.”, disse, mentendole.
Evans
voleva starsene all’aperto perché odiava l’odore opprimente
della serra. Lui doveva accontentarsi, era così che funzionava.
“Cosa
faresti senza di me?”, disse Sophie, abbracciandolo e baciandolo su
una guancia, “Come sono i detenuti che stai seguendo?”
“Simpatici.”,
rispose Danny.
“Nessun
assassino tra di loro?”
“Qualcuno.”,
le disse con tranquillità.
Lei
sembrò stupirsene.
“E
perché non li chiudono in cella e buttano via la chiave?”,
esclamò.
“Perché
è probabile che non se lo meritino.”, cercò di rassicurarla.
“Come
fai ad esserne sicuro?”
Danny
non poteva risponderle, avrebbe leso l’etica del suo lavoro.
“Non
posso parlartene, mi dispiace, ma puoi fidarti di me.”, le disse,
“Si stanno riabilitando al lavoro, usciranno nel prossimo anno.”
“La
notizia non mi rende più felice…”, sottolineò lei, tornando
seduta e pensierosa.
Era
il momento di sviare.
“Stasera
ho prenotato in un ristorante niente male.”, la informò, “Ti
leccherai i baffi!”
***
Lunedì.
Meg
odiava i lunedì, erano i giorni peggiori della settimana. Quando era
stata libera non li aveva mai sopportati e da quando era lì dentro
li odiava lo stesso, sebbene non avesse avuto più un motivo
specifico a giustificare quel suo sentimento negativo. Si sentiva di
malumore, più scostante del solito, tanto che augurò
faticosamente il buongiorno a Rachel, la quale non aveva diminuito di
un solo grado la sua carica di rabbia distruttiva. Fece
colazione in silenzio, a capo basso, poi intercettò Annelise,
intravedendo il suo cesto di capelli corti e bianchi, e le si
avvicinò. Era una delle detenute più calme e disponibili di tutto
il carcere, era stata accusata di frode e doveva allo Stato diverse
centinaia di migliaia di sterline, forse anche milioni per quello che
Meg ne sapeva. Colpevole di aver rubato del denaro pubblico, Annelise
aveva una pena sulle spalle lunga il triplo della sua, prima che il
giudice l’avesse ridotta.
“Cosa
ci toccherà fare oggi?”, domandò la donna con retorica.
“Non
saprei.”, rispose Meg con tono sarcastico, “Pulire, strappare
erbacce, zappare…”
“Ho
parlato con qualcuna delle Margherite Uno, dicono che ai due tizi che
stanno con loro tocca sempre la pulitura dei vetri della serra…”,
disse Annelise.
“E
io che mi diverto ad appannarli e scriverci qualche ringraziamento
per Daisy… Ora capisco perché non sono capace di ritrovarli!”,
esclamò Meg ridendo, “Osano cancellarli!”
Anche
Annelise rise insieme a lei.
“Il
nostro Carlos deve farle paura.”, disse poi la donna, “Ammetto
che non mi ispira molta fiducia quel ragazzone, però è simpatico.”
Non
poteva negarlo, aveva pienamente ragione. Doveva essere uno dei pochi
uomini della sezione maschile della Holloway a non meritarsi la
castrazione chimica. Era alto e di pelle scura, capelli piuttosto
lunghi e aspetto poco amichevole, insieme a qualche tatuaggio
discretamente preoccupante, ma doveva avere il ripieno di cioccolata.
Carlos aveva commesso diversi peccati mortali e la sua prospettiva di
lasciare le sbarre era piuttosto profonda, tanto da non vederne la
fine, ma era stato obbligato dal giudice a seguire quel corso,
insieme ad un altro per la gestione della rabbia, in modo tale da
imparare a canalizzare il suo sfogo verso qualcosa di più
produttivo.
La
cura delle piante.
Chi
aveva passato la gioventù in una banda di strada di Barcellona per
poi esportare il suo operato entro i confini del reame inglese aveva
necessariamente bisogno di un corso per vivaista. Insomma, la
Holloway era un posto in cui si incontravano sempre personcine per
bene.
“Secondo
me gli piaci.”, avanzo Meg, con un’occhiata furba alla donna,
“L’ho visto come ti guarda!”
Annelise
scoppiò in una nuova risata, si portò le mani alla bocca e
gorgheggiò.
