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Autore: Mitsutsuki    02/04/2010    1 recensioni
[1 Fratelli] [2 Flagello]
Accademia Militare. A circa tre anni dalla tentata invasione aliena.
Aveva la brutta abitudine di attribuirsi qualità che in realtà non aveva. Ed era per convincere se stesso e gli altri che cercava di comportarsi in funzione di quelle.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kisshu Ikisatashi/Ghish
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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Flagello
Per soggetti irrequieti


Aveva sempre pensato di essere una persona paziente.
A dire il vero, aveva la brutta abitudine di attribuirsi qualità che in realtà non aveva. Ed era per convincere se stesso e gli altri che cercava di comportarsi in funzione di quelle.
Con risultati ovviamente disastrosi.
La pazienza, soprattutto, non era tra le sue virtù. Dubitava lo sarebbe mai stata.
Tre lunghe ed estenuanti ore aveva taciuto, ingoiato in silenzio imprecazioni e minacce, riuscendo persino a tenersi lontano da qualsiasi oggetto contundente.
Kisshu Ikisatashi aveva resistito. Non solo quel giorno, bensì molti altri.
Ma arrivava per tutti il momento di oltrepassare la linea di demarcazione tra la sopportazione e la collera. Era un tratto estremamente volubile, certo, soggetto a stress, umore e a chissà quali altri fattori. Ma esisteva e lui l’aveva appena superato.
Respirò a fondo. Molto, molto a fondo, mettendosi composto su una delle sedie attorno al tavolo, in cucina. Spostò alcune foglie da davanti a sé e respirò ancora.
— Taruto. —
Non gridò. Lo chiamò soltanto, come se l’avesse avuto accanto.
Poco dopo, e non prima di essere inciampato nelle proprie piante, il bambino arrivò di corsa, saltando allegro sulla sedia accanto alla sua.
Kisshu lo squadrò come se lo vedesse per la prima volta.
— Noi due non andremo mai d’accordo. — Sentenziò, trovando subito il consenso dell’altro. — Però, se ti mettessi tranquillo, forse potremmo convivere. Almeno a qualche metro di distanza. — Calcò molto sulla parola “forse”.
Taruto sorrise, furbo, e a Kisshu sembrò che desse un piccolo cenno del capo a qualcosa sopra di lui.
Qualcosa che, comunque, non esitò a cadergli in testa: una mela. O, per lo meno, una mela era quanto di più riconducibile conoscesse. Gli alberi da frutta non gli venivano particolarmente bene e, di solito, ore di duro lavoro venivano ripagate con alberelli smunti o frutti marci.
Quella mattina, invece, si era impegnato talmente tanto da riuscire a evocare un albero degno di tale nome e le cui fronde, piene di frutti duri come pietre e neri come pece, coprivano l’intero soffitto della cucina.
Kisshu respirò a fondo ancora una volta, “ma questa è l’ultima, alla prossima lo uccido”.
— Senti, — riprese, cercando di modulare la voce ad un tono di fredda minaccia — o ti metti tranquillo, o farò in modo di spedirti dritto dritto all’Accademia. Hanno un corso speciale per i tipi irrequieti come te. —
Voleva spaventarlo.
Voleva che la smettesse di agitarsi come un contadino isterico quando i raccolti vanno a farsi fottere per il ghiaccio.
Pensava che le sue parole si sarebbero abbattute su di lui come una condanna capitale, una terribile punizione, un flagello divino, l’apocalisse!
Guardando Taruto, però, ed osservando come si fosse alzato vittorioso sulla sedia, Kisshu pensò che quel bambino funzionasse al contrario. O che gli mancasse qualche rotella. Era la stessa cosa, in fin dei conti.
— Sapevo che prima o poi avresti ceduto! — Esultò Taruto, pieno di sé dalla gioia — Però, ti devo fare i complimenti, hai resistito più di quanto credessi! Bravo davvero! —
Una parte dell’altro cominciò lentamente a scavarsi una fossa per il centro del pianeta. Lì avrebbe fatto sicuramente più caldo.
