Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    03/04/2010    0 recensioni
Secondo volume della saga "I Signori dell'Universo" seguito della serie "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia, Jean e gli altri sono partiti alla ricerca del significato della pietra che Kurtag ha affidato alla ragazza prima di morire. Winston è impegnato a trovare Nadia, prima che l'Ordine riesca a raggiungerla. Lisa, Michael e Hunter non riescono a rassegnarsi all'idea che la loro amica è là fuori, da sola... e intanto, i misteriosi assalitori che avevano raggiunto Nadia al porto sono ancora a piede libero...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Marie... Nadia...»

Jean si destò all’improvviso. Non vedeva nulla, solo ombre sfocate. In preda al panico, si tastò il viso e si accorse che era senza occhiali.

Oh, no, maledizione!

Provò a cercarli, muovendo la mano a tentoni; ma fu sufficiente che si muovesse appena, perché un dolore lancinante lo colpisse alla schiena, strappandogli un gemito. Jean si irrigidì, stringendo le labbra e serrando gli occhi: quindi si accasciò a terra, semi-incosciente.

Non ricordava nulla. Nella sua mente si affollavano indistinte le immagini precedenti lo schianto. Aveva ancora nelle orecchie l'eco terribile delle grida di Marie; e l'immagine del volto smarrito di Nadia lo tormentava senza sosta ogni volta che chiudeva gli occhi, proprio come la frustrazione e la rabbia per non essere riuscito a proteggerle entrambe come avrebbe dovuto.

Strinse i denti e sollevò la testa, per guardarsi intorno. Non vedeva proprio nulla. Tutto era pervaso da una luminosità diffusa, e persino i contorni delle cose gli apparivano sfumati. Se non avesse trovato gli occhiali al più presto, sarebbero stati guai per lui

Jean si oppose con tenacia al dolore che gli proveniva da ogni parte del corpo e tentò di mettersi a sedere. Ma una fitta più forte delle altre lo privò di ogni forza residua; e con un grido strozzato, si abbatté nuovamente al suolo, esausto.

Se ne stava lì, la fronte imperlata di sudore e il corpo indolenzito, senza sapere che fare né dove si trovasse. Intorno a lui regnava un silenzio assoluto e inquietante. E Jean avvertì il panico che cresceva dentro di lui, inesorabile.

Sono tutti morti, continuava a ripetersi, cedendo sempre più alla disperazione.

No, doveva reagire. Deglutendo, cercò di ritrovare la calma necessaria per pensare. Chiuse gli occhi, opponendosi agli incubi che il buio faceva sorgere nella sua mente. E cominciò ad ascoltare i suoi sensi.

Non si sentiva odore di carburante, né di bruciato. Mosse la mano: era sdraiato sopra qualcosa di simile a un tessuto...

Un tappeto?

Dunque, non si trovava più all'interno del dirigibile. Probabilmente qualcuno doveva averlo trovato: e se l'aveva trascinato lì, era possibile che vi fossero anche gli altri e che fossero tutti sani e salvi.

«Marie? Nadia?»

Se avevano trovato anche gli altri, li avevano senz'altro messi lì, con lui. Sarebbe stata la cosa più sensata da fare.

«Marie, Nadia?» chiamò più forte.

Dovevano esserci.

Rispondetemi, maledizione!

«Sanson, Hanson!», fece con voce rotta. Sentì che la paura si diffondeva nuovamente in lui, senza che potesse fare nulla per contrastarla. Dovette lottare per non gridare; e cercando di fare il vuoto nella sua mente, si passò una mano sul volto, respirando a fondo.

D'accordo, si disse. Cerca di pensare. Pensa, pensa...

Forse gli altri stavano bene ed erano stati sistemati in un luogo diverso. Poteva anche essere: in fondo, lui era l'unico che non era riuscito ad assicurarsi al seggiolino. Era un miracolo che fosse ancora vivo.

Non sono morti. Stanno bene. Sono lì fuori, da qualche parte.