“Ma
smettila, Megan!”, le disse poi, “Ho cinquantacinque anni, non
venti come te!”
“Ventitre.”,
specificò Meg, “E poi non è mai tardi!”
“Ok,
entrambe abbiamo i nostri scompensi ormonali, ma i miei non sono così
squisitamente sessuali!”
“Per
me quei terremoti sono terminati molto tempo fa.”, disse Meg,
prendendo un elastico nero dalla tasca dei pantaloni e legando i
capelli rossi in una coda di cavallo, come era solita portarli ogni
giorno.
Continuarono
il percorso in silenzio, preferendo lasciar perdere quel discorso, e
si unirono a Carlos ed alle altre componenti delle Margherite Due,
Greta e Jess. Si scambiarono un caldo buongiorno e qualche altra
parola, tutti sembravano poco contenti di quello che li aspettava.
“Oggi
ho la sensazione che non faremo niente di buono.”, disse Carlos, “E
vorrei dormire.”
“A
chi lo dici.”, si accodò subito Meg.
Una
figura distante si mosse, Meg lo riconobbe subito. Si avvicinò a
Carlos.
“Ma
dico, quel tizio non può essere sostituito da un suo collega?”,
gli chiese, riferendosi all’agente Jones, che li osservava da
qualche metro di distanza.
“Perché?”,
domandò Carlos.
“Mi
sta sui nervi.”, si spiegò Meg.
“Io
lo trovo molto più carino degli altri poliziotti!”, disse Greta.
Ninfomane.
Lanciò
un’occhiata di sbieco all’agente, poi tornò da Carlos.
“E’
del nord… Non mi piacciono i tipi del nord dell’Inghilterra.”,
aggiunse alla lista dei difetti, “Hanno un umorismo pessimo.”
“Tutti
voi inglesi avete un senso dell’humor pari a quello di un mammut
appena scongelato, ma non me ne sono mai lamentato!”, disse Carlos,
ridendo e trascinando con sé anche le altre donne.
“Non
puoi far niente per farlo sostituire?”, gli domandò.
“E
perché dovrei?”, Carlo scrollò le spalle, “Non è un
rompipalle.”
“Ah
no?”, sbottò Meg, “Qualche giorno fa ho rotto un vaso ed ha
fatto chiamare la Evans per farmi perquisire!”
“Ragazzaccia
cattiva…”, la canzonò lui, “Con questi capelli rossi…”
Meg
ci rinunciò e rise.
“Avanti!”
La
voce squillante di Daisy richiamò la loro attenzione. L’insegnante
si unì al gruppo, avviando una conversazione programmata per
spengersi nel giro di pochi attimi, ed attesero che l’agente Evans
prendesse il suo posto accanto a Jones. A guardarlo da vicino, Meg
ebbe l’impressione di non essere l’unica ad odiare il lunedì. Il
poliziotto non si era rasato, né aveva una buona cera in generale:
il naso era rosso e gonfio, gli occhi stanchi e si soffiava spesso il
naso.
Era
meglio per lui rinunciare ai festini notturni.
Attese
che il responsabile dei turni lo ricevesse e ci vollero ben
quarantacinque minuti prima che accadesse. Danny passò il suo tempo
leggendo qualche rivista scaduta da mesi, spulciando il suo cappello,
parte fondamentale della sua divisa, e guardando alcune crepe sul
soffitto.
“Prego,
si accomodi.”, lo accolse l’ufficiale Allen, permettendogli di
accomodarsi nel suo ufficio, “Mi scusi per il ritardo ma c’è
sempre l’imprevisto dell’ultimo momento.”
“Nessun
problema, signore.”, rispose Danny con il garbo ed il rispetto che
doveva porgere ad ogni suo superiore.
“Allora,
per quale motivo è qui?”, chiese l’ufficiale, sedendosi sulla
sua comoda poltrona, dietro ad una scrivania di legno e vetro, “Mi
è stato anticipato che vorrebbe essere assegnato ad altri compiti.”
“Beh…
Sì, come può vedere ho qualche problema a svolgere il mio.”
Danny
aveva passato il fine settimana a letto con febbre, mal di gola, naso
chiuso e trachea gonfia, tutto per colpa di quelle dannate ore in
serra. Aveva concluso a stento la serata con Sophie: tutte le portate
del ristorante erano rimaste intoccate ed aveva iniziato a percepire
l’aumento della temperatura del suo corpo ben prima di mettervi
piede, ma aveva nascosto il suo malessere. Poi, quando era stato
palesemente chiaro che gli era possibile mentire ad oltranza, erano
tornati a casa.
