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Autore: Brys    25/03/2010    0 recensioni
Avevo pubblicato questa storia una volta, per poi lasciarla nel dimenticatoio ancora una volta. Infatti è stata più volte presa, strapazzata un pò, ma grazie alla musica ha riscoperto una nuova vita. Spero che a qualcuno piaccia, è ancora tutto in work in progress, ma sono soddisfatta di come sta uscendo fuori. < i …Due anni, erano passati appena due anni. Mi ero subito innamorata di te , del tuo sorriso, dei tuoi occhi grandi,espressivi, azzurri come il mare calmo d’estate…, del tuo modo buffo di corteggiarmi, del modo in cui non riuscivi a tenermi nulla nascosto… eri quello che mi era sempre mancato nella vita, la mia cura, la mia ancora di salvezza. Eri. Eri e non riesco a crederlo che non lo sarai più… >,
Genere: Malinconico, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo due

Ciò che resta…

 

 

 

Questa oscurità ha un nome? Questa crudeltà, questo odio? Come ci ha trovato? Si è messa nelle nostre vite, o noi la cerchiamo e la abbracciamo?

Consumati dalle ombre,

ingoiati completamente dall'oscurità

. Questa oscurità ha un nome?

É il tuo nome?

 

 

 

 So, so you think you can tell Heaven from Hell,
blue skies from pain.
Can you tell a green field from a cold steel rail? A smile from a veil?
Do you think you can tell?

wish you were here

( Pink floyd- Wish you were here)

 

 

 

 

 

 

“Tesoro, Max è passato da casa tua stamattina, ha preso qualche vestito pulito e delle cose che potrebbero servirti e che probabilmente vorresti avere con te  finché  rimarrai qui, sono tutte in quella scatola…”

Becca evitò quasi di guardarmi mentre mi parlava.

Annuì distrattamente, osservandola maneggiare quella scatola che conteneva in qualche modo un pezzo della mia vita che credevo avesse trovato la sua stabilità, accanto a George, mentre ora si trovava ammassato disordinatamente come roba vecchia e polverosa.

Quel lavoro sporco toccava sempre a Max, Becca non si smentiva mai.

Ricordavo ancora quando era morta mamma e mio padre aveva deciso di lasciare la casa dove noi tutti eravamo cresciuti, dove stavano le nostre radici, il nostro passato…anche lui però aveva ricevuto il suo scatolone, una sorta di premio di consolazione forse?

Tutto ricercato e confezionato da Max, come nella migliore tradizione.

 Da quando mi ero fermata a casa loro, Becca cercava in tutti i modi di rendermi le cose semplici, quasi obbligando le bambine al silenzio per non disturbare i miei labili sonni che duravano talmente poco che mi pareva  di aver solamente socchiuso gli occhi per qualche secondo o costringendole a mangiare cibo messicano estremamente piccante ogni venerdì, come facevamo sempre io e George.

Ero sicura che le mie nipoti mi stessero lentamente iniziando ad odiare.

Il mio stato vegetativo di quel periodo non mi permetteva di oppormi alle rivoluzioni di mia sorella, anzi, forse le sembrava che tutto ciò mi avrebbe fatto bene, che sarei stata come dire, meglio?

 Avrei dovuto prendere una scelta, sapevo bene che non avrei potuto gravare sulle spalle dei miei fratelli né tantomeno su quelle di mio padre che non riusciva neanche a badare a se stesso.

Sapevo di doverlo fare, ma dentro di me qualcosa  rendeva tutto più difficile e complicato, qualcosa che la mia coscienza si rifiutava di affrontare.

Il dolore mi logorava ogni giorno di più, una ferita che sgorgava sangue vivido, rosso, intenso, che pareva non volersi fermare mai.

Probabilmente era così che sarebbe andata a finire.

Quella era la voragine in cui sarei sprofondata.

“Grazie”

Sibilai appena, passandomi una mano tra i ricci sfatti che avevano l’aria di una massa informe ed indefinita.

“ Se avessi bisogno di aiuto…bhe,si, ecco…per aprirla, chiamami..-

Ancora una volta vedevo Becca in difficoltà, la spavalda e ribelle Rebecca, colei che non si era mai mostrata debole davanti agli altri.

Scossi la testa alzandomi dal letto, guardandola confusamente negli occhi color nocciola praticamente uguali ai miei, costante della famiglia.

Pareva voler dire altro, ma le sue parole morirono prima di essere pronunciate.

Aveva paura di ferirmi,  di essere indelicata…cosa che non era mai stata una sua caratteristica, non della Rebecca che conoscevo fin da bambina.

Mi poggiò delicatamente una mano sulla spalla, a voler dimostrare il suo sostegno, per me  comunque essenziale.

Quando mi aveva proposto di trasferirmi momentaneamente a casa sua avevo accettato, subito, senza pensarci troppo.

Avrei preferito dormire sotto un ponte che tornare in quella casa, in quel piccolo angolo di paradiso, il nostro paradiso,diventato oramai il mio personale inferno.

Ogni cosa era legata a George, ogni oggetto, dal più piccolo, al più inutile… ogni suono, ogni odore…tutto mi avrebbe riportato a dei ricordi troppo dolorosi da poter affrontare con la certezza di uscirne indenne.

E così mi trovavo a dormire nella stanza di Lena, di un tremendo rosa confetto che mi dava sempre più la nausea, in un letto che mi conteneva a malapena e con i piccoli occhietti assassini delle tante bambole di porcellana spaventosamente reali, che continuavano a fissarmi con i loro sguardi angelici, strette nei loro vestitini di fine Ottocento, con gli ombrellini e i cestini di fiori finti in belle vista.

“ Hellie…io voglio solo aiutarti lo sai. La Hellen che conosco io non potrebbe mai stare senza la sua vecchia polaroid..neanche un istante! Quindi ci siamo detti: Se Hellen non va dalla polaroid, la polaroid viene da Hellen!”

Becca mi parlò in un modo così tenero e dolce che avrei voluto piangere, come una bambina, ma quel macigno dentro di me non mi permetteva di essere umana.