Scacciò con forza il pensiero che forse si stava solo illudendo. Non poteva abbandonarsi alla disperazione. Doveva lottare, in qualche modo...

«Chi c'è? Nadia?»

Un rumore improvviso, di passi, lo fece trasalire. Qualcuno era entrato, ne percepiva la presenza.

Jean sollevò la testa, stringendo gli occhi nel vano tentativo di scorgere qualcosa. Vedeva una sagoma ferma, in piedi, davanti a sé; c'era qualcuno, e lo stava guardando.

«Chi sei? Dove sono tutti?»

«Wachinìcita! Otome hayal, otome hayal!» gridò l'intruso, chiunque fosse. Era una voce maschile, ma Jean non capiva una parola di quello che stava dicendo. Avvertì un improvviso trambusto, come di vasellame rovesciato, e passi che si affrettavano tutt'intorno, per poi svanire all'aperto. Un silenzio irreale cadde di nuovo tutto intorno a lui, e Jean sentì di essere nuovamente solo. Serrò le labbra. Il dolore era lento ma costante e le energie lo stavano lentamente abbandonando: non sarebbe stato in grado di restare lucido ancora per molto...

Passi. Qualcuno si stava avvicinando. Ormai incosciente, Jean avvertì come una presenza accanto a lui; e infatti, qualcuno gli sollevò delicatamente la testa.

«Bevi questo, forza».

Gli versarono a viva forza del liquido in bocca. Jean non riusciva nemmeno ad aprire le labbra, ma alla fine trovò l'energia per inghiottire qualche sorso. Aveva un sapore orribile, che lo fece tossire bruscamente, e che gli squarciò il petto come se stesse per andare in fiamme. Strabuzzò gli occhi, che andarono a posarsi sulla sagoma indistinta di quello che sembrava il volto di un vecchio, chino sopra di lui. Jean avvertì un odore intenso di tabacco e di lana, e si aggrappò a quelle che dovevano essere le mani di quell'uomo, dure e nodose sotto le sue, come la corteccia di un albero. L'uomo ricambiò la stretta e lo aiutò a sorreggersi.

«Cerca di non agitarti. Tra poco starai meglio».

«I miei...» mormorò Jean, muovendo la mano. L'uomo la guidò, e gli fece stringere le dita intorno agli occhiali, che erano lì vicino.

«Cercavi questi?»

Con le forze che gli ritornavano, Jean si rizzò a sedere, inforcando gli occhiali. Si trovava in una specie di capanna: tutto intorno a sé non c’era altro che un semplice panchetto male assemblato con sopra qualche suppellettile, un giaciglio fatto di sterpi e di foglie e un tappeto, intessuto in modo grossolano. Alcuni cesti di paglia erano accatastati in un angolo; e alle pareti – se così si potevano definire quelle frasche intrecciate col fango – erano appesi alcuni oggetti votivi e una testa di gallina avvizzita. Jean posò gli occhi sulla folla di persone che si ammassava incuriosita davanti alla porta. E non appena essi incrociarono il suo sguardo, fuggirono via, chi ridendo chi erompendo in schiamazzi divertiti.

«Devi scusarli. Non sono abituati a incontrare gente come te».

Jean spostò gli occhi sull'uomo che gli stava a fianco, un vecchio dall'aspetto a dir poco formidabile, che gli sorrideva bonariamente: lunghi capelli grigi gli arrivavano al bacino, raccolti in una treccia elaborata ed intrecciata con fili di lana di vari colori; in testa, portava un logoro cappello di paglia, mentre un vecchio poncho strappato e consunto alle estremità gli ricadeva addosso in modo estremamente misero. Ai piedi, due sandali di cuoio ormai completamente consumati contribuivano a donare all'uomo un aspetto dimesso: ma un occhio più attento avrebbe notato che al di sotto di quell'apparente semplicità si celava in realtà una forza segreta, e un autorità indiscutibile. Sebbene fosse seduto, sembrava essere molto alto: e tra le rughe spesse e profonde che solcavano il suo viso scottato dal sole e completamente glabro, emergevano a tratti i segni inconfondibili di quell'indole nobile e forte di cui risplendeva la sua intera persona, uno splendore sotterraneo e vivo, come viva era la luce nera e intensa di quegli occhi perlacei e scuri, che fissavano Jean con una certa serenità e un non so che di divertito. Alla fine, lui si sollevò in piedi, tendendogli una mano.

