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Autore: Blackbutterfly1994    03/03/2010    3 recensioni
- Ehi, amico, sai dov’è la stazione? –
Una semplice domanda, una semplice risposta.
Ma, prima che me ne accorgessi,
lui era già diventato una parte di me.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Amori sbagliati

- Ehi, amico, sai dov’è la stazione? –

Una semplice domanda, una semplice risposta.

Ma, prima che me ne accorgessi,

lui era già diventato una parte di me.

 

******

 

Cigolio di molle, e mi sveglio, inevitabilmente. Non ho neanche bisogno di aprire gli occhi per sapere cosa sta succedendo: lui si sta alzando, poi si rivestirà, ed infine si chiuderà la porta alle spalle senza nemmeno degnarmi di uno sguardo.

Anche se sa che sono sveglio.

Anche se sa che morirei per un suo bacio. Ma di quelli dolci, senza secondi fini, come me ne avrà dati forse cinque in molti anni.

Lo schiocco della porta mi coglie preparato.

Preparato, ma non per questo meno deluso e dolorante.

Quanto ancora durerà? Quanto ancora?

 

La giornata scorre relativamente normale: studio un po’, vado a lavoro al bar, torno a casa. Tutto normale, una vita normale. Tutti credono che Shiki mi ami, che lui sia il mio ragazzo. Non so se ridere di amaro divertimento o piangere di rabbia, a questa affermazione. Lui è mio tanto quanto uno sporco umano può reclamare la proprietà de sole. Lui è la stella, io sono il fango. Lui è il Sole, io un piccolo, insignificante satellite. Mi siedo sul divano del soggiorno, solo in compagnia del ticchettare dell’orologio, che scandisce il tempo che passa, segna ogni attimo della mia vita che mi scivola dalle dita, correndo dietro qualcosa che non avrò mai completamente. Il mio sguardo è perso nel vuoto, vedo tutto e niente. Quando ho riso per l’ultima volta? Quando è stata l’ultima volta che ho davvero guardato qualcuno negli occhi? Non lo ricordo. Una calda lacrima mi scivola sulla guancia, benché il mio viso sia rimasto impassibile e il mio sguardo spento. Non sbatto nemmeno le palpebre. Sono solo una patetica statua con una lacrima che scivola piano sul collo, affonda nella maglietta, e poi svanisce, assorbita dal cotone. Avrei così tanta voglia di scappare via, invece rimango immobile, non muovo nemmeno un muscolo. La serratura che scatta mi fa infine sobbalzare, ed io non posso fare a meno di illuminarmi alla sua vista: è così bello, lui. Così bello che resterei tutta la mia vita a scrutarlo. Passa per il soggiorno, va dritto in cucina senza nemmeno girarsi a guardarmi, come se fossi un pezzo dell’arredamento. E, forse, è proprio questo che sono diventato: un soprammobile, niente di più, niente di meno. Mi alzo,  e lo trovo che sta bevendo da una bottiglia. Stavolta è costretto a far scivolare il suo sguardo su di me, ma i suoi occhi sono indifferenti, annoiati.

Sei una scocciatura: è questo che mi urla con ogni gesto, con ogni silenzio, con ogni sguardo. E io, testardo, mi ostino a non voler sentire. Voglio stare con lui, anche a costo di calpestare il mio orgoglio. Anzi, ormai l’ho già fatto. Ho rinunciato alla mia dignità pur di stargli accanto, in qualsiasi modo, con qualunque ruolo. Anche se questo volesse dire essere considerato meno di un soprammobile.

Non dico nulla, non faccio nulla. Semplicemente, resto sulla porta a guardarlo.

- Beh, cosa vuoi? – il suo tono infastidito mi apostrofa duramente.

Batto velocemente le palpebre, come se mi stessi risvegliando da una sorta di trance – Niente – rispondo immediatamente, quasi in automatico.