Non più.

Un lieve sorriso increspò lo sguardo stanco di mia sorella, speranzosa che il suo fare materno avrebbe avuto lo stesso effetto che aveva probabilmente sulle sue figlie, che vedevano la loro madre come un modello, come la donna che avrebbero voluto essere un giorno, quando avrebbero potuto mettere i tacchi alti senza la paura di cadere.

Lei mi vedeva come la terza figlia, quella più bisognosa di affetto e di attenzioni da parte sua, come un cucciolo abbandonato, tenero e sofferente.

“ Dai, ti accompagno a finire quel servizio sul mare..ho amato quelle foto, lo sai? Erano così malinconiche, talmente realistiche da darmi l’idea di essere su quella spiaggia bianca, ad osservare le onde che si infrangevano morbide sulla costa… Vale la pena di finirlo, realmente!”

Una lacrima, una piccola ed insignificante lacrima solcò il mio viso.

Non ebbe un seguito, si infranse lenta sotto il mento, scomparendo.

“ Non capisci che l’unica cosa che vorrei aver fatto sia salire su quella cazzo di barca Becca? Non capisci che la mia vita è finita, per sempre?”

Dolore.

Rabbia.

Il nulla.

 

  

 *******

 

 

La sveglia suonò come ogni mattina, diffondendo il suo suono meccanico all’interno della grande camera da letto dalle pareti color pastello, arredata con un curato stile liberty scelto appositamente da George, che aveva un vago passato di arredatore prima di intraprendere la fortunata carriera d’avvocato.

Alzai automaticamente lo sguardo verso i numeri rossi che svettavano sul display, sperando di aver solo immaginato quel fastidioso rumore che ormai era diventato qualcosa di abitudinario per le mie orecchie.

“ Sono già le sette…”

Sbuffò George con gli occhi ancora chiusi dal sonno, sfiorandomi le spalle nude  in una delicata carezza.

“ Sono già le sette… “

Ripetei, strabuzzando lentamente gli occhi, iniziando ad intravedere una scia di luce delicata che penetrava dalle leggere tendine della stanza.

Avrei preferito rimanere a letto, odiavo dover seguire degli orari precisi.. la mia era sempre stata un indole di pigra- ritardataria se si parlava specialmente di lavoro.

“ Ti faccio un caffè?”

Chiesi, cercando di alzarmi senza troppa voglia.

Era George che mi coccolava tutte le mattine con un caffè fumante corredato da biscottini di pasta frolla, dovevo pur ripagare anche io qualche volta, anche se non avevo certo il suo stesso talento in cucina.

“ Preferisco non farmi avvelenare..”

Rispose secco, ridendo appena, ancora assonnato, ma non troppo per capire che era meglio declinare la mia offerta.

Lo guardai di sottecchi, sicura di quella risposta.

In effetti ero un vero pericolo ai fornelli, figurarsi per un semplice caffè!

Aprì gli occhi e mi guardò in silenzio per un attimo, come se contemplasse un opera d’arte.

Talvolta i suoi sguardi mi lasciavano imbarazzata, non sapevo come fare a mantenerli senza imbarazzarmi ed arrossire… mi sentivo ancora una bambina davanti a lui, così sicuro, spavaldo e consapevole di ogni gesto e parola che pronunciava.

“ Buongiorno tesoro..”

Sussurrò lentamente, rivolgendomi un fugace bacio sulla guancia.

“ Che prevede il tuo programma per oggi?”

Chiesi, come di consueto.

Avevamo tante piccole abitudini che ormai sorgevano spontanee nella nostra intimità, era qualcosa di unico, di nostro, che ci rappresentava.

Mia sorella diceva sempre che si smette intorno al settimo anno di essere la coppietta felice ed innamorata, tutta baci, coccole e carezze,  perché sopraggiungono altri dettagli della vita di coppia, ci si conosce meglio, ci si inizia ad abituare a vivere insieme… nulla più di interessante dunque, tutto una semplice routine.

Io speravo che per quell’ essere noi non ci fosse mai fine, nulla avrebbe dovuto cambiare…

“Niente di interessante… devo andare allo studio e preparare l’arringa finale per la causa dei Northon,…ma non ti libererai di me, verrò con te dal dottor Ward…”

Mi rispose, annoiato, guardandomi sornione.

“ Poi credo che me ne andrò per mare..il tempo è perfetto..”

Sentenziò, con un espressione del tutto diversa, piena di vita e di energia che animava le sue passioni.

Ogni volta che si parlava di mare, George aveva una strana luce negli occhi, qualcosa che lo rendeva felice e soddisfatto più dei successi lavorativi, nonostante fossero tanti e importanti lui era rimasto sempre con i piedi per terra.

“ Quando ti deciderai a portarmi con te?”

Non l’aveva mai fatto… era pericoloso, per le donne, come mi aveva sempre detto, ma io ero sicura che preferisse tenere quella passione per se stesso, come qualcosa di intimo e personale.

Non ero tenuta a passare quel confine.

“ Presto...la nuova barca è quasi pronta…”

Mi guardò, quasi divertito, mentre si alzava a fatica dal letto, ancora intorpidito.

“Stavolta non scherzo… manca poco, davvero! Solo gli ultimi dettagli…”

Era così serio che avrei voluto credergli!

Ormai quella barca si stava rivelando più scomoda di quanto pensassi, come una sorta di “amante”, che riusciva a rubarmelo sempre più spesso.

Almeno sapevo che non mi avrebbe tradita con nessun’altra…

Magra consolazione per chi sa che dovrà dividere l’uomo che ama con le sue passioni… perché niente lo rendeva più felice della vela e delle regate.

Quando sei lì, in mezzo al mare, sei solo. Lì con le tue paure, con i tuoi dubbi… lì, dove non ti resta altro che affrontarle.