«Vieni. Ti aiuto ad alzarti» disse. Jean si lasciò aiutare dal vecchio, che lo fece alzare e lo condusse fuori dalla porta, dove lo fece sedere su un semplice scranno di legno. A Jean bastò un'occhiata, per capire che quello in cui si trovava doveva essere un villaggio molto povero. C’erano solo poche capanne oltre a quella in cui lo avevano alloggiato; e fuori da esse alcuni uomini erano indaffarati nella loro attività quotidiana, che pareva essere l'agricoltura e l'allevamento di quelle poche pecore che si riuscivano a intravedere, libere di andare a zonzo tra i sentieri fangosi. In realtà, al di là del divertimento iniziale, quelle persone non sembravano particolarmente interessate a lui. Solo talvolta, quando passavano accanto alla capanna, lo fissavano intensamente e uno strano bagliore attraversava allora i loro occhi, che subito, però, si abbassavano con rispetto.

Jean notò che l’uomo che lo ospitava abitava nella casa peggiore del paese. Le altre erano casupole di fango e pietra di fiume, con il tetto di frasche, semplici ma decisamente più elaborate. Solo la sua era così povera e malmessa. Tuttavia, ogni persona che passava davanti a quel vecchio, si fermava a salutarlo con deferenza.

«Lei è il capo villaggio?» chiese Jean, sommessamente. Le energie stavano tornando a poco a poco.

L'uomo lo fissò con interesse. «No. Sono solo un povero vecchio, che si occupa di antiche questioni. E questo non è il mio villaggio, ma solo uno dei tanti» rispose.

«Parla l'inglese molto bene».

«Se è per questo, parlo molte lingue. Da giovane ho lavorato per diversi uomini europei».

Jean si guardò intorno con interesse. Il villaggio era arroccato sopra un promontorio, da cui era possibile scorgere quella che a un primo sguardo sembrava una immensa foresta pluviale; poco più in basso, lungo il sentiero che risaliva il crinale del monte, si scorgeva il letto di un fiume. Il paese sorgeva proprio al limitare delle montagne, che si levavano alle sue spalle.

«Dove siamo qui?» domandò. Il vecchio ammiccò, fissando dritto davanti a sé.

«In un posto sicuro. Per il momento».

«Questo è un villaggio indio?» insistette Jean. «Dove siamo, in Bolivia?»

«Più o meno».

Jean socchiuse gli occhi. «C'erano delle persone con me...»

«Lo so».

«Stanno bene?»

«Credo di sì. Ma non posso risponderti esattamente. Quando ti ho trovato, eri solo».

«Quindi, qualcuno li ha portati da un'altra parte? E sapete dove?»

«Devi avere pazienza» fece il vecchio con un sorriso. «E non ti devi agitare. Pensa a riacquistare le forze. Per il resto, avremo tempo».

Io non ho tempo, pensò amaramente Jean. Doveva ritrovare i suoi amici. Doveva ritrovare lei.

Il vecchio si mise in spalla una vecchia bisaccia e si alzò in piedi. Jean lo fissò, stupito.

«Se ne sta andando?» chiese. Il vecchio sorrise.

«Solo per qualche tempo. Tornerò quando sarai più in forze».

«E io cosa dovrei fare?»

L'uomo rise. «Aspettare che io ritorni». Jean inarcò le sopracciglia.

«Potrebbe dirmi il suo nome?»