- E allora perché mi stai a fissare in quel modo fastidioso? –

Abbasso lo sguardo – Scusa – sussurro.

Chiudo gli occhi, cercando di concentrare tutto me stesso nell’ascoltare il battito del mio cuore. Tu tum. Sono stanco. Tu tum. Tanto stanco. Tu tum. Troppo.

Quanto ancora andrà avanti tutto questo? Fino a che punto dovrò arrivare? Quanto ancora mi dovrò umiliare per stare vicino a quest’uomo fiero e bellissimo? Affascinante e crudele? Quando finirò di scontare questa pena?

- …Rei, sto parlando con te, maledizione! –

Sussulto, e lo guardo di nuovo: il suo sguardo, adesso, è pieno di disgusto. Rabbrividisco sotto quelle iridi così intense.

- Scusa – ripeto,  a voce ancora più bassa di prima.

Lui sbuffa – Sei un idiota. Ti ho detto che stasera ho invitato degli amici, quindi devi preparare una cena perfetta. Sono stato chiaro? Non farmi fare brutta figura –

Annuisco in silenzio, mettendomi a contare il numero delle piastrelle del pavimento per non pensare a quello che sta succedendo, per non pensare a lui.

Shiki… lui… lui è tutta la mia vita.

 

Il chiasso che c’è in salotto mi riscalda un pochino il cuore: vedere il mio Shiki ridere mi fa sempre contento. E sembra che quei ragazzi che ha portato a casa stasera lo divertano tanto. Sembra che si trovi bene in loro compagnia. Sono felice per lui.

Sono in cucina, sto finendo di apparecchiare la tavola. Questa sera siamo in sette: noi due e loro cinque. Quattro sono ragazzi, mentre una è una donna. E’ bellissima, quella ragazza. Nonostante io non sia attratto dal genere femminile, la bellezza oggettiva di quella creatura ha colpito a fondo anche me. Istintivamente, ho pensato: ecco, una così dovrebbe stare con Shiki. Una che sia alla sua altezza, non qualcuno di insignificante come me. Sono troppo poco per lui, l’ho sempre saputo, in fondo. Questo pensiero mi fa male, ma non posso nascondere la verità che racchiude.

Li chiamo, e ci mettiamo tutti a tavola. Mi sento quasi come un miracolato ad essere ammesso a quella tavolata di gente almeno tre gradini più su di me, mi sembra che da un momento all’altro qualcuno si debba girare verso di me e mi dovesse dire con faccia perplessa: “E tu che ci fai qua? Chi ti ha invitato?”

La conversazione procede spedita fra loro, io rimango sempre in silenzio, guardando di sottecchi Shiki. Sembra un’altra persona, completamente diverso dal ragazzo freddo e composto che conosco io: adesso è allegro, spontaneo, solare. Persino durante il sesso non sento un solo gemito provenire da lui: mi accorgo che è venuto solo quando sento il suo seme dentro di me. Invece adesso ride ad alta voce, scherza, si prende in giro.

Poi, un particolare cattura la mia attenzione. E’ seduto vicino a Xinthia, la ragazza, e la mano destra di lui e quella sinistra di lei sono sotto il tavolo. Nonostante entrambi parlino animatamente, quelle mani non si muovono mai. Mi tiro leggermente indietro, e quello che vedo mi raggela: tengono le mani intrecciate sotto il tavolo. Mi cade la forchetta di mano, e il fragore dell’impatto interrompe i discorsi, mentre tutti gli sguardi si focalizzano su di me, quasi si fossero ricordati in quel momento della mia esistenza. Sento lo sguardo di Shiki attraversarmi furente.

- I-io… - balbetto confusamente, cercando disperatamente di riprendere il controllo di me stesso – Mi è caduta la forchetta, scusate – soffio, ad un volume bassissimo.

