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Autore: RubyChubb    06/03/2010    1 recensioni
La classe scoppiò in un boato di risate, cosa più tipica della neve d’inverno, e i tre fecero finta di non aver sentito. La loro vita era in quel modo da quando i loro genitori li avevano messi al mondo, c’erano più che abituati. Danny era il parafulmine, quello a cui venivano scoccate le prime frecce; dopo di lui, veniva direttamente Tom, detto anche FletChin, per via della prominenza del suo mento, ed infine Dougie, più propriamente definito Handjob Station. Tutti quei soprannomi avevano il copyright Made in Judd, ovviamente, era stato lui ad averli inventati. Quello stronzo se lo erano portati dietro dal primo anno di scuola elementare, non potevano liberarsene fino al termine di quell’ultimo anno scolastico di liceo. Eppure, in fin dei conti Danny lo invidiava un po’. Aveva una vita facile, piaceva alle ragazze ed aveva tutto quello che voleva. Se ne fregava dei voti, del suo futuro, aveva il papà che lo aspettava a braccia aperte.
Sentì qualcosa bussare alle sue spalle e si voltò verso Dougie. Con un gesto veloce del dito indice il suo amico gli indicò la porta.
Oh no… Ci risiamo.
Genere: Romantico, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 7


‘Cause the heart never lies


Non c'era bisogno di possedere il dono fortuito della lettura del pensiero femminile per capire che Alicia aveva qualcosa che non andava. Ad essere sincero, Alicia aveva sempre avuto qualcosa che non andava per il verso giusto. Era venerdì sera, lei e Danny avevano chiuso i libri e stavano guardando gli ultimi cinque minuti di una sit-com che piaceva da morire ad entrambi. Quella volta, però, ad Alicia non era mai sfuggita una risata, tranne che in qualche sporadica occasione. Danny aveva già chiesto spiegazionie, ma era venuto fuori il solito ‘non ti preoccupare, sto bene’.  Era dallo scorso fine settimana che gli mentiva spudoratamente, si sentiva preso in giro ma non era capace di arrabbiarsi con lei. Forse avrebbe dovuto farlo, almeno per il suo bene, ma piuttosto che litigare con Alicia avrebbe preferito vivere in quella sorta di limbo per sempre. La sua mano sostava sulla spalla di lei e andò ad accarezzarle i capelli. Sperava che quei piccoli gesti la aiutassero ad aprirsi con lui ma ogni volta sembravano del tutto inutili.
“Pronta per il viaggio?”, le chiese, poi le baciò i capelli scuri.
“Non molto.”, rispose lei.
Danny attese che quel suo piccolo amo raccogliesse anche un’alga, al massimo un vecchio scarpone.
“Sarei dovuta partire oggi.”
Strabuzzò gli occhi.
“Oggi?!?”, le fece.
“Sì, hai capito perfettamente bene.”, disse Alicia, “Avrei dovuto prendere il volo alle dieci di questa mattina, ma non sono partita…”
“E… E perché?”, chiese Danny, ancora del tutto scioccato.
“Te l’ho già detto. Voglio andare al concerto! E anche se so che non lo farò, potrò almeno avere del tempo tutto per me.”
Non era possibile.
“Ma… Allie, perché hai buttato al vento questa opportunità?”
“Opportunità?”
Il tono risentito fu accompagnato da un rapido liberarsi dal suo abbraccio: Alicia fu presto in piedi, già con le mani sulla sua borsa, pronta per andarsene.
“Quel viaggio non era un’opportunità, era un suicidio.”, disse, infilandosi frettolosamente il sui giubbotto di pelle.
“Dove vai?”, le chiese Danny, allarmato.
“A casa.”, rispose Alicia, seccamente, “Non sono di buon umore.”
“Calmati, potremmo parlarne.”, cercò di convincerla ma conosceva la sua testardaggine.
“No, non adesso.”, si oppose subito lei, “Non ne ho voglia.”
“Ma Allie… Io volevo solo…”
“E non chiamarmi Allie!”, sbottò lei
Le sue mani guizzarono verso la testa e tapparono le orecchie, per poi cadere lungo i fianchi con la medesima rapida velocità.
“Non lo sopporto!”

Danny si ritrasse impaurito. La reazione di Alicia lo stava mettendo letteralmente fuori gioco e non sapeva come arginare la sua rabbia. Avrebbe voluto fermarla, afferrarla per le braccia ed imporle di calmarsi, di ragionare, di parlargli. Non ce la faceva, aveva troppo timore di quello che lei avrebbe potuto riversargli addosso.
“O-ok… Va bene.”, le disse, annuendo a volto basso.
“Va bene!”, ripeté lei, senza diminuire di un tono la sua voce.
Aveva anche paura di guardarla, si sentiva pateticamente cretino. Era la sua ragazza, doveva sapere come farla stare bene, ma invece se ne rimaneva lì, con le mani in tasca, superfluo come un palo della luce con la lampadina rotta. Alicia era in piedi, a pochi passi dalla porta, pronta per andarsene e dimostrargli quanto potesse esserle inutile. In tutta quella settimana Danny non aveva fatto altro che notare la sua stranezza, niente di più, non aveva mosso un dito.
Poi Alicia passò una mano tra i capelli e prese un profondo respiro.
“Scusami…”, disse, “Ho solo… Bisogno di dormire…”
“Vuoi che ti accompagni a casa?”, le propose, “Lasci qui l’auto e ritorni a prenderla domani.”
Alicia lo guardò con occhi stanchi.
“Jones, sono venuta in taxi.”, disse lei, “Mio padre ha nascosto le chiavi dell’auto.”
“Ah… Ma se vuoi, io…”
“Non ti preoccupare. Adesso chiamo e mi faccio venire a prendere.”
“Come vuoi.”
Alicia scosse la testa ed incrociò le braccia.
“E’ sempre tutto come voglio io.”, disse poi.
“Che… Che vuoi dire?”
“Non ti opponi mai a quello che voglio, lo fai perché hai paura di me, non è così?”
Danny si sentì pietrificare.
“Ho davvero bisogno di andarmene e di dormire.”, si riprese subito Alicia, “Buonanotte Jones e scusa per la brutta serata.”
Aveva già aperto la porta. Prima che Alicia potesse uscire, la mano di Danny bloccò il legno e lo costrinse a tornare al suo posto, lineare con la parete. La serratura si chiuse di nuovo, Alicia non aveva permesso di uscire, non in quel modo.
“Non voglio farti dormire da sola.”, le disse con voce sicura e sguardo fermo, “Per stanotte rimani qua, mi sposto nel salotto.”
Lei scosse subito la testa.
“Non se ne parla.”, disse Alicia.
“No.”
Voleva vederla piegarsi, finora era stato lui a farlo ed Alicia se n’era giust’appunto lamentata.
“Rimani qua.”, le disse, sempre nel medesimo tono tranquillo, “Non posso stare tranquillo sapendo che sei completamente sola.”
“Non sarebbe la prima volta.”
“Alicia, resta. Non mi creerai nessun tipo di problema.”
“No.”
Danny strinse gli occhi e si toccò la radice del naso, stava perdendo la pazienza come raramente gli era capitato prima e non andava bene. No, non andava assolutamente bene.
“Perché non mi lasci andare?”, domandò lei, incrociando le braccia e assumendo un’espressione irritante e supponente.
C’erano mille milioni di risposte a quella domanda così stupida ed infantile. Doveva rimanere perché era inconcepibile che dormisse da sola, senza nessuno pronto a soccorrerla se avesse avuto bisogno di aiuto. Doveva farlo perché non era altrettanto comprensibile il motivo per cui non avesse voluto unirsi alla sua famiglia, preferendo abitare per una settimana in una casa completamente vuota e spoglia. Lui sarebbe impazzito.
“Non voglio che ti accada niente di male.”, le rispose fluidamente, “Qua dentro sei al sicuro, ci sono io. Sarò solamente al piano di sotto, se avrai bisogno di me basterà chiamare…”
Vide le sue certezze infrangesi nel suo sguardo.



