Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    03/04/2010    1 recensioni
Secondo volume della saga "I Signori dell'Universo" seguito della serie "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia, Jean e gli altri sono partiti alla ricerca del significato della pietra che Kurtag ha affidato alla ragazza prima di morire. Winston è impegnato a trovare Nadia, prima che l'Ordine riesca a raggiungerla. Lisa, Michael e Hunter non riescono a rassegnarsi all'idea che la loro amica è là fuori, da sola... e intanto, i misteriosi assalitori che avevano raggiunto Nadia al porto sono ancora a piede libero...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tutto intorno era un mare di luce. Nadia, stupita e affascinata, lasciò che i suoi occhi vagassero liberi per quello spazio immenso, mentre fasci luminosi la raggiungevano da ogni dove, illuminandole i capelli lucenti e la pelle, che splendeva sotto quei raggi come una brace viva.

Era scalza. E camminava lungo un sentiero lento e tortuoso, affondando i piedi ad ogni passo nello spesso strato di polvere luccicante che lo ricopriva. Era, la sua, una sensazione di stupenda e assoluta libertà: una libertà completa, che non aveva mai gustato prima, e che la guidava lungo quella strada sconosciuta e bella, infondendole una pace e un vigore nuovi.

Intravide alcune figure stagliarsi scure, sullo sfondo, a contrastare l'intensa luce diffusa. Niente più che pallide ombre, che si ergevano tutt'intorno a lei. Dovette stringere gli occhi perché le apparissero per quello che erano: colline, montagne laggiù; e qualche rado cespuglio, sperso nella brughiera che la circondava.

Un canto si udiva in lontananza: giunse tiepidamente alle sue orecchie, come una brezza delicata e leggera. Non distingueva le parole, ma la tristezza profonda di quella musica le penetrò immediatamente nel cuore, diffondendosi subito, come un veleno. Nadia provò una fitta al petto mentre camminava alla ricerca di quel cantore misterioso e nostalgico, che portava con sé una notte densa, e improvvisa e buia.

Vide una donna. Era una splendida donna, dai ricci capelli biondi. Cantava seduta su un piccolo promontorio: sotto di lei il mare si allungava a perdita d’occhio, risplendente del riflesso di milioni di stelle appena nate, che solcavano il cielo in lunghe scie di fuoco. E mentre la donna cantava, le stelle cadevano intorno a lei e nel mare ai suoi piedi, esauste, disegnando nel loro percorso piccoli intrecci, e deboli spirali di luce. Nadia alzò gli occhi ad osservarle ruotare e spostarsi in quello spazio immenso come piccole schegge impazzite, senza rotta né tregua; e intanto la donna cantava, con gli occhi rivolti al cielo infinito, le candide gambe raccolte. Con voce triste, intonava parole dolorose:


Si vive forse veramente sulla Terra?

Non per sempre, solo per poco.

E noi venimmo per dormire

o forse solo per sognare.

Non è vero, non è vero

non venimmo per vivere sulla Terra!

Come consolare il mio cuore, se invano

venimmo per vivere sulla Terra,

invano qui, a fiorire?

Cerca, mio cuore: dov’è

il luogo della vita

dove la mia casa

la mia dimora

dove, qui, sulla Terra?


Nadia si sedette ad ascoltare in silenzio, e sentì un profondo dolore discendere nel suo cuore. Quel canto la commuoveva senza che lei sapesse perché: e lo ascoltava in un affascinato silenzio, senza dire nulla, senza pensare a nulla, lasciando alle parole il giusto tempo per spegnersi, perché echeggiassero lente nella solitudine del suo cuore.

Dov’è la mia casa? Dove la mia vita?

Come un suono che arriva da lontano, quelle parole che parlavano di lei, e a lei stessa, si adagiarono stanche sulla sua anima, avvolgendola.

Il canto si spense e Nadia vide la donna abbassare lo sguardo, nel silenzio che seguiva l’ultima vibrazione della sua voce. Allora, lo spazio si colorò come un’immensa tela, pronto ad accogliere la nascita del sole e delle altre stelle. Di nuovo, Nadia alzò gli occhi: e sentì che si sarebbe persa in quel mondo senza fine.

Non troverai lassù le risposte che cerchi; è qui, che dovrai guardare, dentro il tuo cuore.


«Nadia? Nadia, stai bene?»