Il resto della serata è una pena: sento appena il fragore delle risate, il suono dei discorsi. All’improvviso mi alzo da tavola, sussurro un “torno subito”, e mi dileguo. Scappo in bagno, mi chiudo la porta alle spalle. Il freddo della stanza mi avvolge, ed io, senza nemmeno accorgermene, scivolo lungo la porta, fino a ritrovarmi seduto per terra. Il mio viso è perfettamente impassibile, i miei occhi non si sciolgono in nessun patetico pianto. Con una mano sola tasto il mobiletto accanto a me, apro il piccolo cassetto e cerco quello che trovo. Non appena le mie dita sfiorano la lama, il mio cuore sembra acquietarsi un pochino.

Da quanto lo faccio? Saranno cinque anni ormai.

Lui non se ne è mai accorto, mi attraversa con lo sguardo, io non esisto. Mi alzo la manica del braccio destro, appoggio la lama, poi tiro ed affondo. Il dolore che mi attraversa mi fa sentire meglio, così come la sensazione del sangue vermiglio che lentamente affiora, si condensa in piccole goccioline e poi scorre sulla mia pelle sempre troppo pallida. Uno, due, tre tagli. Non riesco più a fermarmi, ho perso il controllo.

Mezz’ora dopo, il mio avambraccio destro è completamente dilaniato. Quasi in preda alla febbre, alzo la manica dell’altro avambraccio, e compio lo stesso gesto. Non sento nemmeno il dolore, solo l’estrema pace che mi avvolge, da solo, in quella stanza fredda, con le risate degli altri che mi giungono solo come lontanissimi echi.

Un solo sospiro lamentoso mi sfugge dalle labbra nello stesso istante in cui le mie dita non riescono più a tenere la lama, e questa scivola silenziosamente a terra. Sento vagamente qualcosa di viscoso che mi rende le mani appiccicose, e immagino che sia sangue. Tuttavia, so che non morirò: le ferite sono tante, ma sono superficiali. Una risata bassa e stanca vibra nell’aria. Non posso continuare così. Non posso più, non ce la faccio.

All’improvviso sento qualcuno bussare alla porta, ma non rispondo. Sarà uno di quei suoi maledettissimi amici: se non riceverà risposta, semplicemente andrà nei servizi del piano superiore. Escludo dalla mia mente quel suono, e ritorno al mio stato semicatatonico.

Tuttavia, un quarto d’ora dopo, mi accorgo che quel suono si è fatto più forte e insistente, ed è accompagnato da una voce urlante.

- Rei, apri questa cazzo di porta, adesso! –

E’… Shiki.

Mi vengono gli occhi lucidi: si è ricordato di me? Vorrei rispondergli e alzarmi, ma al momento me ne manca la forza. Lotto con tutto me stesso, e alla fine mi alzo faticosamente in piedi. Il dolore alle braccia mi trafigge, terribile, ad ondate regolari. Mi mordo le labbra dalla sofferenza che apro per aprire: faccio in modo che di me si veda solo il viso, sperando che non sia eccessivamente pallido. E lo vedo: capelli neri lucenti e ribelli come al solito, pelle perfetta, lineamenti divini, occhi blu-viola che mi scrutano.

- Che stavi facendo? –

- Scusa – mormoro – Mi sono addormentato, sono molto stanco –

Le sue labbra si piegano in una smorfia di disprezzo che mi spezza il cuore già malandato, poi, proprio mentre fa per andarsene, si ferma di botto. Si rigira verso di me, ma stavolta i suoi occhi sono perplessi.

- Rei, hai l’acqua aperta? –

Senza capire, scuoto la testa – No, perché? –

I suoi occhi si stringono, e torna verso di me – E allora cosa sta gocciolando? Sento il rumore –

Mi maledico mille volte: è il sangue che scivola dalle mie ferite aperte al pavimento.

- Non lo so, sarà in cucina – cerco di sviare.