Stramaledetti
fiori.
“Mi
spieghi.”, disse l’ufficiale Allen.
“Ecco,
sono stato destinato alla supervisione delle attività di
reinserimento lavorativo. Specificatamente, al gruppo Margherita Due,
che si occupa di vivaistica e floricoltura…”, disse Danny,
sentendo la sua voce roca e più nasale del solito, “Non ho niente
di cui lamentarmi, solo del fatto che ho una… Forte allergia al
polline, signore.”
L’ufficiale
rimase in silenzio, Danny riprese il suo discorso.“Il contatto costante con le piante ha effetti collaterali piuttosto evidenti, signore.”
"Si faccia prescrivere una cura antibiotica.”, disse l’uomo.
A parte il fatto che gli antibiotici non erano efficaci nel combattere le allergie, Danny fu costretto a contraddirlo.
“Signore,
la sto seguendo, ma non è efficace.”
“Raddoppi
la dose.”
Assolutamente
no. L’unica volta che aveva avuto quella bella idea si era trovato
con la faccia gonfia e le vene intasate dal cortisone. Mai e mai più.
“Potrei
farlo, ma…”
“Parli
con il medico dell’istituto.”, lo interruppe ancora l’ufficiale
Allen, “Si faccia aiutare da lui.”
“Certamente,
però…”
“La
primavera è un periodo di transizione, sono sicuro che un agente
giovane, forte e sano come lei può superarlo senza alcun problema.”
Fine
della discussione. Con modi garbati e rispettosi, Allen aveva
rifiutato la sua richiesta. Nonostante Danny avesse avuto davvero
bisogno di quella sostituzione, nonostante Sophie gli avesse saturato
la testa di quella convinzione, aveva ricevuto una bocciatura. Si
recò dal medico del carcere, come gli era stato consigliato dal suo
superiore, che per accontentarlo gli aveva concesso di terminare il
turno dopo la visita, dicendogli di rimettersi per il turno del
giorno successivo.
Il
medico lo fece spogliare, Danny rimase nella t-shirt bianca che
solitamente indossava sotto la camicia della divisa, e prese a
visitarlo. Controllò la respirazione, le pulsazioni e la pressione,
la dilatazione della pupilla e i suoi riflessi.
“Beh…
E’ evidente che si tratta di rinite allergica.”, disse poi.
Certamente,
osservò Danny con sarcasmo, ma non si pronunciò. Il dottore gli
chiese di mostrargli quale tipo di antistaminici - e non antibiotici,
come aveva detto il suo superiore- assumesse regolarmente ogni giorno
ed aggiunse anche un’altra pillola. Inoltre, nei casi più gravi…
“Preghi
il Signore.”
Danny
rimase interdetto.
“Funziona?”,
gli chiese, con ironia.
“Chi
lo sa…”, concluse il medico, “Lo dico per scaramanzia.”
E
lo congedò.
***
Meg alzò gli occhi al cielo e lo vide pieno di nuvole, ma non erano le previsioni meteorologiche ad interessarla. Se avesse starnutito ancora, giurò agli angeli che gli avrebbe schiacciato un naso con il pugno. Nonostante il decimo starnuto dell’agente Jones, decorato dalle risatine sommesse delle Margherite Due, Meg non mantenne fede alle sue promesse. Alle loro spalle, il tizio manifestava il suo malessere con quei continui disturbi: colpi di tosse, soffiate di naso, ed ogni qualvolta veniva interpellato, parlava con una voce così nasale da renderlo ancora più ridicolo.
Per
quel giorno era prevista una lezione sul taglio del verde,
specificatamente degli arbusti. Daisy sembrava sapere tutto sulle
modalità con le quali potare gli alberelli e le siepi, cosa che Meg
supponeva fosse piuttosto semplice: bastava prendere un paio di
forbici da giardiniere, al massimo un seghetto, e la pianta veniva
liberata dai rami parassiti oppure abbellita secondo il gusto. Invece
non era così facile: si doveva controllare il calendario, scegliere
i giorni di luna calante, stare attenti a non…
Insomma,
due palle.