Lentamente, lei aprì gli occhi. C'era qualcuno che la stava guardando. Nel sonno, ne intravedeva il viso, chino su di lei. Sbatté le palpebre, per scacciare il sonno residuo: e due occhi azzurri e intensi le sorrisero nel buio.

«Jean...»

«Stai bene? Ti agitavi nel sonno e continuavi a ripetere parole senza senso».

Lei si stropicciò gli occhi, sollevandosi su un gomito. «Senza senso?» chiese. Jean annuì.

«Sì, sembrava una filastrocca, o una poesia».

«Non ricordo nulla» mentì lei. «Che ore sono?»

«L'una e quaranta. Ormai siamo in viaggio da quindici ore».

Nadia si guardò intorno. Si trovavano nella cabina del dirigibile. Il cupo ronzio delle eliche faceva da contrappunto al russare pesante di Hanson e Sanson, che dormivano nelle loro cuccette. Poco lontano da lei, Marie dormiva insieme a Rebecca e sembrava assolutamente tranquilla. Nadia sorrise, quando intravide il suo volto sereno nell'ombra.

«Marie sta meglio?» chiese. «Stamattina non sembrava stesse bene».

Jean alzò gli occhi verso la bambina. «Sì, direi che sta meglio. Solo un po' di mal d'aria, tutto qui».

«Rebecca mi ha detto che spesso, quando era più piccola, faceva degli incubi...»

«Vieni» fece lui, sorridendole in modo meccanico. «Andiamo a parlare fuori».

Nadia lo seguì, avvolgendosi nel lenzuolo. Volavano a circa trecento metri e fuori faceva piuttosto freddo. Jean indossava una giacca di lana, e una camicia sdrucita. Lei gli passò accanto mentre le teneva aperta la porta, e non poté fare a meno di notare come il suo aspetto apparisse molto sciupato, sebbene fosse così giovane.

Lui la seguì sul ponte, e insieme si appoggiarono sulla balaustra a fissare l'orizzonte illuminato dalla luna. Grosse nuvole azzurre splendevano davanti a loro e anche più in basso, da dove ogni tanto lasciavano intravedere il luccichio diffuso del mare.

«Che meraviglia» fece lei. «È così bello da sembrare irreale».

«Già» commentò sinceramente Jean. Nadia gli lanciò un'occhiata veloce. Quindi si volse verso di lui e sorrise.

«Allora, non vorresti raccontarmi un po' di te?»

Lui sporse in fuori il labbro, alzando le spalle. «Che vorresti sapere?»

«Beh» fece lei, che sperava in una reazione migliore «magari come hai fatto a diventare docente al MIT. O come sono andati i tuoi studi a Berlino».

Credeva che gli sarebbe piaciuto parlare di quelle cose. In fondo, rappresentavano il successo che era sicura aveva da sempre sognato e inseguito. Ma contrariamente a quanto si aspettava, vide il viso di lui spegnersi all'improvviso, e i suoi lineamenti farsi più duri e marcati.

«Berlino è una bella città» si limitò a dire. Lei restò a fissarlo per qualche istante, senza dire nulla.

«Tutto qui?» fece, timidamente. «Io sapevo che eri il migliore del tuo corso, e che hai ricevuto un sacco di offerte di lavoro ancor prima di laurearti».

«E tu, che ne sai?»

Lei arrossì. «Me lo ha scritto Hanson» rispose, semplicemente. Lo fissava con intensità, ora, perché non voleva più provare alcun timore di fronte a lui. Chi era quell'uomo per farla sentire così...

...insicura?

No, non insicura. Era qualcosa di diverso. Con lui si sentiva triste.

«Non sapevo che lui ti scrivesse di me» fece Jean. Ma non c'era sarcasmo. Nadia si strinse nel lenzuolo, guardando altrove.

«Ero io a chiedergli di te».

Jean si appoggiò su un gomito, socchiudendo gli occhi. Restò a guardarla mentre fissava lontano, illuminata dai deboli raggi della luna.

«Perché?» le chiese. Lei scosse il capo.

«Se non te ne rendi conto da solo, non ha senso che io ti risponda, non credi?» disse. Poi, con voce dura e tesa, mormorò «Dio, a volte fai delle domande tanto stupide...»

«Non penso sia stupido domandarsi perché tu chiedessi di me al mio amico mentre io non ho mai ricevuto una singola riga da te, non credi?»

«Ho sonno» fece lei, girando le spalle e abbassando gli occhi. «E qui fa molto freddo. Torno dentro».

«Marie faceva gli incubi su di te, perché non tornavi a casa».