Lui stavolta si arrabbia – Ma mi hai preso per un deficiente? Il rumore viene dal bagno, quindi apri questa porta e fammi vedere cosa sta gocciolando! –

Apro la bocca, ma non riesco ad emettere un suono. Lui diventa ancora più furente, così mi spinge malamente di lato e apre la porta a forza. Io, già piuttosto debole, cado a terra immediatamente gemendo di dolore, e chiudo gli occhi per non vedere la sua reazione, per non vedere il disprezzo nei suoi occhi. Li stringo forte, aspettando che mi urli il suo disgusto. Sento il suo sguardo su di me, so che mi sta squadrando, ma non voglio leggere i suoi pensieri per me. Ho la netta sensazione che mi farebbero troppo male.

Ma non succede niente, e il silenzio si protrae, insopportabile. Apro gli occhi solo quando sento i suoi passi allontanarsi. Esce dal bagno, si chiude la porta alle spalle e gira la chiave, chiudendomi dentro. Due minuti dopo avverto un gran baccano in cucina, e la porta d’ingresso sbattere violentemente. Non riesco a capire cosa stia succedendo, e il dolore che mi annebbia il cervello non mi aiuta per niente. Appoggio la testa alle fredde piastrelle, rinunciando ad oppormi agli eventi. Magari ha intenzioni di lasciarmi qui a morire di fame. Chissà. Sto sragionando e me ne rendo conto. Un minuto dopo sento un forte botto provenire dal soggiorno, e il cuore mi salta in gola, perché ho il presentimento che sia stato Shiki. Piomba di nuovo il silenzio. Cerco con le dita la lametta, ma mi accorgo che non c’è più: deve averla portata via lui senza che io me ne accorgessi. Questo suo piccolo pensiero nei miei confronti mi fa di nuovo venire gli occhi lucidi, ma stringo le labbra e resisto: piangere non serve a nulla. Non serve assolutamente a niente. Passano altri lunghissimi minuti. Dopo quelli che a me sembrano secoli, ma che potrebbero essere anche solo pochi secondi, sento la serratura scattare di nuovo e la porta aprirsi. Stavolta  tengo gli occhi aperti: voglio capire che sta succedendo, anche se questo volesse dire distruggere l’ultima parte di me. Lui entra con passo misurato, non mi guarda, si siede sul pavimento accanto a me. Si passa una mano fra i capelli con un gesto stanco.

- Te ne devi andare, Rei – dice soltanto.

Sento il mio cuore mancare un battito.

- No, ti prego, no… non succederà più, te lo prometto – comincio a farfugliare, e mi rendo conto che, implorandolo così, ho appena gettato al vento il mio ultimo briciolo di orgoglio.

- Devi andare –

- Non mi mandare via, ti scongiuro –

Si gira verso di me, e i suoi occhi mi trapassano con la loro intensità. Sono intensi, ma intensi di preoccupazione. Brucianti di dolore.

- Se non vai via, finirò per ucciderti, lo capisci? –

Non ce la faccio più: scoppio a piangere, senza riuscire a trattenermi, senza riuscire a fare niente, a ribattere niente.

- Shiki… - con le mie poche forze gli afferro un braccio, costringendolo a guardarmi – Tu mi ami? Mi ami? Anche solo un pochino? –

Il silenzio è la risposta più eloquente. I suoi occhi compassionevoli sono la risposta più eloquente. Lo sapevo, certo. Ma avevo sperato fino all’ultimo che qualcosa ci fosse, in fondo al suo cuore. Avevo sperato fino alla fine di essermi ricavato uno spazio anche piccolissimo dentro di lui.

Questa è, infine, la risposta.

E oggi, esco dalla sua vita per sempre.

Silenzioso vi ero entrato, altrettanto silenziosamente sparisco.

Semplicemente, domani, si sveglierà, e non mi troverà accanto a lui.