Kathy rimase piacevolmente sorpresa nel saperla sua ospite per quella notte, tanto che si preoccupò subito di darle asciugamani puliti e cambiare le lenzuola del letto del figlio. Vicky le concesse tranquillamente di usare il suo bagno: ce n’erano due al piano superiore ed uno di quelli era totalmente suo, mentre l’altro era condiviso tra sua madre e suo fratello, che non ne avevano tanto bisogno quanto lei. Oltretutto le prestò anche un suo pigiama ed un paio di comode pantofole, mentre Jones si preparò il divano letto in soggiorno. Tutto quel trambusto per una sola notte da loro, Alicia non avrebbe accettato di pesare per una sera di più. Jones poteva opporsi quanto voleva, poteva toccare tutti i suoi punti deboli per costringerla a rimanere, ma sarebbe stato per una sola notte.
Una sola notte…
Si sentiva stranamente bene sotto quelle coperte, completamente diverse da quelle a due piazze che la scaldavano ogni notte. Avrebbe potuto chiudere gli occhi e ricordarsi i particolari lontani e sfuocati di quando abitava nella comoda villetta dalla facciata rossa, con un grande giardino sul retro, pieno della confusione dei suoi giocattoli lasciati in giro, e che aveva dovuto abbandonare pochi mesi dopo che sua madre l’aveva lasciata.
Si sentiva così tanto a casa che le sembrava di aver sempre vissuto lì, e mai da nessuna altra parte. La sua famiglia erano i Jones e dentro quelle quattro mura non esistevano secondi matrimoni, fratellastri o padri ciechi. C’era solo lei, il calore della stanza in cui stava per addormentarsi e tante persone che le volevano bene, dalla prima all’ultima, incondizionatamente. Il comodo pigiama che indossava non era di Vicky, ma suo, glielo aveva regalato mamma Kathy qualche anno prima. Aveva addirittura litigato con suo fratello, Jones, per appropriarsi di quel poster alle sue spalle. Era stata a tutti i concerti del Boss, senza mancarne uno per colpa di stupide vacanze piene di falsi sorrisi e  divertimenti vuoti.
Alicia aprì gli occhi e tutte quelle bellissime fantasie volarono via. Si distese su un fianco e osservò la parete bianca davanti a lei, il letto la costeggiava per tutta la propria lunghezza. Notò dei minuscoli segni, come se la vernice fosse stata grattata via: d’istinto, premette l’unghia contro al muro e lasciò una piccola traccia, piccola piccola, che quasi non si vedeva.
Almeno questa casa si ricorderà di me…
Sarebbe rimasta una sola notte, ma avrebbe voluto farlo per tutta la vita.
Tre colpi alla porta la distrassero ed Alicia si pose seduta.

“Posso entrare?”, le domandò Jones.
“Certo.”, rispose lei, che ancora non aveva spento la piccola lampadina sul comodino alla sua destra.
La porta scricchiolò ed il pigiama a righe di Jones fece ingresso nella stanza. Alicia rise sotto i baffi, vestito così sembrava suo nonno.
“Non ridere del mio pigiama.”, la colse Jones in flagrante, che le sorrideva poco offeso, “E’ comodo.”
“Figurati.”, gli rispose.
Le aveva portato un bicchiere d’acqua, cosa di cui non aveva bisogno, ma Alicia apprezzò comunque il pensiero. Erano quei piccoli gesti a fare una famiglia, si disse, non una grande casa piena di oggetti costosi, come la sua. Erano il buongiorno alla mattina, la cena consumata intorno al solito tavolo, i passi sul pavimento, i sorrisi prima di addormentarsi.
“Ecco a te.”, le disse, appoggiando il bicchiere sul comodino, “Non avrai sete, stanotte.”
“Grazie.”, gli sorrise.
“Per qualsiasi altra cosa…”, continuò lui, mostrandole il suo cellulare, “Fammi uno squillo, così non devi alzarti.”
“E così ti disturberò più di quanto non stia già facendo.”, lo corresse lei con aria ironica.
Danny si sedette sul bordo del suo letto e la prese per il naso.
“Dillo un’altra volta e lo staccherò.”, la minacciò.
“Prendilo pure.”, rispose Alicia con voce chiusa.
Invece di accontentarla, Danny la liberò e le dette un piccolo bacio a fior di labbra.
“Notte, a domani.”
“A domani…”, gli rispose.
Le sorrise un’ultima volta e la lasciò sola, chiudendo la porta dietro di sé. Alicia non tornò sotto le coperte finché non si spense anche la striscia di luce sotto al legno scricchiolante. Una volta che quella svanì, premette il pulsante della piccola abat-jour e aspettò di addormentarsi.

.*.*.*.