Scegliere
quel corso non era stata una bella idea, se n’era resa conto troppo
tardi. I mesi precedenti, passati dietro ad un banco, erano stati
affrontati aspettando quello che sarebbe successo dopo, sperando che
l’applicazione teorica si sarebbe conciliata con le proprie
aspettative. Invece, il giardinaggio non faceva assolutamente per
lei. Anzi,
era il giardinaggio che aveva in mente Daisy a non confacersi ai suoi
gusti. Per Meg le piante non erano altre vite, come credeva lei, ma
solo… Piante. Esseri verdi dotati di fiorellini, dolci alla vista,
profumati, belli da regalare per un ricorrenza. Nient’altro, solo
piante, dentro le cui vene scorreva clorofilla e non sangue. Era
stupido parlare ai pistilli, confessare ai boccioli i propri attimi
di vita felici, Meg non era capace di conversare con una margherita.
Era
da idioti.
Una
vegetale andava trattato da tale: doveva essere curato, concimato,
innaffiato e così via, ma non si poteva amarlo come avrebbe voluto
Daisy, Meg non riusciva a provare sentimenti buoni verso la vita
verde. Guardava una camelia e pensava a come scacciare via quelle
piccole zecche fastidiose che le rovinavano le foglie, ma non vedeva
in essa una sorellina. Solo Daisy poteva riuscirci, forse per via del
suo nome floreale, ed era altrettanto sicura che Annelise e Carlos la
pensassero come lei. Non poteva affermare lo stesso per Greta e Jess,
comunque non le importava.
Sospirò
ed osservò le forbici da potatura.
Perché
in momenti del genere non pioveva mai?
“Mi
sembra di aver sentito una goccia…”, disse Carlos, stupendola.
Lo
guardarono tutte, aspettando altre parole da lui, che si dimostrò
piuttosto titubante.
“Sì…
Eccone un’altra!”, aggiunse l'uomo, aumentando il tono
convincente.
Stava
mentendo, era ovvio, voleva solo terminare la lezione al più presto.
“Oh!
L’ho sentita anch’io!”, ne approfittò subito Meg, “Proprio
sulla fronte!”
Non
voleva certo farsi scappare un’occasione del genere.
“Sì!
E’ vero!”, si immedesimò Annelise in quello sceneggiato.
“Siete
sicuri?”, chiese Daisy, sporgendo mani e braccia per verificare le
loro affermazioni, “O volete solo concludere la lezione prima del
previsto?”
I
tre bugiardi, colti in fallo, cercarono il sostegno reciproco alla
loro versione dei fatti.
“Sì!
Piove!”, una quarta voce inaspettata si unì al coro.
Il
gruppo scrutò l’agente Jones.
“Piove!”,
esclamò lui ancora, annuendo con cenni secchi della testa.
Gli
occhi rimbalzarono su Daisy.
“Beh…
Se lo dice l’agente Jones, significa che piove davvero.”, disse,
sospirando rassegnata, “Ci vediamo domani, vi congedo.”
Ancora
increduli per l’accaduto, i detenuti temporeggiarono. Meg non
voleva trattenere un sorriso sul volto ma doveva farlo, non voleva
essere palesemente contenta per essersi tolta dalle spalle il peso di
altre noiose ore in compagnia di Daisy e dei suoi perfetti consigli.
La donna si allontanò di qualche passo, portandosi appresso Greta e
Jess, che sembravano interessate nel porgerle domande ad oltranza.
“Cosa…
Cosa facciamo?”, disse Annelise, “Come la passiamo la mattinata?”
“Facciamoci
una birra!”, propose ironicamente Carlos, “Offro io!”
“Che
simpatico!”, tagliò corto l’agente Evans, “Andiamo donne, vi
riporto in sezione.”
“Barreiro,
anche per noi è l’ora di tornare a casa.”, disse Jones,
chiamando Carlos per il suo cognome.
“Casa…
Che magnifica parola.”, disse lo spagnolo, il cui tono doveva
trovarsi a metà strada tra il sarcasmo e l’amara constatazione
della quotidiana verità.
Una
volta tornati al chiuso le Margherite Due si divisero, prendendo
strade diverse. Meg camminava al fianco di Annelise, Daisy e le altre
due donne erano qualche passo più avanti, la Evans alle loro spalle
le osservava con tranquillità. Non era uno dei peggiori agenti della
sezione femminile: sapeva chiudere gli occhi, faceva favori e voltava
le spalle quando non c’era niente da vedere. In compenso, però,
aveva una sorta di libro contabile mentale in cui registrava ogni
fatto, trovando il momento giusto per utilizzarlo a pro suo.