Nonostante tutto amavo il modo in cui ne parlava, mi piaceva immaginarlo a spiegare la vela, a tirare cime e a legare cinghie…dio, quanto avrei voluto immortalare il suo vigore, la sua concentrazione che si mischiava alla pace dei sensi…

“ Lo spero davvero…sai che non la smetterò di fotografarla quando la vedrò…ovviamente tu sarai il mio soggetto preferito…”

Si avvicinò lentamente verso di me, cercando le mie mani, gelide, ma che nella sua stretta parevano scottare, ogni volta che le sfiorava solamente.

“ Ti amo anche per questo Hellie, ti amo anche quando mi accechi con quell’assurdo flash o mi assilli con pose da adone greco che proprio non mi appartengono..”

Diamine, dimmi che Becca non ha ragione, dimmi che tutto questo non finirà, questa magia ci accompagnerà per sempre, fino alla fine dei nostri giorni.

“ Lo sai che dice sempre Becca? Che arrivati al settimo anno di matrimonio l’uomo ama solo il suo divano una volta tornato a casa da lavoro…si, è psicologicamente testato! Aspetterò il nostro settimo anno per provarlo…”

Lui sorrise, scoccandomi un bacio a fior di labbra, uno di quelli che ti sembrano svanire troppo presto, anche se vorresti ancora sentire quel sapore così dolce…almeno per un minuto in più, uno soltanto mi sarebbe bastato.

“ Lo dico sempre io, tua sorella è troppo frustrata. La moglie dell’avvocato Stone fa yoga ogni venerdì, funziona sai, dovresti consigliarlo anche a Rebecca..”

Adoro quella sua smorfia quando cerca di essere serio ma non ci riesce, il modo in cui arriccia il naso trattenendo le risate o le due fossette ai lati delle labbra che si formano mentre ride…

“ Ha due figli, pardon, tre, Bob è praticamente un mollusco attaccato al suo divano e alla tv..”

Continuai, prendendo la parola.

Avere due figlie quasi adolescenti non era certo la cosa più semplice di questo mondo, specialmente quando la situazione di coppia non era certo delle migliori…ma mia sorella era sempre stata perfetta per il ruolo di madre, quasi come se fosse destinata, in un certo senso.

Ricordavo ancora quando Becca aveva poco più di dodici anni e si prendeva cura di me,  ancora bambina, aiutando mia madre alle prese con il piccolo e pestifero Max, che le toglieva ogni energia… ma mia sorella era sempre lì, pronta a farmi da mamma, sacrificando i suoi sogni di ragazzina, ma sempre con la stessa dedizione, come quella che mette nell’ educazione delle sue bambine, oggi.

“ E allora? I figli completano il quadro… lo rendono perfetto..”

Non potei non ridere alla sua affermazione, guardandolo sbalordita.

Da quando aveva questa idea, in proposito?

Mi lasciò spiazzata.

Avrei voluto dire tante cose, tante e tante di quelle parole che però non uscirono dalla mia bocca, bloccandosi.

Perché non riuscivo mai a dire niente in quelle occasioni?

“Diamine! E’ tardissimo! Non arriverò mai in ufficio in tempo di questo passo!”

In tempo, già… odiavo avere del tempo.

Era così necessario?

Perché doveva essere tutto così studiato e stabilito?

Il tempo era fin troppo beffardo per lasciarti godere della bellezza della vita… scorreva così veloce che ti sfuggiva di mano, non riuscivi più ad acchiapparlo tanto era scaltro a fuggire.

Si catapultò in bagno, mentre io gli sceglievo la cravatta del giorno, di un blu intenso, come i suoi occhi e come il mare che amava tanto.

L’aiutai con la camicia, contrastando la sua fretta con la mia imbarazzante flemma.

Che ci potevo fare? Odiavo il tempo…

Gli annodai la cravatta, mentre lo sentivo bisbigliare le parole giuste per quella sua arringa.

“ Un sorriso per la stampa!”

Esclamai, avvicinandomi al letto, per impugnare la mia arma preferita, la vecchia polaroid che stava perennemente sul mio comodino, pronta all’uso.

“ Che?”

Alzò lo sguardo, sgranando gli occhi, come se l’avessero appena svegliato dal suo fantasticare ad occhi aperti.

Era un espressione così naturale da rendere quella foto perfetta, proprio come amavo io.

“ Meravigliosa!”

Esclamai, quando l’immagine sulla pellicola si fece più nitida.

L’azzurro dei suoi occhi era qualcosa di semplicemente imbarazzante per gli altri colori, li oscurava tutti, perfino quel cobalto del mare che si intravedeva appena dalla finestra.

George mi avrebbe dato sicuramente dell’esagerata, ma era così che lo vedevo,  forte e vigoroso, dolce e allo stesso tempo ironico, tenero ma nello stesso istante sicuro.

“ Lo sai che potrei chiedere il divorzio per questo? Oh dimenticavo, sono un avvocato, non avrei bisogno di chiederlo a nessuno..”

Esclamò sarcastico, cingendomi la vita da dietro.

Giocherellò con una ciocca di capelli che scendeva libera sulle spalle, portandomi un brivido freddo lungo la schiena, freddo si, ma estremamente piacevole.

“ Correrò il rischio allora..”

Gli risposi, voltandomi e ritrovandomi stretta nel suo abbraccio.

Mi sfiorò le labbra, tratteggiandone il morbido contorno con le dita, mentre quelle smaniavano un altro suo bacio.

Un altro, un altro ancora, non chiedevo nulla di più.

“Devo andare…però, forse avrai l’onore di vedere la mia creatura. Dovrai solo meritartelo, magari ordinando dal messicano quelle piccantissime tortillas e anche i tacos non mi dispiacerebbero..”

Mi sorrise in un modo così dolce che in quel momento George mi parve un bambino, aveva quasi la stessa espressione di nostro nipote Ed, il più piccolo di casa… così innocente ed ingenua ma allo stesso modo sicura di sé.

Forse aveva preso qualcosa dallo zio…

“ Contaci..”

Rispose semplicemente, prima che lui sparisse verso le scale, pronto ad arraffare qualcosa da mangiare al volo per poi scappare al lavoro.