Le ci volle molto per realizzare che quello non era il suo letto e che i colori intorno a lei non appartenevano alla sua camera. Fu così che Alicia si ricordò di essersi piegata alle preghiere di Jones.
Non voglio che ti accada niente di male. Qua dentro sei al sicuro, ci sono io. 
Sbadigliò e si stiracchiò, cavolo se aveva dormito bene. Così bene che doveva essere mattina inoltrata, a guardare dalla luce potente del sole che si intrufolava tra le imposte della finestra. Controllò sullo schermo del telefono, erano più delle dieci. Fece un piccolo trillo al numero di Jones e, come se fosse stata una ricchissima signora d’oriente e lui il suo servetto personale, lo vide apparire sulla soglia della porta in trenta secondi netti.
Si era completamente cambiato, i vestiti che indossava non erano i soliti della sera precedente, doveva essersi intrufolato nella stanza mentre lei dormiva, ma la cosa non la disturbò affatto. Non era casa sua, e poi Jones non l’aveva nemmeno svegliata, aveva dormito così pesantemente che non avrebbe sentito nemmeno una fanfara che suonava in strada.
“Buongiorno.”, la salutò lui, “Ti sei riposata?”
“Certo…”, e sbadigliò ancora.
“Vuoi fare colazione?”
Controllò il suo stomaco e sentì di non avere nemmeno un briciolo di fame. Di solito, infatti, la colazione non era un pasto incluso tra i suoi istituzionali. Alicia scosse la testa.
“Qualcosa dovrai pur mettere nello stomaco.”, disse Jones, aprendo le tendine e la finestra.
“No, non ti preoccupare.”
Scansò le coperte e posò i piedi a terra, inforcando subito le pantofole.
“Cosa vuoi fare oggi?”, le domandò lui, incrociando le braccia.
Il suo corpo doveva ancora carburare ma la mente era stranamente già attiva.
“Non lo so…”, rispose, “Chiedimelo tra cinque minuti…”



Finirono al centro commerciale, accompagnati da una lunga lista della spesa firmata da Kathy. Tra un pacco di cornflakes e una flacone di detersivo per i piatti, il carrello si riempì anche delle loro risate. Era divertente fare la spesa, Alicia non era abituata a gesti del genere, c’era sempre stato qualcuno che aveva fatto tutto quello per la sua famiglia: dalla governante che si occupava della casa alla nonna May, fino a tutte le altre persone che suo padre aveva assunto con la speranza che avessero potuto badare sia alla casa che alla figlia dispettosa e viziata. Poteva sembrare assurdo ma Alicia non aveva mai dovuto spingere un carrello, né combattere con la scelta tra qualità e prezzo, ma soprattutto non aveva mai dovuto alzarsi sulle punte dei piedi per poter raggiungere i prodotti negli scaffali più alti.
“Non ci credo.”, le disse infatti Jones, che guidava il carrello, “Fare la spesa è una cosa normalissima! Tutti vanno nei supermercati a comprarsi le cose!”
“Beh… Io no.”, rispose lei, alzando le spalle e nascondendo le mani nella giacchetta, infreddolite dall’aria gelata del banco dei surgelati, “C’è sempre stata una persona che lo ha fatto per noi.”
Jones la guardò con occhi strani, Alicia non poté evitare di sentirsi aliena.
“E’ vero…”, ripeté ancora cercando di essere convincente, ma risultò soltanto patetica.
 “Mi sembra inconcepibile.” , disse allora Jones, “Tua madre non…”
Lo osservò mangiarsi le  parole e proseguire senza terminare il discorso.
“Mia madre cosa?”, lo esortò a parlare.
“No, niente…”, si negò lui, poi le mise sotto il naso una confezione di gelati, “Ti piacciono questi?”
“Sì, mi piacciono.”, rispose falsamente, “Però finisci il discorso.”
Danny sospirò.
“Dicevo… Tua madre… Non lo ha mai fatto?”, disse, “Voglio dire…”
“No, nemmeno mia madre.”, gli spiegò con tranquillità, “Né ho mai pulito la mia stanza, il bagno o il salotto.”
Era definitivo, doveva sembrargli una extraterrestre proveniente dalla galassia più lontana.
“Nonostante tutto, mio padre si è sempre potuto permettere di farsi pulire casa e riempire il frigorifero da qualcun’altra che non fosse stata mia madre o la sua seconda moglie.”
“Beh… Wow…”, disse lui, strabuzzando gli occhi, “Non sai quanto possa ritenerti fortunata!”
Alicia aggrottò la fronte.
“Fare la spesa è di una noia assoluta… E odio lavare i piatti!”, esclamò Jones.
La fece ridere. La fece decisamente ridere.



Si concessero uno strappo alla regola ed andarono al parco durante quel sabato pomeriggio. Non avevano avuto voglia di studiare, sebbene il lunedì successivo sarebbero stati entrambi interrogati rispettivamente in letteratura e chimica. Così, dopo aver riconsegnato la spesa, mangiarono al fast food dove erano stati altre volte, quello vicino al cinema; poi, si distesero al parco, in attesa di aver digerito abbastanza per giocare un po’ a pallone.
Il tepore del sole li scaldava fin dentro le ossa, riempiendoli di una dolce sensazione di quasi primavera, cosa piuttosto rara da quelle parti, dove il tempo regalava spesso nuvole e umidità. La televisione lo diceva già da un pezzo, quell’anno sarebbe stato più caldo di tutti gli altri e gli effetti si stavano facendo già sentire. Era così piacevole starsene distesi in silenzio che per ciò che Alicia poteva osservare dal movimento lento e regolare del suo petto, Jones si era sicuramente addormentato accanto a lei. Non doveva aver riposato a sufficienza su quel divano letto, tutta per colpa sua, e se ne rammaricò.
Notò gli occhiali spostarsi di qualche millimetro: Alicia li tolse con cautela, Jones li aveva appesi tra un asola e un’altra, e provò ad indossarli. Il suo ragazzo non era una talpa: tutto sommato lei, che aveva la vista piena, riusciva a vedere piuttosto bene anche con quelle lenti., che le erano sembrate molto più spesse. Lasciò gli occhiali in un posto più sicuro e si sistemò vicino a lui, dove sperò che si sarebbe presto addormentata.
Prima di chiudere gli occhi si pose in riflessione. Stava insieme a Jones da quasi un mese, Alicia fece un rapido calcolo dei giorni che ancora mancavano allo scoccare di quella ricorrenza.
Se non ricordo male…
Contò i giorni sulla punta delle dita e si rese conto che quello che stava attualmente vivendo distava esattamente trenta giorni da quello precedente. Nessuno dei due se n’era ricordato, ma non era poi così importante… Doveva ammetterlo, un po’ le dispiaceva, ma cosa poteva farci?
Non se lo è ricordato perché non è Ratleg.
Alicia sbuffò pesantemente.
Ratleg se lo sarebbe ricordato.
Avrebbe potuto rammentarlo personalmente a Jones, non sarebbe cambiato niente.