 

Dieci anni dopo…

Da quel giorno, adesso, sono passati quasi dieci anni. Sono seduto su una panchina di questo giardino verdissimo. Mi guardo intorno, poi il mio occhio cade sui miei polsi, fasciati strettamente. Sono stato dimesso appena un mese fa dopo l’ennesimo tentativo di suicidio da me perpetrato. Quante volte, in questi anni, ci ho provato? Almeno sette volte. I miei genitori, poverini, sono esausti. Non ce la fanno più. Ormai sono adulto, ho quasi ventotto anni, ma non riesco a smettere di pensare a quel giorno in cui tutto è finito. Shiki, Shiki era la mia vita, e lo è ancora, nonostante io non riesca più a sostenere il peso di quest’esistenza ormai gravosa, per me. Reclino leggermente il capo chiudendo gli occhi, lasciando che il sole baci la mia pelle ancora sempre troppo pallida.

- Shiki – sussurro. Il suo nome è dolcissimo da pronunciare. Che sia tra i singhiozzi, nel sonno, o esalando l’ultimo respiro prima del buio, questo nome porta con sé una ventata di gioia e di dolore, di amore e disperazione, di adorazione e abnegazione.

Tuttavia, stavolta, il silenzio intorno a me mi risponde.

- Rei – è un sussurro appena mormorato, ma basta a farmi riaprire gli occhi di scatto.

E me lo ritrovo davanti: bello come dieci anni fa, forse ancora di più, troppo splendente per i miei occhi indegni di guardarlo. Ammutolisco mentre lui mi guarda, e il suo sguardo scivola inevitabilmente sui miei polsi fasciati, che cerco inutilmente di nascondere tirando giù le maniche della maglietta che porto.

Abbasso lo sguardo, come ho sempre fatto: sembra che in questi anni non sia cambiato proprio niente.

Lui è il sole, io la talpa. Come sempre.

- Ciao, Rei –

- Ciao – sussurro – Che ci fai qui? –

- Mi hanno chiamato i tuoi genitori – risponde pacatamente.

Mi sento improvvisamente a disagio – Non era necessario, me la so cavare benissimo da solo – soffio.

Si siede accanto a me – Sul serio? Allora quand’è che mi farai conoscere il tuo ragazzo? Sono passati dieci anni, ormai, starai sicuramente con qualcuno –

- Io… al momento non ho voglia di avere relazioni – farfuglio a bassa voce.

Lo sento prendermi le mani, e mi manca il respiro per parecchi secondi. Lo guardo faticosamente negli occhi.

- Mi sei mancato – scoppia a ridere amaramente – Ti ho mandato via, e poi mi sono accorto che senza di te non valevo niente. Sono patetico, vero? –

Le sue mani mi accarezzano dolcemente i polsi – Guarda cosa ti ho fatto – sussurrò – Ringrazio Dio di non avermi fatto arrivare troppo tardi. Non me lo sarei mai perdonato, Rei –

- Io non capisco, Shiki –

- Io ti amo. Credo, in realtà, di averti sempre amato. Ma volevo vedere fino a che punto saresti arrivato, fino a quando mi avresti perdonato, e così ti ho perso. Sono stupido, vero? Quando, quella mattina, svegliandomi, non ti ho trovato, mi sono sentito malissimo –

 Non riesco a trattenere le lacrime – Dimmi che non stai scherzando, dimmi che sei serio – singhiozzo.

Anche lui ha gli occhi parecchio lucidi, ma riesce a controllarsi – Sei sempre uno stupido –

Mi abbraccia fortissimo, poi mi bacia.

Uno di quei baci dolci, senza secondi fini, come da quel giorno mi da ogni attimo.

 

******

 

- Ehi, amico, sai dov’è la via per la felicità? –

Una semplice domanda, una difficile risposta.

Ma, prima che me ne accorgessi,

avevo già trovato la mia risposta.

 

- Si, amico, lo so. E’ lui la via per la felicità -

   
 
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