Avrei tanto voluto che quell'istante durasse per sempre…

*******

 

“ Oggi è venerdì, la serata del messicano! Yuppie!”

Becca talvolta era pure imbarazzante.

Eravamo tutti a tavola, io, con il mio sguardo vago e i miei capelli sporchi che si attaccavano pesantemente alla testa, dandomi un aria cadaverica, Becca e Bob, lei con un gigante sorriso e una finta allegria che mi metteva ancor più rabbia, lui, totalmente disinteressato, ma che continuava a guardarmi con compassione ed imbarazzo, in un modo che mi metteva ancor più a disagio.

A completare il felice quadretto familiare c’erano le mie nipoti, Martha e Lena, anche se facevo una fatica immane per distinguerle…Becca insisteva troppo sul fatto che dovessero essere vestite praticamente in modo identico.

Loro mi guardavano annoiate ed infastidite, io ero la causa di quel cambiamento repentino nella loro famiglia, io avevo stravolto anche le loro vite.

All’esclamazione della madre le due fecero spallucce, fingendo un sorriso con scarsi risultati.

“ Io non ho fame mà, posso andare in camera?”

Chiese Martha, la meno incline alla diplomazia e al finto buonismo che alleggiava in casa.

Bob la fulminò con la sguardo, sgranando gli occhi.

Non l’avevo mai visto così indispettito, né animarsi di una simile reazione…era amorfo quasi quanto me.

Quasi.

Non mi avrebbe mai potuto “battere” in quanto a stati vegetativi.

“ Non ci pensare nemmeno signorina! Sono stato in fila almeno un’ora per questi maledetti tacos! Diamine, che cosa ci trova la gente in questa robaccia piccante?”

Il modo in cui apostrofò il cibo messicano mi ferì, mi sentì come una bambina che nel momento in cui viene sgridata, mortificata ed impaurita.

Fu Becca stavolta a rivolgerle uno sguardo ancora più corrucciato di quello del marito, per poi cercare i miei occhi stanchi, come a voler chiedere scusa o forse solamente per capire la mia reazione, che non di fatto era inesistente.

Rimasi con lo sguardo basso, fissando gli orribili motivi geometrici della tovaglia, di uno strano color pastello, tipico del gusto di Becca.

“ Martha, non provare ad alzarti! Non hai il nostro permesso. Oggi è venerdì e noi mangiamo messicano, altrimenti puoi scordarti il tuo ballo signorina, così come per tua sorella.”

Stavolta fu Lena a guardarmi piena di rabbia, mentre io a malapena riuscivo a tenere lo sguardo alto verso di lei.

I suoi occhietti scuri mi dicevano odio, un odio che non aveva mai avuto verso di me, mai, neanche quando la costringevo a stupide pose per le mie foto o troppo invadente, cercavo di scoprire le sue prime cotte, così come per sua sorella.

Le volevo bene, come delle figlie…le figlie che non avevo e che non avrei mai avuto.

“I figli completano il quadro… lo rendono perfetto..”

Solo che quel quadro mancava del suo pittore, del protagonista principale… niente sarebbe stato lo stesso, niente.

Alzai nuovamente lo sguardo verso le bambine, notando come sia Martha che Lena arricciassero le labbra e la fronte mentre mangiavano la salsa piccante dei tacos.

Era come l’ennesima pugnalata che si staglia su quella ferita, ancora aperta e che forse mai si richiuderà, perché non esiste cura a quel dolore, non esiste rimedio e l’avevo capito da tempo ormai.

Volevo solo che lo capisse Becca, ma la cosa era praticamente impossibile…si ostinava a credere che il tempo sarebbe stata la mia salvezza, che avrei visto tutto da una prospettiva diversa.

Ma non capiva che vivevo soltanto aspettando il momento che mi avrebbe ricongiunto a George, dovunque egli fosse andato?

Paradiso, inferno…non era importante, io l’avrei seguito dovunque.

Pensare che l’avrei rivisto alleviava qualche mia sofferenza, quella stupida ed inetta speranza che teneva accesso quel barlume di vita nei miei occhi, solcati dalle occhiaie violacee che mi davano un aspetto terrificante.

“ Non mangi?”

Mi chiese Becca, in un modo così freddo e distaccato che mi stupì.

La nostra precedente conversazione non era stata certamente delle migliori… ma non riuscivo a frenarmi, non riuscivo ad avere una diversa reazione.

Non riuscivo a dirle grazie, perché nonostante tutto mi stava aiutando.

Presi un tacos, svogliatamente e se senza neanche pensarci lo portai alla bocca.

Sentivo il respiro affannarsi, il cuore esplodermi dentro, i muscoli rigidi e praticamente immobili.

Mi morsi le labbra, istintivamente, singhiozzando.

Non volevo, non volevo che mi vedessero così, non dovevano.

Ma le lacrime, si quegli insipidi fiumi, scesero vorticosi sulle mie guancie e io stavolta non potei fare nulla per fermarle.

Abbassai lo sguardo, nuovamente, mentre nessuno accanto a me si mosse, sentivo le loro occhiate, impietrite, imbarazzate…nessuno sapeva come trattare la povera piccola Hellen in quel momento, nessuno riusciva a trovare le parole giuste.

Mi sentivo morire… e in un certo senso sperai che fosse realmente così.

Quel mondo era stato il mio paradiso ed il centro esatto del mio inferno.

Quando rialzai lo sguardo vidi Becca piangere, silenziosamente, con gli occhi fissi su di me, come se quel pianto non la stesse toccando.

Mi dispiace, le avrei voluto dire, mi dispiace ma non ci riesco, non riesco a vivere così.

Ma non lo feci, non lo feci mai.

Spostai rapidamente gli occhi verso Bob, nella sua solita mistica espressione di imbarazzo,

mentre Martha e Lena sembravano sul punto di unirsi al pianto della madre, quasi come se si sentissero in colpa.

“Hellie..”

