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Autore: miseichan    08/03/2010    1 recensioni
Amare è sempre doloroso. Amando si apre il proprio cuore, regalandolo a qualcun altro, porgendoglielo su di un piatto d'argento. Il modo in cui lui o lei lo tratterà poi, non dipende da nessuno, è imprevedibile... può succedere di tutto, così come potrebbe non succedere nulla. Amando però si rischia anche tantissimo: si mette in gioco tutti se stessi, e quando le cose vanno male, bè in quei casi si soffre, e tanto. Per fortuna qualunque cuore, anche quello che ha sofferto così tanto da temere di non riuscire più a battere davvero per nessuno, torna sempre a fare quella cosa: quella che è un errore ed al tempo stesso non lo è, quella che è tutto e niente... perché ad amare si torna sempre, che lo si voglia ammettere o meno.
Genere: Romantico, Commedia, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ossimoro

Tutto e niente

Ossimoro

 

Ossimoro
Scorse con gli occhi la pagina che aveva davanti finché non trovò la definizione che cercava: “Figura retorica che consiste nell’accostare due parole dal significato opposto”.
Con un sospiro tornò a prendere in mano il cellulare per rileggere il messaggio arrivatole pochi minuti prima, ancora aperto al centro dello schermo:
“Ehy, dolce ossimoro mio, siamo tutti al bar. Ci raggiungi?”
Non ebbe bisogno di controllare il mittente per capire che ad inviarglielo era stato Roberto: era l’unico capace di fare una cosa del genere, l’unico per altro con cui era necessario avere un dizionario alla mano per seguire una conversazione.
Era il suo genietto preferito, il suo migliore amico. Il tipico ragazzo che nessuno prenderebbe mai per un cervellone, almeno finché non lo sente parlare. E lei lo sentiva parlare sempre, ogni giorno,  da più di quattro anni, ma la cosa non la disturbava anzi: molte, troppe volte si era chiesta come avrebbe fatto senza di lui.
Non era il caso di pensarci ora però, come non avrebbe dovuto pensare che nel “tutti” era incluso anche lui. Lo sapeva: era certa che in quel bar ci sarebbe stato, e non era difficile arrivare a quella conclusione quando il bar è in realtà l’unico bar.
Con un gesto nervoso chiuse il vocabolario, alzandosi dal letto e prendendo un bel respiro.
Era sabato sera: non sarebbe rimasta chiusa in camera, nemmeno se nell’unico posto in cui sarebbe potuta andare, quello dove inoltre avrebbe anche incontrato tutti i suoi amici, c’era lui.
Afferrò rapida il giubbino di jeans appeso ad un gancio sulla porta e iniziò a scendere le scale, dopo essersi brutalmente chiusa la porta alle spalle. Si ritrovò davanti alla porta del locale quasi senza rendersene conto: in fondo le capitava spesso, abitando nella casa direttamente sopra, di arrivare a destinazione così rapidamente da rimanerne pressoché spiazzata. Si specchiò per un attimo nel vetro della porta, portando la lunga ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio: era la sola che avrebbe potuto sistemare, l’unica che stonava, il resto dei capelli erano neri, tagliati in un caschetto scalato.
Adorava la sua ciocca rossa, come adorava ogni sua più piccola parte trasudante originalità: dai numerosi buchi per orecchio, ai tatuaggi piccoli e discreti, al modo di vestire, per finire con la ciocca colorata.
Non avrebbe potuto fare a meno di nessuna di quelle cose, perché erano parte di lei: parte di Irene.
Era una ragazza particolare, ma non di per sé: a prima vista appariva anzi troppo normale, statura nella norma, magra, capelli neri. A farla rientrare ancora più nella normalità c’era poi una quasi eccesiva timidezza, che la confinava in un mondo piccolo e tutto suo.
Irene però odiava la normalità, così come odiava la propria riservatezza ed introversione.
Non sopportava di conformarsi alla massa, senza alcuna possibilità di distinguersi. Perciò aveva deciso di uscire dal gruppo, cambiando l’aspetto esteriore, pitturando i capelli, bucando i lobi, tatuandosi… indossando capi che attirassero l’attenzione. Perché lei non era come tutte le altre e quello che la timidezza le toglieva, lo avrebbe compensato la sua originalità.
O almeno così la pensava, questo era quello a cui aveva bisogno di credere.
Aprì la porta ed espirò pesantemente al tempo stesso: la sala che le si aprì davanti la conosceva benissimo. Era la sala di ritrovo del suo paese: quella dove ogni pomeriggio, ogni sera, e naturalmente ogni fine settimana si ritrovavano tutti gli under quaranta di quel buco di città.
Se città si poteva definire la sua, no probabilmente no: era un paese, di quelli vicinissimi al mare, pieni di odore di salsedine, con un clima bellissimo e un panorama ancora più bello. Di quelli in cui il numero degli abitanti è così basso che inizi a temere siano tutti parenti. Per fortuna non era così, e il fatto che si conoscessero tutti non implicava un legame di sangue.