Ma Ratleg avrebbe preparato qualcosa di speciale.
Allora lo avrebbe fatto lei.
Che cosa aveva Jones che non andava? Assolutamente niente. La faceva ridere, le stava accanto e la riempiva di attenzioni, era dolce. L’aveva fatta sentire a casa sua dentro mura che non le appartenevano, protetta da ogni pericolo. Perché la sua mente doveva quindi continuare a porle quella cazzo di domanda?
“Alicia?”, si sentì chiamare.
Voltò il viso verso Jones, che si era svegliato, e gli dette un piccolo bacio sulle labbra. Lui sorrise e chiuse di nuovo gli occhi, dopo averle circondato i fianchi con un braccio. Alicia osservò tutte le lentiggini che macchiavano la sua pelle e le trovò divertenti, tanto che passò la punta del proprio dito con delicatezza sul suo braccio.
“Mi fai il solletico…”, le disse Jones, senza tradire il suo stato semi-dormiente.
“Anche qui?”, gli chiese.
Un attimo dopo Jones rideva sotto il formicolio che le sue dita veloci gli provocavano ovunque. Sotto le braccia, sul collo, sulla pancia.
“Smettila!”, esclamava lui cercando di allontanarla, ma non faceva altro che farla avvicinare di più.
Le piaceva sentirlo ridere.
E comunque non è Ratleg…
Prima che quel pensiero la tradisse, le sue mani vennero bloccate dalla presa decisa di Jones, che le unì sopra la sua testa. Respirava con affanno e non aveva ancora finito di ridere.
“Basta, te l’ho detto!”, le disse, “Non mi piace il solletico!”
Alicia non riuscì a liberarsi, non aveva forza a sufficienza per sopraffare Jones, tanto che si arrese. Erano entrambi piuttosto accaldati, il sole ed il solletico avevano colorato le loro guance di un tono piuttosto intenso. Alicia non sentiva il peso del corpo di Jones sopra il suo, sebbene riuscisse a percepirlo pienamente, era come se non la disturbasse affatto. Le venne di baciarlo, le loro labbra produssero uno schiocco altisonante. Lui le sorrise, poi le lasciò finalmente le mani: le dita percorsero il suo mento, si infilarono tra i capelli.
“Oggi è esattamente un mese che stiamo insieme.”, le disse, interrompendosi.
Alicia non trattenne un sorriso.
“Lo so.”
“E martedì ci sarà il concerto.”, continuò Jones.
Quella non era una notizia altrettanto bella.
“So anche questo.”, gli disse, “Mi racconterai com’è stato…”
“Ti voglio con me.”
Non nascose a se stessa che quella frase l’aveva fatta più felice di qualsiasi altra notizia, ma non poteva accettare.
“No, quei biglietti sono per te e Vicky.”
“Si accontenterà di rimanere a casa.”, disse Jones, “E non farà molte storie.”
Non ce la faceva a trattenersi, Alicia lo abbracciò più forte che poté. La sua resistenza era stata piuttosto effimera.
“Era il minimo che potessi fare.”, continuò Danny, stretto nella sua morsa.
Anche le parole che gli disse furono difficili da tacere.
“Ti voglio bene.”
Le guance di Jones diventarono di quel particolare viola che era tipico di lui. Il contrasto che si creava con i suoi occhi profondamente blu era sempre piacevolmente buffo e carino.
“T-ti voglio bene anch’io.”, le rispose.
Non è Ratleg. 
Infatti, fino a prova contraria Daniel Jones e Daniel Ratleg non erano la stessa persona, sebbene avessero avuto lo stesso nome.
Quindi vaffaculo.
“Inoltre, vorrei che rimanessi da me finché i tuoi non tornano.”, aggiunse Jones, “ Puoi restare quanto vuoi, mia mamma non ha niente in contrario. Anzi, dice di essere meno in pensiero sapendoti a casa nostra, e non da sola. Sempre che a tuo padre vada bene, ma soprattutto che tu sia d’accordo…”
Non era il caso di approfittarsi di tutte le sue attenzioni, ma Alicia voleva vivere quel momento, quelle sensazioni di famiglia e di affetto che le mancavano da anni, ormai.
“Certo, siamo entrambi favorevoli.”
Che bugia grande e grossa, si disse Alicia, che non sentiva suo padre dal giorno precedente, quando era partito accompagnato dalla bella moglie e dal figliastro, del quale erano tanto orgogliosi. Jones non riconobbe il falso e le sorrise contento.
“Quando decidiamo di andarcene da qui, ti accompagno a prendere le tue cose.”, le disse ancora, prima di darle un bacio, seguito da molti altri.
Jones aveva un modo tutto suo di baciarla. Non riusciva a farlo senza toccarle il viso, scorrere le dita sulle guance fino al collo e poi nei capelli, come se tenendole il volto tra le mani avesse potuto assicurarsi che non gli fuggisse da sotto il suo naso. Tra le sue belle mani. Erano grandi e forti, eppure sembravano innocenti ed innocue. Jones le usava per gesticolare mentre parlava, per indicarle le formule quando le spiegava la matematica, per tenere con fermezza la penna tra le dita mancine, per coprirsi la bocca quando rideva sguaiatamente, o quando sbadigliava. Per accarezzarla, per sottolineare i suoi baci.
Quella volta però, c’era qualcosa di diverso. Alicia lo sentiva, c’era qualcosa di più… C’erano il fare a meno di respirare, il corpo di Jones sopra il suo, il calore che nasceva dentro di lei. C’erano le mani di lui che erano andate oltre il suo viso ed erano scese fino ai suoi fianchi, sostando sui pochi centimetri di pelle libera dalla maglietta che indossava. C’era che baci del genere non erano facili da gestire.
In quei baci c’era tutto, c’era anche…  Quello.
Alicia non pensava, non ci riusciva, sentiva un solo istinto dentro di lei che non aveva mai provato prima e che non conosceva. La spaventava, ma non era in grado di fermarsi. Era come giocare con il fuoco ben sapendo che si sarebbe scottata, e voleva scottarsi. Una musica lontana suonò nelle sue orecchie e non le dette ascolto. L’unica cosa che sentiva era il caldo delle dita di Jones, il freddo che lasciavano sulla poca pelle nuda quando si spostavano altrove sul suo addome, anche se per soli pochi millimetri. Poteva percepire anche tantissimi altri tipi di calore, provenienti dai loro corpi.
La musica si fece sempre più vicina, così tanto che entrambi furono costretti a fermarsi. Si guardarono negli occhi, i loro volti dimostravano tutti i segni dello stupore di chi si svegliava da una specie di vita telecomandata dall’alto.
“Ehm… Il mio… Telefono.”, balbettò Jones.
Rapidamente la liberò dal suo peso e si mise seduto.
“Pronto?”, disse al suo interlucotore, “Ah… Dougie… No, nessun disturbo.”