Il mio cuore forse smise di battere, il mio respiro si mozzò senza più riprendere in una normale circolazione.

Il sangue pareva essersi ghiacciato nelle vene.

Alzai il capo,in direzione della voce, senza capire.

Quella voce, così calda e familiare, quella voce che aveva riempito le mie giornate…quella stessa voce che avrebbe dovuto riempirle per sempre.

“George?”

Dissi, con l’ultimo filo di voce, rotto tra le lacrime e i singhiozzi sempre più frequenti.

Lui era lì, di fianco a me.

Aveva un tacos in mano e il suo sorriso garbato e incredibilmente dolce sulle labbra.

Quando i nostri sguardi si incrociarono fui sicura di essere morta, di essere finalmente accanto a lui.

Mi guardò, ridendo.

Aveva la cravatta blu, l’ultima cravatta che avevo scelto per lui, la mattina prima dell’incidente… blu come i suoi occhi, splendidi come sempre.

“ Ottimi tacos, tesoro..”

Mi alzai dal tavolo repentinamente, cercando di raggiungerlo e ritrovare la sua stretta.

Arrivai alla sedia.

Vuota.

Mi aggrappai allo schienale, scivolando in ginocchio, senza riuscire a fermare quel singhiozzare isterico e convulso che si era impadronito di me.

“ Bambine,andate in camera vostra..”

Fu questa l’unica cosa che udì, la voce calda di Becca, incorruttibile, che ordinò alle sue figlie di andarsene.

Non meritavano di vedermi in quello stato.

Sentì i loro piccoli passi verso le scale, passi che divenne corsa accelerata.

Bob chiuse la porta a soffietto dietro di lui, rimanendo in disparte, mentre Becca si avvicinava accanto a me, stringendomi come poteva in un abbraccio.

Pianse, pianse sempre più forte, insieme a me, come due bambine, quello che forse non avremmo mai smesso di essere, nel bene o nel male.

“ Mi dispiace, mi dispiace Becca.”

Farfugliai, quasi urlando tra i singhiozzi.

La sentì tremare e sentì ancor più il bisogno di abbracciarla, di sentirmi piccola ed indifesa tra le sue braccia, come in quel passato che mi pareva talmente recente, come quel film che rivedi in continuazione, emozionandoti, piangendo tutte le tue lacrime, ridendo di quell’orribile vestito a pois che tua madre ti obbligava a mettere…

Rimanemmo abbracciate per tanto di quel tempo che mi parve di immaginare tutto, di non stare vivendo realmente tutto ciò.

Vivevo in bilico, tra l’illusione e il mondo reale, tra i sogni e gli incubi…io era in mezzo, nella tempesta.

Scura, buia, irta di difficoltà che avrei affrontato.

Da sola.

Perché?

Perché doveva succedere?

Perché non sei più con me?

 

 

 

 

*******

 

 

“ No, non è ancora tornato. No, papà stai tranquillo, ho chiuso tutto, nessun lupo cattivo verrà a rapirmi. Poi George sarà qui a momenti!”

Mio padre, sempre il solito apprensivo.

Da quando mamma era morta era diventato così ansioso e paranoico…non era più lo stesso uomo da quando aveva visto mia madre chiudere gli occhi, per sempre.

Non potevo biasimarlo e non riuscivo a dirgli di allentare la presa con noi… nessuno di noi avrebbe potuto farlo.

Osservai il mare, scostando la tendina dalla finestra della cucina, sperando di vedere la vela di George svettare all’orizzonte.

Lo facevo sempre, di nascosto, ma ero a conoscenza del fatto che George sapesse che lo spiavo quando rientrava dalle regate.

Il mare quella sera mi fece paura.

Le sue onde si stagliavano rumorosamente contro gli scogli laterali, mentre risucchiavano la sabbia della spiaggetta centrale, quasi sovrastandola.

Era di un colore così scuro, quasi nero, macchiato appena dalla schiuma bianca che si distingueva a fatica.

La voce di mio padre, metallica al telefono, mi fece desistere.

“ Si sono ancora qui papà, stavo preparando i tacos… si, oggi è venerdì e si, oggi mangiamo messicano.”

Mio padre odiava quel genere di cucina da take away, non la riteneva sana, ma soprattutto non era adatta, secondo lui, per essere presentata ad un marito stanco dal lavoro.

“ Tua madre mi cucinava sempre delle cenette deliziose, niente a che vedere con queste robacce americane che non sai come diavolo le cucinano!”

Risi, adoravo il modo goffo con cui mio padre cercava di prendersi cura di me.

“ Messicano papà e stai tranquillo, sappiamo come diavolo le cucinano, ormai siamo degli habitué, conosciamo tutti i segreti necessari!”

Un rumore sordo mi bloccò, con il telefono stretto tra le mani quasi come se fosse un arma.

“ Che cos’è stato tesoro?”

Onde.

Si stagliavano contro gli scogli con una potenza davvero sovraumana… non l’avevo mai viste di così forti e spaventose.

“ Oh nulla papà, credo che dovresti guardarmi il forno uno di questi giorni…fa dei rumori strani delle volte..”

Osservai l’orologio al muro, quasi incantata dal suo ticchettio.

Erano le dieci.

George non rientrava mai dopo le nove… era questo il nostro compromesso.

Quella sera mi pareva tutto strano, diverso…le mie convinzioni sembravano vacillare nel buio.

“ Ma se l’ho controllato meno di un mese fa! Avete ancora tutto nuovo e fiammante! Ecco, lo sapevo…queste grandi produzioni cominciano a rivelarsi per quello che sono, scarsa qualità, coperte da un nome che vi illude.. ah, devo dirvele io queste cose!”

Sospirai, sperando di vedere la vela di George svettare all’orizzonte e di dover così chiudere quella conversazione con mio padre.

“ Tuo marito non è ancora tornato? Non aveva il coprifuoco delle nove?”

Il suo tono inquisitore mi infastidì, ma non replicai in alcun modo se non rispondendo alla sua domanda con più tranquillità possibile.