Giungendo alla conclusione, comunque, era una buona agente con una
memoria altrettanto ottima, con cui era meglio non avere troppo a che
fare.
“Meno
male che è finita così.”, disse Annelise, sottovoce, “Oggi non
riuscivo proprio a sopportare Daisy.”
“Non
ne sono mai stata capace.”, le rispose Meg, “Il suo atteggiamento
forzatamente simpatico nei nostri confronti mi stucca. Tu sai perché
è dentro?”
“Non
è una detenuta.”, spiegò Annelise, “O meglio, non lo è più.
Non so per quale motivo continui a bazzicare qua dentro. Fossi in
lei, fuggirei via.”
“A
chi lo dici…”, fece Meg, “Cosa ha combinato per starsene qua?”
“Non
lo so.”, disse l’altra, “Dovrei documentarmi. Agente Evans, ci
può aiutare?”
La
donna si prese la domanda ma non dette alcuna risposta, almeno non
subito. Continuò con il suo passo cadenzato, le mani unite dietro
alla schiena e gli occhi che vagavano qua e là.
“Credo
che abbia fatto parte di un gruppo organizzato…”, disse, una
volta che il suo silenzio si ruppe, “Ma non mi ricordo cosa
combinavano… Ne passa talmente tanta di acqua sotto questi ponti.”
Le
ultime parole rimasero sospese nell’aria, nessuna ebbe voglia di
aggiungere altro. In carcere, le atmosfere tranquille erano facili da
rovinare, bastava un attimo ed ogni più piccolo sorriso veniva
cancellato. Momenti come quello erano quotidiani e frequenti, tanto
che era meglio starsene zitte e lontane dalle altre detenute,
piuttosto che rischiare quelle pause infinite.
“Bene,
cosa avete intenzione di fare?”, disse l’agente.
Si
fermarono anche le restanti donne delle Margherite Due, ancora
insieme a Daisy, attirate dal tono di voce più alto ed autoritario
della Evans.
“Io
vorrei andare in biblioteca.”, disse Meg.
“Ti
documenti sulla lezione?”, le domandò subito Daisy, accompagnata
dal suo sorriso fintamente caldo.
“Certamente…”,
rispose lei, con aria vaga.
Il
suo status di detenuta con buona condotta le apriva molte porte, tra
cui anche quelle della biblioteca. Non era l’unica ad avervi
accesso, moltissime altre sue compagne potevano farlo ma non erano in
molte a dedicarsi alla lettura. A dire il vero, a Meg non piaceva
leggere, i libri non le aprivano porte mentali verso altri mondi
-luoghi liberi-, ma le offrivano la possibilità di passare il
tempo senza essere troppo disturbata. Le persone che frequentavano la
biblioteca, infatti, erano solitamente individui alla ricerca di
qualche informazione utile alla loro situazione legale, oppure
tentavano di ottenere un titolo di studio, o di farsi solo una
cultura.
Usualmente,
Meg prendeva un volume, che fosse stata narrativa o una enciclopedia,
e si metteva a leggerlo oppure a sfogliarlo, senza alcun interesse.
Talvolta le era capitato di imbattersi in qualcosa di coinvolgente,
in storie di avventura o fantascienza che le impedivano di
distogliere gli occhi dalle pagine in bianco e nero, ma erano stati
casi piuttosto rari. Non le piaceva andare troppo oltre con
l’immaginazione, l’impatto con la realtà era più devastante di
uno scontro frontale con un muro di cemento armato.
Ad
ogni modo, una volta che Annelise si unì a Jess e Greta, destinate
alle attività comuni negli spazi aperti a tutte le condannate,
l’agente Evans la accompagnò in biblioteca; l’abbandonò dopo
averla affidata ad i suoi colleghi. Meg girovagò a lungo tra gli
scaffali, tentando di individuare il giusto titolo che le stuzzicasse
la voglia di aprire un nuovo libro, e quella volta dovette faticare
molto. Alla fine, afferrò il quarto volume di un enciclopedia sugli
animali; si sedette vicino ad una finestra e si mise a sfogliarlo.