— Aspetta. Aspetta un attimo. Tu... hai programmato tutto sin dall’inizio?! — Domandò incredulo. Era impossibile che un moccioso di sette anni avesse davvero pensato a un piano tanto diabolico!
Taruto annuì orgoglioso, mentre Kisshu faceva finalmente mente locale.
— Quindi mi hai fatto dannare l’anima solo per andare all’Accademia! —
— Sissignore! — Esclamò il bambino, sull’attenti, sempre in cima alla sedia.
— Scordatelo. —
Come se quella parola avesse smosso il pavimento, Taruto perse l’equilibrio e cadde a terra. Trattenne un gemito di dolore mentre si rialzava, più o meno decentemente.
— Come? — Domandò avvilito con un filo di voce. E dire che c’era quasi riuscito!
Kisshu scosse il capo — Non ti lascerò vincere tanto facilmente. —
Ci fu una pausa di silenzio. Tendendo l’orecchio si sarebbero potute sentire le piante rampicanti estendere i loro domini sulle pareti, ormai crepate dalle radici. Alla prima scossa, per quanto lieve, sarebbe venuto giù tutto.
Taruto assunse un’aria di sfida, incrociando le braccia e piantando bene i piedi in terra — Dammi ancora un’ora e supplicherai Pai di farmi andare all’Accademia. —
— Non contarci. —
Il bambino sbuffò, quindi gli diede le spalle si allontanò di gran carriera. Sullo stipite volle girarsi a dargli un ultimo avvertimento — Sai, una volta ho fatto perdere la pazienza persino a Pai. —
Sorrise, vedendo l’espressione incredula di Kisshu.
— Non ti credo. — Affermò deciso — E’ impossibile. —
Scrollò le spalle — Libero di non farlo. — Disse, cambiando stanza.
Kisshu sbuffò. Era curioso di vedere cosa si sarebbe inventato quel bambino pur di vincerlo.
Ma non ce l’avrebbe mai fatta. Dopotutto, lui sapeva essere una persona molto paziente.

Sospirò, abbandonando definitivamente la revisione del proprio progetto. Andava consegnato nel tardo pomeriggio, ma sicuramente al signor “Non ho un cognome” non importava granché.
Si girò, portando una mano su un fianco — Cosa non ti è chiaro del monosillabo “no”? La “n”? O forse la “o”? — Domandò ironico, ignorando l’occhiataccia carica di odio che gli rifilò l’altro.
— Senti, io amo i bambini. —
Mentiva. Oh se mentiva. Era come se ogni fibra del suo essere gridasse onore alla menzogna.
— Ma...? — Gli suggerì, visto che si era ammutolito di colpo.
— Non volevo dire “ma”. — Lo contraddisse secco Kisshu, ostentando un atteggiamento offeso.
Si domandò cosa mai gli facesse presupporre che fosse tanto stupido.
Era ovvio che volesse dire “ma”!
— Però... —
Appunto.
— Taruto è un bambino molto, molto, molto disturbato. —
Pai sospirò. Probabilmente per la quinta volta da quando Kisshu era entrato in una delle tante sale dell’ala scientifica dell’Accademia.
Guardò ancora una volta lo sguardo del ragazzo contrarsi in una falsissima smorfia di dispiacere e contrizione. Che attore sprecato.
— Quindi — continuò Kisshu, ormai arrivato al nocciolo del discorso — lasciarlo alle amorevoli cure degli istruttori accademici è la cosa migliore da farsi. —
Prese fiato. Era una sua impressione, o andava ripetendo le stesse frasi da quasi un’ora? Aveva la gola secca.
— No. —
Strinse i pugni, trattenendo - non seppe mai spiegarsi come - il fiume di insulti che tanto avrebbe voluto sbrodolargli addosso.
Tra le innumerevoli cose che a Kisshu proprio non andavano a genio c’erano le persone ostinate. E il signorino Pai svettava al primo posto nella sua personalissima classifica.
— Perché? — Domandò con un tono involontariamente lamentoso.