Non vedeva di buon occhio il fatto che dovessi rimanere sola mentre George faceva vela… era sempre più preoccupato per il fatto che mi sarebbe potuto succedere qualcosa, non era conveniente per una donna stare in casa da sola, di notte.

Poteva succedere qualsiasi cosa, diceva lui, cose che la donna non poteva affrontare da sola.

“ Sta per rincasare papà…ecco, ho appena visto la sua vela! Tranquillo papà, è arrivato… ora puoi lasciarmi vivere in pace?”

Sentì la sua risatina divertita e mi rassicurai… mi conosceva troppo bene per poter prendersela per qualche battuta.

Mi diceva sempre che ero come la mamma per questo, ironica e pungente, sarcastica si, ma sempre con il sorriso sulle labbra.

Apprezzavo questi complimenti, perché essere paragonata a mia madre mi riempieva di orgoglio, mi faceva sentire fiera di me stessa per una volta nonostante la mia autocritica non mi  permettesse di essere positiva in nessuna situazione.

Forse l’apprensione l’avevo presa da papà..

“ Aspetta tesoro! Sei andata dal dottor Ward vero? Lo sai che sono preoccupato Hellen…non farmi stare in pena.”

I miei occhi e la mia attenzioni erano riferiti alla vela di George che intravedevo appena, spiccando tra il nero scuro del mare.

Un'altra onda, poi altre due, vicine e potenti come la precedente.

Non riuscivo a distinguere la sottile linea immaginaria che separava il cielo dal mare…erano entrambi di un nero scuro, tenebroso e cupo…terrificante.

Eppure continuavo a guardare  quello spettacolo, concentrata sulla piccola vela che procedeva veloce verso casa, pronta a mostrare il broncio a George per quel ritardo, anche se sapevo che non sarebbe durato a lungo…lui sapeva come farsi perdonare, sempre.

E forse, quella sera ero io quella da perdonare.

“ Si papà proprio oggi, avrò il referto in questi giorni, ti chiamerò appena saprò qualcosa, non preoccuparti! Devo andare adesso, mi raccomando, prenditi una bella tisana prima di andare a dormire, sono sicura che domani ti sentirai meglio! Buonanotte papà…ti voglio bene”

Lo sentì sospirare mentre gli facevo la predica, ma sapevo che infondo gli piaceva essere coccolato, al centro delle nostre attenzioni.

Era peggio di un bambino delle volte!

Quando finalmente terminai quella logorante conversazione al telefono con mio padre, un rumore sordo, un bussare probabilmente, mi portò alla realtà.

George!

Non ci eravamo lasciati bene, dopo la visita dal dottor Ward, ma adesso non era importante.

Adesso volevo solo abbracciare mio marito e far finta che i nostri problemi fossero risolti.

Suonò nuovamente, con insistenza.

Aveva dimenticato le chiavi anche stavolta?

Gli uomini…

“ Lo sai che ore sono vero? Ti manderei a letto senza tacos!”

Quando aprì la porta il mio cuore si fermò.

Il mio sangue sembrò diventare acqua, le nocche delle mi ginocchia , burro, i miei muscoli parvero lasciarmi.

“ Carl…Carl, dov’è George?”

La mia voce divenne stridula, quasi un urlo che non trovava eco.

Mi bruciò la gola a tal punto da sentirmi soffocare, ma continuai ad alzare la voce mentre osservavo lo sguardo addolorato e commiserevole di Carl, amico d’infanzia di George che l’aveva seguito sempre in ogni sua peripezia.

Non l’avevo mai visto così…piangeva?

Sembrava voler trattenere i mugugni e i singhiozzi, stringendo le labbra, ma i suoi occhi parlavano da solo.

“ Dov’è George? Dov’è?!”

Lo strattonai, come se fosse uno di quei giocattoli a corda a cui manca quella spinta per far partire l’ingranaggio.

Lui mi poggiò una mano sulla spalla, cercando di abbracciarmi.

“ Non toccarmi Carl, non toccarmi! Dimmi dove diavolo è George!!”

Carl abbassò lo sguardo per un attimo, calando quelle difese così fragili, liberandosi.

“  Il mare, il mare stasera….la sua barca non ha retto…è stato un incidente…  bhe, io

E’ morto,Hellen.. è morto”

Il  mio cuore si fermò.

Il mio sangue sembrò diventare acqua, le nocche delle mi ginocchia , burro, i miei muscoli parvero lasciarmi.

Di nuovo.

Mi portai una mano alla bocca, quasi a voler nascondere la potenza di quell’urlo che si impadronì di me, gettandomi per sempre nel baratro che mi avrebbe risucchiato pian piano, cibandosi di me…giorno dopo giorno.

“ Non è vero Carl, non è vero, non è vero! Non può essere, non può…”

Battei i pugni sul suo petto, cercando di divincolarmi dalla sua stretta, ma fu inutile.

Non avevo più le forze, io ero morta in quell’istante, in quell’istante che avevo perso per sempre la mia vita.

Mi tenne stretta tra le sue braccia, come farebbe un padre con una figlia, mentre le nostre lacrime si univano ai nostri singhiozzi che mi laceravano il cuore, distruggendolo.

Carl e George erano praticamente come fratelli, erano cresciuti insieme, si erano spalleggiati ed aiutati in ogni situazione, erano diventati uomini, maturi, responsabili… insieme.

Capivo il suo dolore, era lo stesso che attraversava ogni fibra del mio corpo in quel momento.

“ Mi dispiace Hellen…mi dispiace! Ho fatto di tutto per salvarlo, ma è stato tutto inutile…il mare non perdona, non si ferma davanti a nulla..”

Non sentì neanche le sue parole…erano un mugugno incomprensibile, lontano ed inascoltabile, percepì appena la sua ultima frase, ma capì che era stato il mare a strapparmelo via, a prendere la sua vita per sempre, lì dove lui l’aveva sempre ritrovata.