Cosa stai facendo?”, gli domandò Poynter con voce squillante.
Cosa stava facendo? Bella domanda. Stava cercando di farsi passare una sbandata pazzesca, le peggiore che aveva mai avuto da una vita a quella parte. Cercò la concentrazione che non era capace di trovare in nessun luogo di se stesso e prese il tempo per rispondergli.
“Beh… Sono con Alicia.”, gli disse.
Oh… Cazzo, allora vi ho disturbato davvero...
“Ma no, andiamo!”, volle tranquillizzarlo, “Cosa vuoi da me?”
Solita ora, solito posto?”, propose Dougie, intendendo il biliardo al pub di sua madre.
“Volentieri.”, gli rispose, “Si aggiungerà anche Alicia, non è un problema, vero?”
Supponeva di aver posto una domanda retorica, ma si sbagliava.
Sì che lo è!”, esclamò Dougie, “E’ la serata del trio!
Danny roteò gli occhi e cercò di mascherare la rispostaccia ricevuta.
“In questi giorni Alicia sta da me, i suoi non ci sono.”, gli spiegò.
Chi se ne frega! Lei sta fuori!
Non seppe come reagire e se ne stette in silenzio, troppo amareggiato dalle parole di Dougie.
“Ci troviamo al solito posto alla solita ora.”, disse poi, interrompendo il silenzio di entrambi.
Non ci saremo. Ciao.
Allontanò il telefono senza distogliere gli occhi dal vuoto in cui li aveva puntati.
“Biliardo stasera?”, disse Alicia, sbucando sulla sua spalla.
Gli fece quasi paura.
“Sì, con Tom e Dougie.”, le rispose, celando tutto.
“Bene!”, esclamò lei, sembrava contenta e il suo sorriso lo rilassò.
Se Dougie non avesse disturbato, forse Danny avrebbe perso la testa. Si corresse, l’aveva già persa. Per lei. Non sapeva quale specie di entità si fosse impossessata di lui, ma gli effetti erano ancora piuttosto visibili. La spina di collegamento tra cervello e corpo era stata completamente disconnessa, ogni parte di lui aveva acquisito autonomia ed indipendenza, tanto che tuttora faceva fatica a coordinarsi.
Forse era accaduto per la prolungata esposizione alla vista di Alicia, forse per il calore di quella giornata quasi primaverile… Non lo sapeva, ma le conseguenze stavano lentamente allentando la pressione del sangue nelle sue vene. Presto avrebbe riacquistato ogni sua capacità intellettiva e corporea, ma per il momento si trovava ancora in un purgatorio dove i diavoli continuavano a spingerlo verso l’inferno. Un posto estremamente profondo dove non esisteva niente, tranne sensazioni intime e a lui sconosciute, che lo avevano guidato in ogni mossa ed in ogni bacio. In quell’inferno era diventato cieco, aveva dovuto imparare ad ascoltare se stesso per sapere dove andare, e come arrivarci.
“Giochiamo un po’?”, gli chiese Alicia.
Rispose subito di sì, doveva scrollarsi di dosso quei pensieri.



Non si sentiva contento di quello che le stava proponendo per il loro primo mese insieme, ma c’erano stati troppi cambiamenti di programma. Aveva supposto di trovarle qualcosa di carino da regalarle mentre lei era via in vacanza, ma tutto era saltato. Era addirittura caduto dalle nuvole quando Alicia gli aveva rivelato di non essere partita con i suoi: non era mai stata chiara sul giorno esatto in cui avrebbe preso il volo per Stoccolma e Danny aveva ritenuto opportuno attendere maggiori e spontanee informazioni da parte sua, piuttosto che domandargliele di persona, come ogni essere umano dotato di un quoziente intellettivo nella norma avrebbe fatto.
Avrebbe potuto portarla a cena fuori, ma non ci aveva pensato. Avrebbe potuto accompagnarla in un negozio e farle scegliere ciò che voleva, ma era un pensiero troppo astratto. Insomma, si sentiva un perfetto idiota: le aveva regalato solo una cena con la sua famiglia, un tetto sotto il quale passare delle notti al sicuro e una partita di biliardo.
Che bel programma del cazzo.
Le aprì la porta del pub e le cedette il passo. Il calore umano che riempiva il locale gli entrò subito nelle ossa: era cresciuto lì dentro, vi aveva passato alcuni splendidi e divertenti momenti all’insegna del trio e non esisteva altro locale a Watford dove preferiva passare il suo tempo libero.
“Vieni, ti presento la mamma di Poynter.”, disse ad Alicia, che si guardava intorno.
La accompagnò fino al bancone, passando tra i tavoli di legno e la gente seduta con le loro birre.
“Non ci posso credere!”, esclamò Sam, la mamma di Dougie, vedendolo in compagnia di Alicia, che si teneva stretta alla sua mano.
Sembrava intimorita, timida, stava ad un passo dietro ai suoi.
“Il piccolo Daniel Jones… E la sua ragazza!”
La donna si portò le mani alla bocca per lo stupore, Danny non nascondeva un sorriso ampio e luminoso. Sam lasciò il bancone al suo barista e andò da loro.
“Sono Sam.”, si presentò subito ad Alicia, “E tu chi sei?”
“Mi chiamo Alicia.”, rispose lei, facendosi piccola e avvicinandosi  a lui più che aveva potuto.
Si strinsero la mano.
“Sicuramente conosci mio figlio, si chiama Douglas, è un amico d’infanzia di Daniel.”, continuò Sam.
“Sì, frequentiamo la stessa classe di matematica.”, disse Alicia.
“Insieme a Tom ed a me.”, si intromise lui, “Come stai, Sam?”
“Molto bene.”, rispose la donna, sempre solare e giovanile nell’aspetto, “Siete venuti per giocare con Douglas?”
“Sì.”, le disse, anche se sapeva già che non lo avrebbero visto per tutta la sera, né lui né Tom.
“Mi dispiace, Daniel, ma Douglas mi ha detto che non sarebbe venuto. Ho supposto che lo avessi saputo…”, lo informò la donna.
“Sì, mi aveva detto che non era certo di venire, ma fa’ lo stesso.”, e nascose la delusione che riaffiorava, “C’è un tavolo libero per noi?”
“Il sette.”, disse la donna, “Andate pure, vi faccio portare le stecche.”
Sam si allontanò velocemente e rimasero in compagnia di tutti gli altri clienti intorno a loro. Volle fare buon viso a cattivo gioco, Alicia non doveva assolutamente venire a conoscenza del pessimo comportamento di Dougie, era inconcepibile che lo avesse trattato in quel modo al telefono.
“Vieni.”, le disse, “Da questa parte.”



Alicia non sapeva giocare a biliardo, si poteva vedere da come teneva la stecca, ma non c’era nessun problema, le avrebbe insegnato lui. Non era poi così difficile. Ci voleva un cervello matematico, che fosse in grado di fare calcoli rapidi, ma non era strettamente indispensabile essere capaci di frazionare i numeri per trovare la giusta direzione e spedire le palle in buca. Per il momento era sufficiente che Alicia imparasse a colpirle, un gesto che tutti potevano afferrare senza troppi sforzi intellettuali.
Danny sistemò il triangolo colmo di palle colorate sul verde vellutato del tavolo, illuminato da una luce forte, ma comunque bassa e per niente fastidiosa.
Si posizionò lungo la sponda più corta del tavolo, da dove avrebbe letteralmente spaccato le palle, come si diceva in gergo.

