Tutto e niente
Ossimoro
Ossimoro
Scorse con gli occhi la pagina
che aveva davanti finché non trovò la definizione che cercava: “Figura retorica
che consiste nell’accostare due parole dal significato opposto”.
Con un sospiro tornò a prendere
in mano il cellulare per rileggere il messaggio arrivatole pochi minuti prima,
ancora aperto al centro dello schermo:
“Ehy, dolce ossimoro mio, siamo
tutti al bar. Ci raggiungi?”
Non ebbe bisogno di controllare
il mittente per capire che ad inviarglielo era stato Roberto: era l’unico
capace di fare una cosa del genere, l’unico per altro con cui era necessario
avere un dizionario alla mano per seguire una conversazione.
Era il suo genietto preferito, il
suo migliore amico. Il tipico ragazzo che nessuno prenderebbe mai per un
cervellone, almeno finché non lo sente parlare. E lei lo sentiva parlare
sempre, ogni giorno, da più di quattro
anni, ma la cosa non la disturbava anzi: molte, troppe volte si era chiesta
come avrebbe fatto senza di lui.
Non era il caso di pensarci ora
però, come non avrebbe dovuto pensare che nel “tutti” era incluso anche lui. Lo sapeva: era certa che in quel
bar ci sarebbe stato, e non era difficile arrivare a quella conclusione quando
il bar è in realtà l’unico bar.
Con un gesto nervoso chiuse il
vocabolario, alzandosi dal letto e prendendo un bel respiro.
Era sabato sera: non sarebbe
rimasta chiusa in camera, nemmeno se nell’unico posto in cui sarebbe potuta
andare, quello dove inoltre avrebbe anche incontrato tutti i suoi amici, c’era
lui.
Afferrò rapida il giubbino di
jeans appeso ad un gancio sulla porta e iniziò a scendere le scale, dopo
essersi brutalmente chiusa la porta alle spalle. Si ritrovò davanti alla porta
del locale quasi senza rendersene conto: in fondo le capitava spesso, abitando
nella casa direttamente sopra, di arrivare a destinazione così rapidamente da
rimanerne pressoché spiazzata. Si specchiò per un attimo nel vetro della porta,
portando la lunga ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio: era la sola che
avrebbe potuto sistemare, l’unica che stonava, il resto dei capelli erano neri,
tagliati in un caschetto scalato.
Adorava la sua ciocca rossa, come
adorava ogni sua più piccola parte trasudante originalità: dai numerosi buchi
per orecchio, ai tatuaggi piccoli e discreti, al modo di vestire, per finire
con la ciocca colorata.
Non avrebbe potuto fare a meno di
nessuna di quelle cose, perché erano parte di lei: parte di Irene.
Era una ragazza particolare, ma
non di per sé: a prima vista appariva anzi troppo normale, statura nella norma,
magra, capelli neri. A farla rientrare ancora più nella normalità c’era poi una
quasi eccesiva timidezza, che la confinava in un mondo piccolo e tutto suo.
Irene però odiava la normalità,
così come odiava la propria riservatezza ed introversione.
Non sopportava di conformarsi
alla massa, senza alcuna possibilità di distinguersi. Perciò aveva deciso di
uscire dal gruppo, cambiando l’aspetto esteriore, pitturando i capelli, bucando
i lobi, tatuandosi… indossando capi che attirassero l’attenzione. Perché lei
non era come tutte le altre e quello che la timidezza le toglieva, lo avrebbe
compensato la sua originalità.
O almeno così la pensava, questo
era quello a cui aveva bisogno di credere.
Aprì la porta ed espirò
pesantemente al tempo stesso: la sala che le si aprì davanti la conosceva
benissimo. Era la sala di ritrovo del suo paese: quella dove ogni pomeriggio,
ogni sera, e naturalmente ogni fine settimana si ritrovavano tutti gli under
quaranta di quel buco di città.
Se città si poteva definire la
sua, no probabilmente no: era un paese, di quelli vicinissimi al mare, pieni di
odore di salsedine, con un clima bellissimo e un panorama ancora più bello. Di
quelli in cui il numero degli abitanti è così basso che inizi a temere siano
tutti parenti. Per fortuna non era così, e il fatto che si conoscessero tutti
non implicava un legame di sangue.
Irene prese un bel respiro,
aspirando il miscuglio di salmastro ed alcol che impregnava il luogo:
ricoprendo velocemente con lo sguardo tutti i tavoli, le pareti beige, i
tappeti colorati. Accolse felice il mormorio di sottofondo, il rumore di
bicchieri che si scontravano, le risate provocate per lo più dalla birra: era
il suo ambiente, una seconda casa.
Una mano nell’angolo in fondo a
destra attirò la sua attenzione: individuò subito in mezzo ad un gruppo di
teste quella del suo Rob, in pochi passi lo raggiunse, sedendosi al suo fianco.