Mi sciolsi dalla sua stretta, dirigendomi verso la spiaggia, mentre la pioggia sibillina si fondeva alle mie lacrime, annidandosi tra i capelli e inzuppando i miei vestiti, appesantendoli.

Mi sedetti su uno scoglio, guardando fissa due onde che si avvicinavano svelte, quasi come se fossero due squali pronti a sbranarti.

Volevo che il mare prendesse anche me, che distruggesse quello che restava in piedi della mia vita, così forse tutto sarebbe stato più facile, così forse non avrei patito nessuna sofferenza.

“ Hellen! Hellen!”

Sentì il grido di Carl in lontananza, ma sapevo che niente avrebbe potuto farmi desistere da quello che avevo scelto come mio destino.

Bisognava che si compisse, ora.

Un’onda, poi l’altra.

Mi sommersero.

Battei la testa all’indietro, le ginocchia si sfregarono contro la roccia scolpita, l’acqua mi otturò ogni via respiratoria…ma non sentì dolore.

Nessun dolore mi pareva insormontabile adesso che avevo provato sulla mia pelle quello più deleterio, che mi aveva ucciso lentamente.

Quello era solo il modo per raggiungerlo, per sperare di poter sfuggire dall’incubo in cui sarei incappata.

Niente aveva senso, niente aveva importanza.

Avevo smesso di vivere.

Due corpi, una sola anima.

Si, ma la mia anima se n’era andata con lui.

Non sarebbe più tornata, mai più.

 

 

*******

Avevo preso ogni tipo di intruglio, Bob era un medico e aveva mille rimedi adatti al mio squilibrio.

Si, ero pazza, ero apparsa così agli occhi delle mie nipoti, agli occhi di due bambine che non hanno ancora il diritto di avere paura, di conoscere il lato oscuro della vita.

Io l’avevo fatto, avevo appena distrutto quel piccolo mondo colorato in cui Becca aveva fatto crescere le bambine, quasi come se i sogni potessero essere realtà.

Quando tornai in camera, mi accorsi di non essere sola.

“ Scusami, scusami zia, non volevo disturbarti…e solo che volevo scegliere le mie scarpe per il ballo…”

Aveva paura ad entrare in camera sua, ero arrivata anche a privarle dei loro spazi.

Una bambina ne aveva bisogno, aveva bisogno di avere la propria indipendenza ed autonomia…io le stavo negando anche quello.

“ Tesoro, sta tranquilla. Puoi entrare qui dentro quando vuoi…è camera tua, non mi devi chiedere il permesso!”

Lena annuì, non troppo convinta.

Una certa freddezza, mista al timore di dire o fare qualcosa di sbagliato, si insinuò tra noi, rendendo il rapporto di amicizia che c’era sempre stato tra noi come qualcosa di distaccato, come se fossimo state due perfette estranee prima di allora.

Mi sedetti sul letto, raggruppando le ginocchia al petto, continuandola ad osservare mentre meticolosamente sceglieva il paio di scarpe giuste per il ballo, tra le centinaia che aveva a disposizione.

Quando pensai che ormai il silenzio avesse avvolto la stanza, rendendola ancor più fredda ed inospitale, Lena parlò, timidamente, senza guardarmi, continuando a fissare le scarpe come se il mio sguardo le mettesse soggezione.

“ Manca anche a me lo zio George lo sai? “

Mi sentì morire, dentro, ancora una volta.

Non potevo permettere che loro conoscessero il dolore, non ancora.

Loro potevano ancora credere che la  loro vita sarebbe stata realmente qualcosa di assolutamente meraviglioso.

Un quadro perfetto, senza imperfezioni.

Invece si erano ritrovate catapultate in quel vortice, in quell’oscurità.

Perché?

Cos’era? Il destino?

Quella stupida giustificazione che gli uomini tentano di dare agli avvenimenti della vita?

L’unica cosa che so è che la vita fa schifo.

Ti inganna, ti manipola, ti permette di provare delle emozioni e poi… nel momento più bello, stravolge, distrugge, cancella.

Come le onde.

Le onde che modellano la sabbia, la spianano, modificandola e plasmandola a piacimento, distruggendo le basi, rendendole il nulla.

Solo sabbia, inutile sabbia.

Non riuscì a muovermi dal letto, come sempre, qualcosa di più forte mi teneva inchiodata e rigida nella stessa goffa posizione.

“ Perché capitano queste cose zia Hellie? Perché a zio George?”

Si voltò, guardandomi con un aria così matura e razionale che mi stupì.

Era la stessa Lena che un attimo prima si lamentava, sbuffando, della cucina messicana, o quella che teneva ancora i suoi vecchi giocattoli in una cesta accanto al letto… non era più quella bambina.

Era come se si fossero invertiti i ruoli.

Era come se la bambina ingenua adesso fossi io, quella bisognosa di protezione.

Stava aprendo gli occhi oltre il confine dorato della vita, ponendomi una domanda a cui nemmeno io ero riuscita a dare risposta.

Perché?

Già, perché?

Perché era dovuto capitare a noi? Perché non potevamo continuare ad essere felici, insieme?

Perché?

“ Non lo so tesoro.”

Risposi algida, tradendo quella che poteva definirsi come emozione.

Lena studiò  attenta il dispiegarsi delle rughe accanto agli occhi e il rilassarsi del mio viso, fissandomi con un aria sicura, risoluta.

Mi dava coraggio.

Mi dava conforto.

Si avvicinò al letto, permettendomi di abbracciarla, mentre la sentivo singhiozzare lentamente.

Non dissi nulla.

Sapevo quanto sia Martha che Lena amassero George, lui era sempre stato un secondo padre per loro, più caparbio e capace di Bob con i bambini che vedevano nello zio, un compagno di giochi, un adulto bambino con cui potevano rapportarsi senza correre il rischio di beccarsi un rimprovero o un richiamo.

Lo zio George.

George che non sarebbe mai potuto essere padre.

Perché?

Era l’unico interrogativo, tanti perché , che impazzavano nella mia mente senza una degna risposta che riuscisse a soddisfarmi.

“ Grazie”

Laconico si, ma sincero.