“Ti spiego alcune regole fondamentali.”, le disse, “Vedi come sono colorate le bilie?”
Ferma lungo il lato più lungo, Alicia non poteva dare la risposta sbagliata, lei che era così brava con i colori. Danny appoggiò la stecca a terra, ferma dalle dita della sua mano sinistra, mentre le altre sostavano sul suo fianco.
“In mezzo alle altre c’è la numero otto, quella nera.”, disse Alicia, partendo dall’evidenza.
“E poi?”
“Poi… Alcune hanno le righe bianche, alcune no.”
“Bravissima!”, le applaudì e la fece sorridere compiaciuta, “Adesso scegli uno dei due tipi.”
“Voglio quelle senza le righe.”
“Perfetto, saranno quelle che dovrai imbucare durante tutta la partita.”, le disse, “Le altre sono mie, e se le imbucherai mi darai un punto ed il diritto di fare un tiro in più.”
“Capito.”, disse lei, con un secco gesto di consenso.
“La otto non deve mai andare in buca.”, le spiegò, “Altrimenti la partita è persa. Quella bianca ti serve per colpire le bilie ed il tuo turno dura finché non sbagli ad imbucare…”
“Ok!”
“Altre domande?”, le chiese.
“E se rompo il rivestimento del tavolo?”
Danny rise.
“Cercheremo di evitarlo.”, la rassicurò, “Iniziamo?”
“A lei il primo tiro.”, disse Alicia con un inchino reverenziale.
Danny sistemò la palla bianca perpendicolare alla punta del triangolo, che dopo qualche attimo venne scomposto con uno schiocco secco e forte. Una volta che il caos delle bilie trovò la sua pace, il gioco poté iniziare.
“Ora sta a te.”, le disse, indicandole il tavolo.
Alicia si mosse con imbarazzo.
“Non so nemmeno da dove iniziare…”, disse, mentre cercava di dare un senso al come impugnare la stecca.
“Allora ti mostro.”, le fece.
Prese la sua mano destra e la posizionò sul manico della stecca. La sinistra, invece, la fermò sul verde: il pollice disteso, le altre dita leggermente inarcate. L’incavo avrebbe fornito l’appoggio alla stecca, il dorso dell’indice invece la direzione.
“Ecco, prova a colpire la palla due.”, le consigliò, “E’ piuttosto vicina alla buca. Ci puoi riuscire.”
“Ok…”, disse lei titubante.
Era piuttosto goffa e divertente da vedere: Danny le lasciò lo spazio che le serviva e la osservò provare il suo primissimo tiro, che mancò di netto la palla bianca.
“Cazzo!”, esclamò Alicia, “Pensavo fosse più facile!”
Non trattenne una risata.
“Con un po’ di pratica lo diventerà.”, le fece.
Fu spontaneo avvicinarsi a lei e mostrarle come fare. Il proprio corpo aderì al suo nel tentativo di mostrarle la posizione corretta che avrebbe dovuto assumere nel tiro. Strinse la mano intorno a quella di Alicia, che già impugnava il fondo della stecca, e mentre l’altra finì sul tavolo, sopra la sinistra di lei.
Frequentando la sala biliardo con continuità da molti anni a quella parte, Danny aveva colto tantissime persone in quegli atteggiamenti: spesso erano occasioni manifeste per provarci con la bella ragazza di turno, altre volte il gesto conteneva poca malizia, e dopo il primo imbarazzo Danny non vi aveva fatto più caso, era diventata la normalità. Per lui, però, quello non era affatto un evento normale: fino ad un mese prima, Daniel Alan David Jones non avrebbe mai potuto farlo senza tremare al solo pensiero. Non sentiva di essere più lo stesso diciottenne di appena trenta giorni fa, qualcosa in lui doveva essere cambiato. Sebbene il cuore battesse forte in lui, vicinissimo ad Alicia, così tanto da tornare con la mente agli attimi nel parco e doversi sforzare nel mantenere la calma, le mani di Danny erano ferme e stabili.
 “Ora punta la bilia.”, le disse, le labbra vicine al suo orecchio.
Sistemò la stecca tra le dita di Alicia.
“E colpisci.”
Il gesto fu rapido, la punta gessata colpì la palla bianca. Questa sfiorò la numero due che, con una lentezza esorbitante, cadde in buca. La osservarono finché non scomparve, ma Danny non era concentrato sulla sorte della palla bluastra. Una briciola del vecchio Jones fece capolino e si ritrasse velocemente dalla posizione, diventata troppo scomoda.
“Vi-visto?”, le disse balbettando, “Ce l’hai f-fatta!”
Per il resto della serata evitarono di avvicinarsi troppo e nessuno dei due parve dispiacersene molto. Ci furono momenti in cui si trovavano a guardarsi, come se l’altro non avesse potuto accorgersi degli occhi puntati nella propria direzione: finivano per arrossire ed abbassare lo sguardo sorridendo.
Danny si sentiva felicemente stupido.



Il viaggio di ritorno fu molto silenzioso. Alicia sbadigliava con una notevole frequenza ed anche lui si sentiva piuttosto stanco. Il divano letto non era il massimo della comodità ma si sarebbe abituato molto presto: la sua non era generale difficoltà nell'addormentarsi, era che quel coso scricchiolava ad ogni suo minimo movimento e lo distraeva dal sonno incombente. Inoltre, la stanza si trovava direttamente sotto a quella di Vicky, l’insonne della famiglia, che rimaneva in piedi fino a tardi e lo disturbava con le sue passeggiatine rumorose.
Rientrarono che la casa era completamente vuota. Sua sorella era al lavoro, sua madre doveva essere dalla vicina, oppure ad una delle tante riunioni delle volontarie, non si ricordava con precisione.
“Mi catapulto sul letto.”, disse Alicia, “Sto morendo di sonno.”
“Anch’io.”, non le mentì.
Salirono al piano di sopra e trovarono la propria privacy nei due bagni. Uscirono che erano già in pigiama, pronti per darsi la buonanotte. Danny notò ancora l’espressione ironica malcelata di Alicia, che doveva avercela con i suoi abiti da notte, così come Vicky, ed anche sua madre… Forse era davvero arrivato il momento di gettare via quei vecchi pigiama. In una maglietta larga e pantaloncini, Alicia aveva tutto il diritto di ridere di lui e delle sue righe da carcerato.
“Buonanotte?”, le domandò, davanti alla porta della camera.
“Buonanotte.”, rispose lei, “E grazie della bella serata.”
“Avrei potuto fare di meglio.”, le fece, alzando le spalle.
“E’ stata perfetta.”
Alicia si alzò sulle punte dei piedi, nascosti da un paio di calzini di spugna, e gli dette un piccolo bacio sulla guancia.
“Ci vediamo domattina.”, gli disse.
La salutò portando una mano sulla fronte.
“A presto. E ricordati che per qualsiasi cosa devi farmi uno squillo.”
“Certo.”
Gli sorrise e lo lasciò solo.