In
quel modo avrebbe passato le due ore rimanenti, prima di andare a
pranzo.
Inghiottì
l’ennesima pillola di antistaminico e si soffiò il naso. Prese il
collirio e si bagnò gli occhi, che bruciavano da morire. Un’altra
giornata come quella e avrebbe voluto morire. La primavera era la
stagione più lunga di tutto l’anno, almeno per Danny. Attese che
il fastidio alle pupille passasse, poi riprese il suo servizio.
La
finta pioggia inscenata dai detenuti era stata la manna dal cielo per
lui, che ne aveva subito approfittato, sebbene avesse saputo che non
avrebbe ottenuto niente. Invece, contro ogni aspettativa, Daisy si
era piegata e la lezione si era conclusa poco dopo la fine della
prima ora. Erano rientrati al chiuso, con grande sollievo di molti
dei partecipanti, oltre che al suo, e i detenuti si erano divisi.
“Dica,
agente.”, gli si rivolse Carlos, “Perché non se ne va in
malattia? Ha una cera che dovrebbe essere lucidata ben bene…”
Il
tatuaggio della banda di cui lui aveva fatto parte evidenziava
l’avambraccio dello spagnolo, che usava arrotolare le maniche dei
suoi abiti per metterlo in mostra con orgoglio. Due spade ricurve ed
incrociate, un motivo arabeggiante ed una scritta emblematica: ‘hasta
la muerte de mi alma’, fino alla morte della mia anima. La
pelle naturalmente scura dell’uomo, molto più vecchio di lui, gli
ricordava Sophie e la sua abbronzatura. Non
aveva mai dato molto confidenza al detenuto Barreiro, il suo aspetto
gli incuteva un certo timore e lo metteva in guardia da ogni
iniziativa nei propri confronti. Alcune delle signore e signorine
delle Margherite Due non sembravano pensarla come lui, dimostrandosi
invece contente della sua presenza maestosa nel gruppo, che doveva
servire a contro bilanciare Daisy e la sua personalità troppo spesso
fastidiosa anche per Danny.
Da
buon agente, quale pensava di essere, non aveva mai dimostrato alcuna
sorta di paura nei suoi confronti. Addirittura, c’erano state
situazioni in cui l’indole innata di Carlos, quella che l’aveva
condotto lì dentro, era venuta fuori con un’esplosione distruttiva
e Danny non aveva esitato ad imporre la sua divisa e l’autorità
che quella gli dava, sebbene non gli fosse mai piaciuto farlo.
“Quello
che ho mi fa star male qui, come a casa.”, gli rispose con
gentilezza, “Tanto vale passare il mio tempo al lavoro.”
“Saggia
decisione.”, disse Carlos, rafforzando la sua affermazione con un
cenno positivo della testa, “Lasci i permessi per malattia alle
vere influenze.”
“Bravo
Barreiro.”
Volle
concludere lì quella conversazione, ma il detenuto andò avanti.
“E’
allergico alle piante, vero?”, chiese a Danny, che gli camminava a
fianco nei corridoi della sezione maschile.
“Sì,
proprio così.”
Doveva
accompagnarlo fino alla sezione che ospitava i detenuti come lui,
quelli da ‘livello medio’, come la chiamavano i suoi
colleghi nel gergo della polizia locale. Erano cioè ospiti a cui
prestare un po’ più di attenzione rispetto a quelli del livello
basso, ed un po’ meno rispetto a quelli del livello alto.
Carlos era stato tolto dal cosiddetto regime di massima sicurezza,
erano già sette anni che si trovava lì dentro e la giustizia
inglese aveva deciso di premiarlo allargando la stretta del controllo
sulla sua persona, ma apparteneva ancora a coloro a cui bisognava
stare attenti.
“Non
sopportare la primavera è un gran brutto affare…”, disse Carlos,
“Ha provato a chiedere di essere sostituito? Anche se è l’ultimo
arrivato…”
I
puntini di sospensione gli fecero capire cosa aveva sottinteso
Carlos, nient’altro che la verità.
“Hai
capito anche tu.”, rispose Danny.
“Agli
ultimi arrivati sempre i lavori peggiori.”, disse ancora Carlos, “E
non possono nemmeno lamentarsi. Ma voi guardie siete fortunate, non
siete prigionieri. A noi spetta una sorte più triste della vostra,
la prima volta che mettiamo piede qua dentro.”