«Te lo dirò» disse il vecchio, e una luce attraversò i suoi limpidi occhi grigi. «Ma sappi che non sono solito rivelare il mio nome. Per il mio popolo, un nome è qualcosa di unico: secondo le nostre credenze, chi conosce i nomi può comandare le persone, il mondo, ogni cosa. Ecco perché il nome è qualcosa di sacro, che appartiene solo a noi stessi; e che a noi soli viene comunicato al momento in cui compiamo la maggiore età dai nostri sacerdoti, che per noi l'hanno scelto alla nascita. Tutti noi della tribù ci riconosciamo come fratelli e usiamo appellativi ricorrenti, spesso uguali. Ma il nome, quello mai.

Jean lo fissò, sorpreso. «Non lo sapevo, altrimenti non glielo avrei mai chiesto».

Lui rise. «A te lo dirò, facendo un’eccezione, perché me lo hai chiesto gentilmente e senza aspettarti che io fossi tenuto a rivelartelo. Mi chiamo Atahualpa; e provengo da un’antica tribù ormai cancellata dal tempo, i Toltechi».

Jean rizzò il busto. «I Toltechi?» fece, sorpreso. «Pensavo fossero originari del Messico...»

Atahualpa sorrise amabilmente e gli occhi gli brillarono di una luce improvvisa. «Sei istruito. È una cosa buona. Tuttavia, devi sapere che i Toltechi non sono originari di un posto in particolare, essi sono in molti posti».

«Cioè, siete nomadi?»

«Se così si può dire. Preferisco pensare a noi come a un popolo che fa del mondo la propria casa. Noi crediamo che la nostra vera casa non appartenga a questo mondo e perciò lo percorriamo senza fermarci mai troppo a lungo in un posto in particolare. Tante sono le strade e molti i luoghi che ricordano il nostro passaggio... e ogni luogo ha una sua storia, che da sempre i Toltechi seguono nella sua totalità».

Jean restò a fissare il vecchio con un espressione vuota. In realtà, non è che gli importasse gran che di tutta quella spiegazione. Le sue preoccupazioni avevano un altro nome.

«Ti vedo perplesso, amico mio» disse il vecchio, chinandosi a guardare Jean dritto negli occhi «È una cosa difficile, per te, da capire?»

«Mi scusi. È che ho altri pensieri» si limitò a commentare lui.

Atahualpa lo guardò serio. «Ci sono cose che ancora non sai e che dovrai imparare; ma prima è di vitale importanza che tu riacquisti le forze».

Jean lo fissò confuso. «Quali cose?»

«Le domande, rimandiamole a dopo» lo frenò Atahualpa. «Avremo tutto il tempo per parlare quando ci metteremo in marcia. E allora ti racconterò di Quetzalcoatl».

«In marcia?» chiese Jean, che cominciava a non capirci più nulla in tutta quella storia. «Non ho tempo per questo. Devo ritrovare i miei amici».

«E li troverai, Jean» disse il vecchio, con fare conciliante. «Ma prima dovrai scoprire cosa il destino ha deciso per te. Ogni uomo ha un suo destino, e in esso si trova nascosto ciò che egli veramente è chiamato ad essere. Il tuo destino ti ha condotto qui, perché io ti trovassi per compiere il mio. Io so che dovrò aiutarti a capire cosa si nasconde dietro gli eventi che ci hanno fatti incontrare, e a scoprire chi è l'uomo che si nasconde dietro al tuo nome».

Jean lo fissò stranito. «Ehi, aspetti. Come conosce il mio nome?» chiese. Atahualpa lo guardò, la bocca socchiusa.

«Oh, ma me l’hai detto tu. Quando ci siamo conosciuti».

«E quando è successo, esattamente?» chiese Jean, insospettito. Atahualpa alzò gli occhi a scrutare l’orizzonte.

«Tanto tempo fa. In un luogo non molto diverso da questo».

«Lei si sbaglia. Io non sono mai stato qui» obiettò Jean.

«Davvero?» fece Atahualpa, imbracciando la sua bisaccia e afferrando un lungo bastone, prima di incamminarsi. «Che strano, ero sicuro che fossi proprio tu».






  
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