C’era tanto, troppo profumo nelle sue narici. Le faceva venire a mente il dopobarba di suo padre, ma non era la stessa esatta fragranza, qualche elemento di sottofondo era diverso. Doveva esserci anche della musica nell’aria, ma non riusciva a distinguere le note: sentiva solo il pizzicare confuso di una chitarra e le note stridule di un’armonica, niente di più.
Si voltò, aveva sentito una presenza alle sue spalle.
Vi trovò Jones.
Ratleg!”, lo chiamò, poi nascose la bocca tra le mani per cancellare quella gaffe mostruosa.
Jones si portò l’indice sulle labbra, come per dirle di stare in silenzio. Poi le sussurrò qualcosa.
Non gridare troppo… Ti troverà.
Alicia non lo capì.
Puoi alzare il volume della voce?”, gli chiese, “Non ti sento!
Fai silenzio…
Non riesco a capirti!
Ti troverà. Prima o poi ti troverà.”
L’immagine di Jones/Ratleg si dissolse, cancellata da un rumore strano. Alicia fece fatica a mettersi in contatto con la realtà, il cellulare stava vibrando sul comodino con una certa insistenza e l’aveva disturbata nel bel mezzo di una fase rem piuttosto pesante. Aveva gli occhi così impastati che non controllò il mittente di quella chiamata, poteva essere solo suo padre a cercarla nel bel mezzo della notte, non avendola trovata disponibile a casa. Sperò che si stesse divertendo tanto in Svezia…
“Pronto?”, disse, con voce piccola e roca.
Dove sei di bello, sorellina?"
La voce di Mark la prese per i capelli e la sbatté al muro.
Non sei a casa mia, vero?
Alicia non ebbe la forza di rispondere, ma ebbe un solo pensiero.
Ti troverà. Prima o poi ti troverà.

Peccato che tu non sia venuta con noi, sorellina.”, continuò Mark, “Ci sono dei posti magnifici qua.
Alicia non parlava, ma era certa che non gliene sarebbe fregato nulla. Anzi, molto probabilmente il suo respiro impaurito lo faceva stare addirittura meglio.
Mi dispiace davvero tanto, sorellina. Ti sei persa tantissime belle cose.
Doveva trovare la volontà di chiudere quella chiamata, ma non ci riusciva. Controllò l’ora nella sveglia sul comodino: erano le due passate da ben venticinque minuti.
Sai che avremmo diviso la stessa camera? Io e te, insieme… Ci saremmo potuti divertire tantissimo, sorellina.
“Smettila…”, lo implorò sussurrando.
Come per incanto, Mark si zittì.
Prima o poi riuscirò a cancellare quel tuo sorriso del cazzo, e stai sicura che lo farò, in un modo o nell’altro. Un’idea ce l’ho già, anche tu sai quale sia. Sarebbe un immenso piacere per me fott…
Trovò la concentrazione giusta per terminare la telefonata e gettare il cellulare sul letto. Si nascose sotto le coperte ed attese che il tremito finisse di scuoterla.



Scattò sull’attenti non appena il cellulare emise un piccolo suono. Non stava dormendo, sua sorella l’aveva svegliato rientrando una mezzora prima, doveva ancora ritrovare il sonno. Controllò, la sua immaginazione poteva avergli giocato un tiro mancino, ma non si era sbagliato. In punta di piedi andò al piano superiore, camminando vicino alle pareti per non fare troppo rumore, ed entrò nella camera. Alicia era seduta sul letto, teneva le gambe al petto e la schiena era appoggiata al muro, la illuminava la piccola luce dell’abat-jour.
“E’ tutto ok?”, le chiese a bassa voce, vedendola estraniata.
“Oh sì, certo.”, rispose lei sussurrando e con un piccolo sorriso.
Si sedette accanto ad Alicia ed assunse la sua medesima posizione.
“Scusami se ti ho disturbato.”, disse ancora Alicia, senza alzare di un tono la sua voce.
“Non stavo effettivamente dormendo.”, disse Danny, “Ho sentito Vicky rincasare.”
“Ah… Io no!”, e ridacchiò.
Doveva avere un sonno bello e pesante: Vicky aveva svegliato pure sua madre, che l’aveva poi sgridata ricordandole della presenza di Alicia.
“Beh… In cosa posso esserti utile?”, le domandò.
Alicia non rispose, bensì abbracciò le gambe e appoggiò il mento sulle ginocchia.
“Uhm?”, le fece Danny, perplesso, “C’è qualcosa che non va?”
Scosse la testa con un gesto secco e veloce.
“E allora perché mi hai chiamato?”
Non c’era posto in cui voleva stare tranne lì con lei, ma doveva esserci pure un motivo per cui Alicia aveva fatto suonare il suo telefono ed evidentemente non riusciva a parlarne. Le passò un braccio intorno alle sue spalle e l’abbracciò, dandole il solito piccolo bacio sulla testa.
“Vuoi che rimanga un po’ qui con te?”, le propose.
Alicia si mosse, dicendogli di sì con un cenno.
“Ok.”, acconsentì senza alcun ripensamento, “Vuoi che ti racconti il sogno strano che ho fatto?”
“Sì…”, giunse come un suono piccolo e lontano.
“Ero con Tom e Dougie.”, le spiegò, inventando tutto di sana pianta, “Eravamo al cinema e la sala era stracolma di gente, così piena non l’avevo mai vista… Poi le pareti iniziavano a restringersi ed era tutto un fuggi fuggi generale…”
Le sue fantasie facevano proprio schifo.
“Allora gli altri due ed io siamo entrati nello schermo e ci siamo ritrovati dentro al film… Poi… Poi c’era una signora… Tutta vestita di giallo…”, Danny stesso alzò un sopracciglio nel sentirsi descrivere quel particolare, “Una signora in giallo.”
Non sapeva cos’altro aggiungere, non era mai stato bravo nell’invenzione delle storie.
“E quella signora… La signora era…”
Non si zittì di sua spontanea volontà, fu lei ad ammutolirlo: voltò velocemente il viso verso il suo e lo baciò. In quel breve lasso di tempo Alicia strinse il suo viso tra le mani, come lui era solito fare. Danny venne colto di sorpresa, tanto che non riuscì a dischiudere le labbra. Ebbe bisogno di qualche attimo per realizzare tutto quello, poi non esitò a fare altrettanto.
Come era accaduto al parco, Danny lasciò che le sensazioni scatenatesi dentro di lui lo guidassero in ogni mossa. Lo prendevano dall’interno, lo agitavano come un burattino, il suo corpo era legato a fili invisibili che sapevano come dirigerlo. Non c’era spazio per nient’altro, tranne per quello che l’istinto comandava loro di fare.
Forse fu per volontà di Alicia, forse fu la sua: si sedette su di lui, che la teneva per i fianchi morbidi. I baci furono anche più intesi, più profondi, più vivi. Poi, all’improvviso, s’interruppero. Danny provò ad avvicinarsi di nuovo alle labbra di Alicia, ma queste si allontanarono. Si rese conto che le proprie mani erano finite sotto la maglietta del suo pigiama, toccavano la sua schiena liscia e sentivano i muscoli tesi sotto la pelle. Non provò imbarazzo, nemmeno per una sola briciola.
I piccoli bottoni del pigiama di Alicia si allontanarono dalle loro asole. Lentamente, la pelle sotto di essi si stava scoprendo. Ebbe paura e chiuse gli occhi, Danny non seppe spiegarsene il motivo. Passò qualche attimo di vuoto totale, di silenzio assoluto, e dentro di esso trovò il coraggio per alzare le palpebre. La pelle chiara del suo seno era riscaldata dalla luce flebile dell’abat-jour, la maglietta che la contornava di lì a poco cadde inerte e si fermò all’altezza dei suoi gomiti.
Danny si sentì incatenato. Quasi si ritrasse quando si accorse che Alicia stava sollevando la sua mano con l’intenzione di posarla sul proprio corpo. La toccò, nella testa di Danny accadde come un’esplosione. Il brivido fu così intenso che spezzò in due la spina dorsale, e sopportarlo fu doloroso.
Caldo.
Anche i suoi bottoni presero a sganciarsi sotto la pressione delle dita di Alicia. Uno dopo l’altro, il sopra del suo pigiama si aprì e due dita timide accarezzarono il suo petto, fermandosi poco sopra l’ombelico. Le labbra di Alicia si posarono sul suo collo, sul profilo delle spalle, e il tocco di Danny su di lei divenne più forte, come la sensazione che lo comandava.
Appoggiò la testa al muro, non era più in grado di sostenerne il peso. Il respiro di Alicia era forte, udibile e caldo, si condensava sulla pelle e ghiacciava. Continuava a toccarla, entrambe le mani erano bloccate su di lei, come se fosse stata un magnete vivente -lo era sempre stato- e ad ogni passaggio delle sue dita un piccolo gemito soffocato sparava un proiettile nell’aria. Non avrebbe mai immaginato che l’unione combinata di tutti i suoi sensi avesse potuto essere così intensa
Danny aprì gli occhi ancora chiusi, lei era sempre lì, su di lui. Non lo stava baciando, lo stava solo guardando. Si chiese quanto potesse sembrarle ridicolo: era sudato, respirava faticosamente e non sapeva più cosa fare.
Lo sai.
Ebbe ancora paura, molta paura. Soprattutto perché anche Alicia sembrava sapere cosa fare.
Le piccole dita oltrepassarono lentamente l’elastico dei pantaloni. Poi quello dei boxer. Danny trattenne il respiro, lo rilasciò e le sorrise, aspettandosi un’espressione simile in ricambio, ma quella non arrivò. Alicia si morse le labbra e quel gesto ebbe l’effetto di una spugna sulla lavagna, di un panno sul vetro bagnato, di una gomma sull’errore di calcolo.
Danny si prese quel momento per porre il piede sul freno e riflettere.
Cosa stiamo facendo?