Sentì semplicemente il bisogno di dirlo, di dimostrare che ero ancora umana, che apprezzavo gli sforzi che tutti facevano per me, la piccola e ferita Hellie, che necessitava di cure speciali.

“ Puoi venire qui quanto vuoi piccola…è camera tua, non voglio che tu ti senta in dovere di chiedere il permesso o di accettare questa situazione solo per fare un piacere alla mamma, va bene?”

Lei mi sorrise, scoccandomi un piccolo bacio sulla guancia, annuendo.

Erano i piccoli gesti che mi facevano felice, quei piccoli accorgimenti che mi mancavano da impazzire da quando George era scomparso.

“ Notte zia!”

Raccolse le sue scarpe e mi salutò, svolazzando allegra fuori dalla camera, provando chissà qualche passo per il ballo,ormai alle porte.

Rimasi sola.

Io.

E la scatola, che smaniava di essere aperta.

 

 

 

*******

 

 

Respira.

Respira insomma.

Sono seduta da ore, in una saletta dalle pareti color lavanda con la solita ansia che mi mette l’attesa.

Aspettavo da ore, la gente andava e veniva lenta trascinandosi le loro enormi cartelle e i sorrisi forzati.

L’attesa mi logorava, l’impotenza mi uccideva.

Non pensavo.

Per un attimo parve pure che non respirassi, che tutto fosse fermo.

In attesa.

Mi concentrai su qualcosa, su qualcosa che potesse rimettere in circolo le normali funzioni vitali.

Rosa.

Probabilmente le pareti sono solo di un rosa fin troppo acceso e fastidioso alla vista.

O di un lavanda troppo debole per essere tale.

Già, non importava che cosa fosse la fonte della mia concentrazione.

Poteva essere il dettaglio più banale, il particolare che non avevo colto.

Ma doveva essere qualcosa.

Se avessi continuato a pensare al perché, al motivo di quell’attesa logorante probabilmente avrei scaraventato una sedia contro la porta dell’ufficio Ward.

Una di queste sedie.

Saranno di legno massello?

Il tavolino è meraviglioso.

Con i piedi bassi, la superficie di vetro satinato, curato, delicato, elegante.

Potrebbe stare bene in salotto.

Già, non importava che cosa fosse la fonte della mia concentrazione.

Poteva essere il dettaglio più banale, il particolare che non avevo colto.

Ma doveva essere qualcosa.

“ Va tutto bene? Fissi quel tavolo da almeno mezz’ora…vuoi rubarlo forse? Mi dispiace, il mio portabagagli non è così grande da poter soddisfare i tuoi bisogni da cleptomane tesoro.”

George.

Il mio stupido ed adorabile George.

Guardare i suoi occhi mi faceva sentire meglio.

Il suo sorriso.

Il suo sorriso mi mandava in estasi, un paradiso in cui ero entrata dal backstage, superando i grossi omaccioni addetti alla sicurezza, con gli occhiali scuri e i tatuaggi.

Ok, questo paragone fa decisamente schifo.

“ Tranquillo, penso che verrò stanotte, sai, dicono che gli allarmi qui facciano alquanto schifo… non sarà difficile, poi, potrei sempre rubare un jeep per portare via tutto. Qualche richiesta? Mi piacevano anche le tende sai, secondo me starebbero perfette in camera da letto…”

Sorrise, di nuovo.

Ed io sarei voluta rimanere ore a guardarlo, a sperare che non fosse uno di quei sogni dove ti risvegli proprio sul più bello.

Per una volta non volevo cadere dal letto e ritrovarmi abbracciata ad un cuscino macchiato del mio rossetto rosso, quello delle occasioni.

Quel sogno era la mia vita.

“ I coniugi Potrait? Prego, il dottor Ward vi sta aspettando…”

La vecchia infermiera, Miranda, come diceva il piccolo cartellino che troneggiava sul suo camice verde pistacchio, ci chiamò, con il suo solito tono discreto.

Ok, potevamo farcela.

Niente paura, nessun timore.

Varcando la porta, attraversando i cerchi di fuoco e oltrepassando il campo minato avrei finalmente appreso la verità.

Ennesimo buco nell’acqua?

Ennesimo no?

Ero una donna sterile?

Oh santo cielo, come potevo essere sterile?

Non è una di quelle cose che si trasmette geneticamente?

Sono figlia di una donna che è riuscita a partorire tre pargoli senza nessuna difficoltà, mia sorella ha due figli…io?

Io sono quell’ingranaggio rotto che si rifiuta di girare nel verso giusto, che blocca il grande orologio che, spietato, continua a girare.

La vita non mi avrebbe aspettato, non avrebbe atteso il momento giusto.

Sarei diventata vecchia, pesante, rugosa ed il mio corpo un catorcio da rottamare.

Era quello il momento.

Quello in cui la mia vita avrebbe trovato un compimento.

“Andiamo…”

La mano di George mi strinse la spalla.

Non sorrideva più.

Non vedevo più quella tranquillità che rendeva ancor più dolci e delicati i contorti del suo viso.

Perché?

Mi alzai, con le cartelle tra le mani.

Ma non avevo quel sorriso, quello di tutti gli altri pazienti che affollavano la sala d’attesa del dottor Ward.

Non riuscivo neanche ad impormi di essere tranquilla.

Varcammo la porta.

Niente poteva essere più doloroso di un ennesimo buco nell’acqua. Di un ennesimo no.

Nessun cerchio di fuoco, nessun campo minato.

Avrei sopportato qualsiasi cosa.

Ma…ma avevo davvero la forza di guardare in faccia la verità?

Di osservare come, nel modo più spietato e meschino, mi avrebbe dato l’ennesima sentenza?

Questa è la vita, avrebbe detto qualcuno.

Bhe, allora questa vita fa schifo.

 

 

 

 

Personale dedica a Barbara ;D

Grazie darlingah, per avermi sostenuto anche stavolta!

 Come sempre scusate per l'html °-°

 

 

 

  
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