Stava
parlando troppo per i suoi gusti, ma Danny lo lasciò andare avanti.
Al momento giusto avrebbe tagliato i ponti.
“Deve
essere una palla tenerci d’occhio durante le ore di lezione, non è
così?” continuò Carlos, “Voglio dire, quattro ore ad ascoltare
quella Daisy… Per noi studenti”, e rimarcò la parola con
sarcasmo, “è insopportabile… Chissà per voi, che non avete
nulla a che fare con i suoi consigli di botanica…”
Danny
non si espresse al riguardo: non era saggio dimostrare ad un detenuto
il suo mal sopportare qualche collega, avrebbe sempre potuto
manipolare le sue parole e metterlo nei guai. Se ne rimase in
silenzio, come qualsiasi altro agente di polizia avrebbe fatto, se si
fosse trovato al suo posto.
“Comunque,
mi trovo bene in quel gruppo.”, disse Carlos, “E’ pieno di
persone carine, le signore e signorine delle Margherite Due sono
delle personcine interessanti.”
Anche
Carlos sapeva che era necessario moderare i termini ed i toni quando
parlava con una guardia, tanto che Danny si chiese a cosa fosse
dovuta la sua parlantina così attiva. Era piuttosto probabile che
non avesse avuto alcuno scopo, ma rimase comunque attento alle sue
parole.
“Non
mi pronuncio su chi lecca il culo a Daisy.”, disse Carlos,
riferendosi certamente alle due donne sempre pronte a rispondere alle
domande della capogruppo, “Però la signora Annelise e la ragazzina
sono simpatiche.”
Proseguì
nel suo silenzio.
“Annelise
mi ricorda tanto mia mamma, prima che lasciassi la Spagna e mi
trasferissi qua. Sono proprio identiche.”
Danny
si sforzò di trovare una somiglianza tra Carlos e la detenuta, ma
era troppo anche per la sua fantasia ben sviluppata.
“Mentre
la rossa è così palesemente infastidita da Daisy che è un piacere
osservarla durante la lezione! A volte non mi trattengo dalle risate,
la sua faccia è davvero divertente.”
Come
si chiamava quella ragazza? Maggie? Non ricordava nemmeno il suo
nome, ma ogni volta che la vedeva la associava a quel piccolo
incontro-scontro nella serra, nel quale si era preoccupato che non si
fosse impossessata di qualche coccio dei vasi da lei rotti per recare
danno alle sue compagne di cella. Aveva solo fatto il suo dovere,
agendo nel migliore del modi possibili, ma ovviamente non l’aveva
presa affatto bene.
Uno
dei tanti obiettivi del suo lavoro era assicurare l’incolumità dei
detenuti, impegnandosi nell’individuare ogni causa di possibile
danneggiamento che avrebbero potuto perpetuare nei confronti dei loro
simili, come disse a se stesso, recitando a pappagallo le parole dei
manuali su cui aveva studiato per essere abilitato alla professione.
Quindi, anche se aveva seguito scrupolosamente quelle giuste regole,
si era comunque attratto l’antipatia della detenuta, come era ovvio
che accadesse. Quelli come lei non capivano che i poliziotti
lavoravano per loro, per garantire che lo sconto della loro pena
passasse nel modo più tranquillo possibile, e forse non ci sarebbero
mai arrivati. Lui stesso aveva trovato difficoltà nell’afferrare
quel concetto ed i primi mesi di servizio era stata piuttosto dura
abituarsi a all’idea; poi, una volta fatta esperienza, tutto era
divenuto normale. I detenuti ed i poliziotti vivevano su due mondi
diversi, inconciliabili, ed anche se Danny si impegnava nel proprio
lavoro, mettendosi a loro disposizione, non sarebbero mai stati
riconoscenti. A pensarci bene, se i ruoli fossero stati invertiti, la
sua reazione sarebbe stata la medesima…
Comunque
dovette ammettere, suo malgrado, che Carlos aveva ragione. Spesso
aveva colto quella ragazza con espressioni manifestamente annoiate
che, se fosse stato nei panni di Daisy, si sarebbe infastidito nel
vederla reagire in quel modo alla sua lezione. Ci voleva disciplina,
talvolta, ma lei sembrava non averne più di un po’.
Era
anche molto giovane per trovarsi lì dentro.