Irene prese un bel respiro, aspirando il miscuglio di salmastro ed alcol che impregnava il luogo: ricoprendo velocemente con lo sguardo tutti i tavoli, le pareti beige, i tappeti colorati. Accolse felice il mormorio di sottofondo, il rumore di bicchieri che si scontravano, le risate provocate per lo più dalla birra: era il suo ambiente, una seconda casa.
Una mano nell’angolo in fondo a destra attirò la sua attenzione: individuò subito in mezzo ad un gruppo di teste quella del suo Rob, in pochi passi lo raggiunse, sedendosi al suo fianco.
Il viso di lui si illuminò vedendola, e dopo averle scoccato un veloce bacio sulla guancia iniziò uno dei suoi soliti monologhi: tipico di Rob, cominciare immediatamente a parlare, senza prendere mai fiato; forse per questo erano tanto amici: si compensavano, il silenzio di lei e la parlantina di lui.
Irene si accomodò per bene sul divanetto, facendo aderire la schiena e allungando le gambe: non era necessario ascoltare Rob, bastava annuire di tanto in tanto. Mentre lo osservava, prese fra le dita i capelli di lui: erano lunghi e biondi, li portava legati in una coda e Irene adorava giocherellarci, lo trovava rilassante. Annuì sentendolo incepparsi un po’ con le parole, poi però il discorso tornò a scorrere veloce e fluido: lei gli sorrise, senza ancora aver capito di cosa stesse parlando veramente.
Lasciò vagare lo sguardo, non indugiando su nessuno in particolare, senza soffermarsi su alcun discorso in particolare, sorridendo in risposta ai numerosi saluti che le venivano rivolti, e poi lo vide. Fu quando i suoi occhi si fermarono su di lui che capì di starlo cercando: era seduto al tavolo dirimpetto al suo, dal lato opposto del locale. E rideva. Come solo lui sapeva fare.
Irene si pentì di essere scesa, di aver raggiunto Roberto, di stare lì: perché guardandolo si faceva solo del male, ma non poteva farne a meno. Le era impossibile non fissare lo sguardo su di lui.
Perché lui era Daniele.
Daniele Venturi.
Anche solo pensare al suo nome era come una doccia fredda.
Daniele… non era un ragazzo bellissimo, di quelli che si associano ai semidei, con il fisico scolpito e il viso d’angelo. No, lui era normale ed al tempo stesso assolutamente speciale.
Il suo essere unico non derivava dalla bellezza, alquanto nella norma, ma dal fascino che aveva: come si muoveva, come parlava, come rideva, anche semplicemente come ti guardava.
Tutto di lui era eccezionale. Era quel tipo di ragazzo che sprizza carisma da ogni poro, quello che trascina le folle con una sola parola, quello che avrebbe potuto diventare presidente un giorno.
Perché Daniele era simpatico, intelligente, dolce, perspicace, comprensivo, empatico, tutto. Era semplicemente tutto. Il ragazzo perfetto.
Ed era stato il suo ragazzo: un tempo era di Irene, lo era stato per più di un anno. Suo, unicamente suo. E lei non riusciva a capacitarsi che ora non lo fosse più.
- L’hai capito il mex?-
Aveva sentito la voce, ma ci aveva messo un po’ a capire che ce l’aveva con lei e che era quella di Roberto: si voltò a guardarlo incontrando il suo sguardo interrogativo.
- Come scusa?-
La voce di lui divenne divertita mentre ripeteva la domanda:
- Il messaggio, lo hai capito?-
- No, perché mi dai dell’ossimoro?-
Chiese lei sorridendogli e lasciando andare i capelli di lui per prendere la sua birra e berne un sorso.
La risposta non si fece attendere, cogliendola di sorpresa:
- Perché la tua vita è un ossimoro, tesoro-
Irene avrebbe voluto controbattere, dicendo di non aver ancora capito, e giungendo alla fine ad avere la completa spiegazione da parte dell’amico. Ma non  ribattè, per colpa di uno stupido errore che aveva fatto: si era girata di nuovo in direzione di Daniele, accorgendosi solo in quel momento del braccio di lui stretto saldamente attorno ai fianchi di un’altra.
Fu come ricevere una coltellata: fredda e dritta fra le costole. Mentre osservava meglio la scena poi fu come se la lama le venisse lentamente girata dentro, provocandole un dolore sordo e via via sempre più grande e profondo.
Aveva sentito dire che si era messo con un’altra: non aveva ancora visto con i suoi occhi però.
Osservò lei: bionda, occhi blu, gambe lunghe. Perfetta, come lui. Per qualche assurdo motivo si ritrovò a pensare che avrebbero avuto dei figli stupendi e quel pensiero riuscì solo a farle venire la nausea. Sentì la mano di Roberto accarezzarle il viso, provando a farglielo girare, per farle smettere di guardarli: di vedere lui che baciava lei, stringendola a sé, mangiandosela con gli occhi.
Non era sicura di cosa stesse provando: gelosia, invidia… qualunque cosa fosse faceva male: tanto, davvero tanto male.
Irene però non era come le altre: voleva sempre distinguersi, uscire dal gruppo. Non avrebbe mai accettato di soffrire come fanno tutte le ragazzine, lasciate dal ragazzo che piangono vedendolo sbaciucchiarsi con la barbie di turno.
No, lei non avrebbe pianto, non si sarebbe compatita.
E poi, anche questa volta lei era diversa: se soffriva non era perché lui l’aveva lasciata.
No, questa volta era diverso: in qualche modo si sarebbe distinta almeno.
La colpa infatti era unicamente e totalmente sua.

 

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