In un forte ed improvviso senso di razionalità, la guardò realmente negli occhi. Poteva essere completamente deviato dalle mani sul suo seno, dal tocco di Alicia, ma c’era qualcosa che non andava. Dovette sbattere più volte le palpebre per realizzare di non essersi equivocato, che non era la luce bassa a tradire l’espressione di Alicia.
C’è qualcosa che non va, Daddy Jones.
Ma cosa?
“Alicia…”, le disse.
Fu come aver schioccato le dita ed aver acceso magicamente la luce più luminosa del mondo. Tutto si gelò, si fermò, come se qualcuno dall’alto avesse premuto un tasto chiamato reset. Prese i due lembi della sua maglietta e li unì, coprendola. Tutte le mani si ritrassero, tutta la pelle tornò a nascondersi e rimasero solo loro due, imbarazzati e tristi.
“Non adesso.”
Alicia annuì con un breve cenno del viso, poi tornò seduta nella posizione in cui Danny l’aveva trovata quando era entrato. In quel momento avrebbe voluto chiederle il perché di tutto quello. Perché si erano spinti fino a quel quasi traguardo, quando era chiaro che nessuno dei due non voleva ancora attraversarlo? Perché Alicia aveva voluto spingerlo?
 “Mi dispiace…”, le disse Danny.
Voleva farlo, lo voleva con tutto il cuore, ma non pensava di essere pronto. In quella giornata passata con lei aveva provato emozioni e sensazioni che lo avevano privato di tutto, per poi ridarglielo indietro e toglierglielo ancora. Era stato su una montagna russa, su e giù, e sarebbe stato pronto a salirci in ogni momento, ma non poteva giocare adesso. Si alzò, non riusciva a sopportare di rimanere lì dentro, e non era solo questione di imbarazzo.
Era colpa della rabbia, della frustrazione di avere l’ennesima prova di quello che immaginava da qualche tempo.
Alicia non era sincera con lui.



Rimase sola. Dentro di sé ringraziò Jones, lo ringraziò di cuore. Aveva solo voluto provarci, quella era l’unico merito per lei. L’aveva guidata un unico pensiero, la voglia di liberarsi di Mark e della sua ossessione. Si era detta che se si fosse tolta di dosso quello che lui voleva, allora sarebbe tutto finito. Se fosse tornato dalla Svezia e gli avesse detto di non possedere più quel particolare ‘regalo’ da dargli, Mark l’avrebbe lasciata in pace per sempre.
Per sempre.
Ci aveva pensato tante di quelle volte, ma non aveva mai trovato la forza di impegnarsi fino in fondo come quella sera. Era stata colpa di ciò che era accaduto nel pomeriggio tra lei e Jones, non solo della telefonata in piena notte, ne era certa. Se non fossero stati quasi sul punto di oltrepassare la linea, se al pub Jones non si fosse avvicinato così tanto, Alicia non avrebbe mai inoltrato la chiamata per farlo salire da lei.
Non voleva ancora farlo sul serio. Non si sentiva ancora abbastanza… Innamorata di Jones. Forse non lo era affatto, si era solo affezionata a lui. Non lo sapeva, era così confusa. Aveva bisogno di parlarne con qualcuno, ma non trovava nessuno nelle sue vicinanze. Nemmeno Ratleg avrebbe potuto esserle d’aiuto, non più ormai. Non aveva amiche, non aveva sorelle. Non aveva una madre.
Era colpa sua.
Si sentiva così patetica.



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Ed eccomi qua :) Beh, non ho molto da dire, tranne che ringrazio tutti quelli che si soffermano a leggere questa storia :)
E grazie anche a Fra, che l'ha commentata!
Ruby


   
 
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