Mancanza e Vendetta
Adel
è bellissimo, e completamente nudo. Ogni muscolo del suo
corpo è deciso e
disegnato, la sua pelle è lucida e bronzea, troppo calda. Ma
così familiare.
Percorro
le sue spalle e le sue braccia con le dita, rimarcando le linee
perfette che
gli dei gli hanno concesso. Le ridisegno ancora, e ancora, e ancora,
mai sazio
di quel calore e di quella levigatezza infantile sul suo corpo adulto.
È
fuoco, il mio Adel. È fuoco ed è carne, muscoli
guizzanti e tendini tesi. È
l’unica cosa che esiste, dentro e fuori di me. Il piacere
è assoluto, è acqua
bollente, è il cielo stellato sopra di noi, è
tutto il mio mondo. È un piacere
che cresce, e cresce, e cresce e...
Apro
gli occhi. Un tiepido e gentile raggio di sole mi sfiora il viso e le
coperte
candide sono una cornice così adatta alla bella giornata
fuori dalla finestra.
Lo
cerco accanto a me, ma non c’è.
Non
c’è.
Era
un sogno. Un altro. L’ennesimo. Così reale e
orribile, così finto e
meraviglioso. Così dolce da fare male.
Mi
raggomitolo e piango. Ancora.
Sono
trascorsi due mesi. Sono sempre solo, sempre stanco, sempre triste. Non
esco
dalle mie stanze per nessuna ragione, e il Kiyan ha smesso di venire a
trovarmi
ogni notte. Non lo vedo da giorni.
Giorni
interi che passo sdraiato sulla stuoia, a piangere e dormire, quando
proprio
non riesco più a sopportare il dolore. Mia madre mi porta
del cibo tre volte al
giorno, e tre volte al giorno riporta tutto indietro, intatto.
Non
mi stupisce che il Kiyan non voglia più avermi. Sono troppo
debole per
rispondere ai suoi gesti e tanto magro da disgustarlo. Quando ci penso,
sento
un sorriso tirarmi la pelle. È ciò che voglio.
Voglio
distruggermi. Voglio fa scomparire quella bellezza che è
stata la causa di
tutti i miei mali. È stata anche alla base di qualche misera
felicità, ma ora
che Adel non c’è più non ha importanza.
Niente ha importanza.
Adel.
Voglio
morire.
«Vattene».
La voce è un sussurro
arrochito, ansante, irriconoscibile. Mi costa un immenso sforzo
pronunciare
quell’unica parola. Dei, sto per svenire.
«Kamal, devi mangiare».
Chiudo
gli occhi, insensibile ai singhiozzi di mia madre. Non riesco a
dispiacermi
nemmeno del fatto che non mi causino nulla. Sono così
stanco...
Il
suono di un paio di piedi che si posano sul pavimento è
così forte da farmi
dolere la testa. Due braccia mi tirano a sedere, e non riesco a
oppormi. Non
riesco a muovere le labbra nemmeno per mormorare un flebile diniego. Me
le
schiudono a forza e qualcosa di liquido, fresco e dolce mi
scorre
sulla lingua. La tosse che mi scuote il petto è tanto forte
da rischiare di
spezzarmi le ossa. Ma subito si placa e mi scopro di nuovo ad odiare il
mio
corpo perché vuole quel nutrimento. Cerco di sopprimerlo,
come ho fatto per
giorni e notti, notti e giorni, ma non ci riesco.
Bevo,
e mentre mia madre e mio padre ridono di gioia, mi sembra che quel
mondo fino
ad oggi così categoricamente rifiutato mi stia crollando
addosso.
Di
nuovo.
«Morad».
Alzo
gli occhi e il suo viso è davanti al mio. Lo guardo per un
istante, poi
abbandono di nuovo la testa sulla stuoia, voltata di lato. Non mi
interessa
guardarlo.
La
mia disarmante passività non sembra sortire effetti, su di
lui. È dentro di me
da qualche minuto, lo so perché ho contato ogni secondo
passare. La prossima
volta conterò i suoi gemiti, quella dopo i suoi sospiri. La
volta scorsa ho
contato le sue spinte. È arrivato a duecentoottantasette,
poi è uscito dal mio
corpo e se n’è andato.
«Morad».
Si
è fermato. Ancora, nel pronunciare il mio nome. Vuole che lo
ascolti. Che
faccia almeno caso, che dia una seppur minima importanza al fatto che
stia
facendo del sesso con me. Lui lo sta facendo. A me non interessa. Non
sono
eccitato e non ho voglia di esserlo.
Aspetto
che pronunci il mio nome ancora una volta e poi riprenda a muoversi.
“Cinquantotto, cinquantanove,
sessanta.
Quattro minuti. Uno, due, tre...”.
Ho
deciso che sedurrò ogni singolo uomo che mi
passerà davanti, da oggi. Il Kiyan
non potrà mettere a morte tre quarti dei suoi cortigiani,
no? Magari deciderà
di uccidere me, però. Questo non fa altro che spingermi a
perseguire il mio
scopo.
Il
mio sorriso è molto simile – non identico
– a quello che rivolgevo al sovrano
fino a qualche mese fa, quando mi avvicino ad una coppia di soldati
intenti a
fare la guardia ai lati del maestoso ingresso del palazzo. Auguro loro
una
buona giornata, e con una scusa qualsiasi rimango a parlare con loro.
Entro
pochi minuti, i loro sguardi sono decisamente meno attenti e meno
rapidi a
volgersi in direzione dei servi che di tanto in tanto varcano la
soglia.
Continuo a sorridere e a blaterare cose del tutto prive di un vero
interesse,
fino a che non accuso un giramento di testa e invito il più
alto dei due ad
accompagnarmi alle mie stanze.
Un
vero peccato che il Kiyan sia occupato con i suoi generali, al momento.
Ma non
è ancora l’ora di godere per
l’espressione che vedrò nascere sul suo viso nel
vedermi posseduto da qualcun altro, e nel sentirmi gemere rumorosamente
ad ogni
spinta.
Magari
gli verrà in mente cosa so ancora fare con questa bocca.
Ringrazio come sempre MatyXV e NemuChan per le loro recensioni. *si inchina*
Grazie anche a tutti i lettori che hanno aggiunto questa storia tra i preferiti e le seguite. Grazie davvero. *quasi commosso* (XD)
Al prossimo capitolo! ^.^