Pai scrollò le spalle — E’ un giorno alla settimana. Per quanto possa essere disturbato, confido che sopravviverai. —
Stava valutando l’allettante ipotesi di ucciderlo sul posto, quando gli occhietti piccoli e indagatori del comandante bussarono alle porte del suo cervello.
Scosse il capo. Finché non sapeva come farlo passare per un incidente, l’omicidio andava dimenticato.
— No che non sopravviverò! — Ribatté.
Era stato attento. Aveva ceduto alle pretese di Taruto, ma non si era ancora masticato l’orgoglio supplicando Pai. Doveva rimanere come ultima ancora di salvezza.
Pai, dal canto suo, alzò gli occhi al soffitto e tornò a dargli le spalle, trovando decisamente più interessante la superficie sferica di un computer, tra i tanti presenti nella sala.
— Sono praticamente cresciuto insieme a lui. Sopravviverai. Non è cattivo. —
Kisshu sbuffò, portandosi dall’altra parte del computer — Non ho detto che sia cattivo, ho detto che è disturbato. — Puntualizzò — E io non sono te, quindi potrei anche morire. —
Lo sentì sospirare, di nuovo, non ancora del tutto preso da quella miriade di dati che gli passava davanti agli occhi.
— Ti prego, Pai. —
Corrucciò la fronte perplesso: o la sua voce era completamente andata, o era stato qualcun altro a parlare per lui. Propense per la seconda ipotesi, non essendo ancora giunto il momento di calpestare il proprio orgoglio il quel modo indecente.
Pai gli indicò l’armadio incavato nel muro alla sua sinistra, senza per questo staccare gli occhi dal computer.
Se possibile, assunse un’espressione ancora più scettica, avvicinandosi al punto indicato. Avrebbe dovuto contenere noiosi file e dati, raccolti in dischetti o “chiavi”. Qualche computer di riserva e altri complicati gingilli da scienziato che a Kisshu non sarebbero ma interessati davvero.
Fece scorrere un’anta lungo la parete. Poi l’altra.
Guardò in basso, dove, rannicchiato sotto il primo ripiano accanto ad alcuni scatoloni, Taruto aveva origliato tutto.
Già prima aveva notato che fosse piccolo anche per la sua età, ma non avrebbe mai pensato potesse infilarsi in così poco spazio!
— E tu come diavolo hai fatto ad arrivare qui? —
Taruto gattonò fuori dal suo nascondiglio. Dovette constatare amaramente che non gli faceva male praticamente nulla. Il che voleva dire che era davvero, ma davvero, piccolo: qualsiasi altro bambino della sua età avrebbe fatto fatica a stare lì sotto.
Sospirò, sconsolato — Beh, ti ho seguito, no? — Rispose poi con un’alzata di spalle.
Dall’altra parte, Pai aveva smesso di guardare il computer.
— Se avete intenzione di coalizzarvi, lasciate perdere. — Disse — Taruto aspetterà di avere l’età minima. Non si discute. — E tornò al proprio lavoro di revisione.
Kisshu guardò Taruto con la coda dell’occhio — C’è un età minima? —
— Dieci anni. — Gli rispose l’altro, ormai demoralizzato. Aveva visto il suo infallibile piano crollargli davanti agli occhi sotto poche, semplici, parole.
Che tristezza.
— Cioè... — Kisshu fece un rapido conto, prima di sbarrare gli occhi, inorridito — Mancano ancora tre lunghi anni! —
— Già. —
Troppo tempo per entrambi.
Per Taruto perché non vedeva l’ora di entrare all’Accademia da quando aveva sei anni, e si sentiva pronto per sostenere le selezioni, per quanto dure fossero.
Per Kisshu perché, pur non sapendo quante settimane ci fossero in un anno, moltiplicate per tre sarebbero state sicuramente troppe ed insostenibili. Soprattutto se Taruto intendeva sfogare la sua frustrazione dandosi alla coltivazione intensiva.

Si guardarono, scambiandosi un’occhiata d’intesa.
L’uno che diceva all’altro: “Un’ora”.

  
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