“Credo
che abbiate la medesima età.”, disse Carlos, “Lei, agente,
quanti anni ha?”
Era
una domanda del tutto personale, non era autorizzato a rispondere ma
lo fece comunque, non ritenendola pericolosa.
“Ventisei.”,
disse Danny.
“Uhm…
No, lei è più piccola.”, disse Carlos, “Credo sia ventitreenne…
Ma sta qui da quattro anni.”
Danny
non poté evitare di alzare le sopracciglia stupito. Evidentemente,
se si trovava lì dentro da così tanto tempo, nonostante la sua
giovane età, aveva certamente commesso qualcosa di molto grave. Lui
non era un giudice, ma chi l’aveva spedita lì dentro lo era
eccome, ed aveva perciò preso la decisione più giusta.
Altra
nota mentale: capire perché i giovani d’oggi non apprezzano la
vita.
“Bene,
Barreiro, siamo arrivati.”, gli disse, una volta di fronte alle
sbarre che precludevano l’accesso alla sezione di medio livello.
“E’
stato un piacere, agente Jones.”, disse l’altro.
Un
collega di Danny aprì le inferriate e permise al detenuto di
entrare.
“So
che è un buon ascoltatore.”, e gli sorrise un po’.
Danny
ebbe da chiedersi ancora il perché di tutto quello, ma dimenticò
presto quella domanda. Tornò al suo servizio, che si sarebbe
concluso al suonare del mezzogiorno: il suo turno era iniziato alle
quattro di mattina, si sentiva piuttosto stanco ed aveva bisogno di
tornare a casa. Sostituì un suo collega, permettendogli di
allontanarsi prima dal lavoro, e finì di nuovo all’aria aperta,
comunque lontano dai pollini e dalle piante, per trovarsi a
sorvegliare i carcerati nella loro ora d’aria. Il tempo non era dei
migliori ma tutti loro se ne stavano fuori, chi a fare un po’ di
ginnastica, chi a passarsi il pallone, chi a chiacchierare con una
sigaretta in mano.
Pensò
a come avrebbe risolto la sua giornata: dopo un sonnellino
pomeridiano sarebbe passato da Sophie, con la quale avrebbe speso la
serata cenando insieme, a casa di lei. Poi sarebbe tornato a dormire,
per riprendere il lavoro nel giorno seguente. Aveva il turno
pomeridiano, da mezzogiorno fino alle otto. In altre parole, quattro
ore insieme alle Margherite Due, imbottito di antistaminici, e la
restante parte sulle mura, armato, a controllare il perimetro del
carcere.
Doveva
trovare un appiglio, un diversivo, qualcosa che tenesse impegnata la
sua mente. Aveva un pensiero che poteva tornargli utile, una piccola
ancora di salvezza alla quale si poteva aggrappare, concentrandosi e
fantasticando un po'. Era da tempo che scaricava le sue difficoltà
e, non di rado, le sue frustrazioni con un piccolo hobby di cui erano
in pochi a saperne l'esistenza.
Lui,
se stesso e Danny Jones.
Nel
suo appartamento c'era un vecchio pc, lo aveva acquistato con il suo
primo stipendio, raggranellato con i lavoretti estivi molti anni
addietro. Era andato a sostituire una grande quantità di quaderni
colorati e poco funzionali.
Gli
piaceva scrivere.
I
suoi personaggi avevano vissuto molte vite, così tante che nemmeno
lui se le ricordava più. Non era certo sul quando avesse iniziato a
trasformare la sua immaginazione in frasi continue, corrette e piene
di senso, almeno per se stesso. La sua mente era sempre stata
popolata di persone, dai tratti reali o surreali, con le quali aveva
conversato a non finire, ma c'era voluto del tempo prima che
filtrassero una per una dalla sua testa fino alla mano, per finire
tra le sue dita, dove diventavano tangibili.
Danny
si focalizzò sulla sua nuova creazione.
Qualunque
sarebbe stata la fine di quella piccola storia, nessuno vi avrebbe
mai posato gli occhi ed era giusto così.
___________________
Note dell'autrice
Ringrazio Queen, alias Fra, per aver commentato xD allora le McSisters a qualcosa servono! xDDDD
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Note dell'autrice
Ringrazio Queen, alias Fra, per aver commentato xD allora le McSisters a qualcosa servono! xDDDD