Il viso di lui si illuminò
vedendola, e dopo averle scoccato un veloce bacio sulla guancia iniziò uno dei
suoi soliti monologhi: tipico di Rob, cominciare immediatamente a parlare,
senza prendere mai fiato; forse per questo erano tanto amici: si compensavano,
il silenzio di lei e la parlantina di lui.
Irene si accomodò per bene sul
divanetto, facendo aderire la schiena e allungando le gambe: non era necessario
ascoltare Rob, bastava annuire di tanto in tanto. Mentre lo osservava, prese
fra le dita i capelli di lui: erano lunghi e biondi, li portava legati in una
coda e Irene adorava giocherellarci, lo trovava rilassante. Annuì sentendolo
incepparsi un po’ con le parole, poi però il discorso tornò a scorrere veloce e
fluido: lei gli sorrise, senza ancora aver capito di cosa stesse parlando
veramente.
Lasciò vagare lo sguardo, non
indugiando su nessuno in particolare, senza soffermarsi su alcun discorso in
particolare, sorridendo in risposta ai numerosi saluti che le venivano rivolti,
e poi lo vide. Fu quando i suoi occhi si fermarono su di lui che capì di starlo
cercando: era seduto al tavolo dirimpetto al suo, dal lato opposto del locale.
E rideva. Come solo lui sapeva fare.
Irene si pentì di essere scesa,
di aver raggiunto Roberto, di stare lì: perché guardandolo si faceva solo del
male, ma non poteva farne a meno. Le era impossibile non fissare lo sguardo su
di lui.
Perché lui era Daniele.
Daniele Venturi.
Anche solo pensare al suo nome
era come una doccia fredda.
Daniele… non era un ragazzo
bellissimo, di quelli che si associano ai semidei, con il fisico scolpito e il
viso d’angelo. No, lui era normale ed al tempo stesso assolutamente speciale.
Il suo essere unico non derivava
dalla bellezza, alquanto nella norma, ma dal fascino che aveva: come si
muoveva, come parlava, come rideva, anche semplicemente come ti guardava.
Tutto di lui era eccezionale. Era
quel tipo di ragazzo che sprizza carisma da ogni poro, quello che trascina le
folle con una sola parola, quello che avrebbe potuto diventare presidente un
giorno.
Perché Daniele era simpatico,
intelligente, dolce, perspicace, comprensivo, empatico, tutto. Era
semplicemente tutto. Il ragazzo perfetto.
Ed era stato il suo ragazzo: un
tempo era di Irene, lo era stato per più di un anno. Suo, unicamente suo. E lei
non riusciva a capacitarsi che ora non lo fosse più.
- L’hai capito il mex?-
Aveva sentito la voce, ma ci
aveva messo un po’ a capire che ce l’aveva con lei e che era quella di Roberto:
si voltò a guardarlo incontrando il suo sguardo interrogativo.
- Come scusa?-
La voce di lui divenne divertita
mentre ripeteva la domanda:
- Il messaggio, lo hai capito?-
- No, perché mi dai
dell’ossimoro?-
Chiese lei sorridendogli e
lasciando andare i capelli di lui per prendere la sua birra e berne un sorso.
La risposta non si fece
attendere, cogliendola di sorpresa:
- Perché la tua vita è un
ossimoro, tesoro-
Irene avrebbe voluto
controbattere, dicendo di non aver ancora capito, e giungendo alla fine ad
avere la completa spiegazione da parte dell’amico. Ma non ribattè, per colpa di uno stupido errore che
aveva fatto: si era girata di nuovo in direzione di Daniele, accorgendosi solo
in quel momento del braccio di lui stretto saldamente attorno ai fianchi di
un’altra.
Fu come ricevere una coltellata:
fredda e dritta fra le costole. Mentre osservava meglio la scena poi fu come se
la lama le venisse lentamente girata dentro, provocandole un dolore sordo e via
via sempre più grande e profondo.
Aveva sentito dire che si era
messo con un’altra: non aveva ancora visto con i suoi occhi però.
Osservò lei: bionda, occhi blu,
gambe lunghe. Perfetta, come lui. Per qualche assurdo motivo si ritrovò a
pensare che avrebbero avuto dei figli stupendi e quel pensiero riuscì solo a
farle venire la nausea. Sentì la mano di Roberto accarezzarle il viso, provando
a farglielo girare, per farle smettere di guardarli: di vedere lui che baciava
lei, stringendola a sé, mangiandosela con gli occhi.
Non era sicura di cosa stesse
provando: gelosia, invidia… qualunque cosa fosse faceva male: tanto, davvero
tanto male.
Irene però non era come le altre:
voleva sempre distinguersi, uscire dal gruppo. Non avrebbe mai accettato di
soffrire come fanno tutte le ragazzine, lasciate dal ragazzo che piangono
vedendolo sbaciucchiarsi con la barbie di turno.
No, lei non avrebbe pianto, non si
sarebbe compatita.
E poi, anche questa volta lei era
diversa: se soffriva non era perché lui l’aveva lasciata.
No, questa volta era diverso: in
qualche modo si sarebbe distinta almeno.
La colpa infatti era unicamente e
totalmente sua.
*