Nadia si fermò con un piede sulla porta. Quando si volse a guardarlo, nei suoi occhi c'era disprezzo e una furia trattenuta a stento.

«Questo è veramente spregevole da parte tua» disse. Jean sorrise, beffardo. E lei non odiò mai tanto quel suo sorriso come in quel momento.

«Dici?» fece lui. «Eppure è la verità. Se non mi credi, chiedi a Rebecca».

«Io ho fatto quello che avresti fatto anche tu, nella mia situazione» disse lei, che sentiva la sua rabbia crescere. Gli occhi di Jean brillarono, attraverso gli occhiali.

«Ti sbagli. Io sono restato. Mi sono preso cura di lei, come potevo. Ho supplito alla tua mancanza ogni giorno, esattamente come Rebecca. Quindi non venirmi a fare la predica!»

«Io? Io ti farei la predica?» Nadia scoppiò a ridere. «Ma sentilo. È da quando ci siamo rivisti che non fai altro che trattarmi con disprezzo e orgoglio. Ho sbagliato, va bene. Ti ho chiesto scusa, più e più volte. Ho cercato di farti vedere che mi assumevo le mie responsabilità...»

«Le tue responsabilità?» la interruppe lui, ridendo.

«...sì, ma tu non hai fatto altro che oppormi il tuo maledetto senso di colpa. Non è colpa mia, se tu avresti voluto fare quello che ho fatto io, ma non hai potuto... o voluto».

Lui impallidì all'improvviso.

«Io cercavo un significato per la mia esistenza, qualcosa che tu avevi, ma io no. Volevo la mia vita, e una stanza tutta per me in questo maledetto mondo, un posto dove potessi finalmente realizzare me stessa, e capire chi volevo essere. Non volevo dimenticarmi di voi, non l'ho fatto apposta. Ma la mia vita ha preso una direzione che non prevedevo e non ho saputo evitare quello che è successo».

Lei parlò senza mai interrompersi. Tremava e aveva il fiato corto, mentre le guance erano accese di rosso. Jean la fissava senza riuscire a togliere gli occhi dalle sue labbra.

«Sono diventata la prima donna cronista in Inghilterra a guadagnare oltre centocinquanta sterline all'anno. Sai quanto guadagna il mio collega meno quotato? Circa mille e cinquecento sterline all'anno. Per non parlare del capocronista, un vero cretino, che però può permettersi di guardarmi dall'alto delle sue tremila sterline annue solo perché è un uomo. Hai idea di cosa significhi?»

«Mi stai parlando di soldi».

«Ti sto parlando di una donna che è riuscita a guadagnarsi il suo spazio, la sua scrivania, i suoi lettori lavorando giorno dopo giorno, e vivendo una vita da schifo per quasi cinque anni, mangiando un giorno sì e tre no, e dormendo in un buco che farebbe orrore a uno scarafaggio. Lottando contro una società abietta, che ti vuole ai margini solo perché sei una donna e perché hai la pelle nera. E scusami se non ho avuto il tempo di venirti a trovare!»

Jean si appoggiò con la schiena al parapetto, incrociando le gambe. «Però hai avuto il tempo di andare a trovare Mr. Fisher».

La mano di Nadia scattò senza che lei riuscisse a rendersene conto. Restò a guardare con orrore il volto di Jean, piegato di lato, e la sua mano, ancora levata per aria.

«Mi dispiace, io non volevo colpirti...» mormorò. Lui si portò una mano al volto.

«Come non volevi lasciarmi».

«Jean» fece lei, con gli occhi che le tremavano per l'emozione. «Devi andare avanti. Tu potresti vivere una vita meravigliosa, se solo riuscissi a capire...»

«Non ti preoccupare. Capisco benissimo».


Lei scosse la testa. «No, non è vero. Tu ti ostini a vivere nel passato e non capisci che quello che abbiamo vissuto, io e te... Jean, quello nessuno potrà mai togliercelo. Ma noi siamo così diversi, e in fondo lo sai anche tu. Credo che tu non lo voglia ammettere, ma l'hai sempre saputo. Come l'ho sempre saputo anche io».

Jean chinò il viso. E attraverso le lenti dei suoi occhiali lei vide il bagliore fugace di una lacrima, che scorse sul suo volto velocemente, senza lasciare traccia.

«Quindi, non mi hai mai amato. C'è voluto Jonathan per scoprirlo, non è così?»

«Non è così» fece lei. «Ma comunque, sì: io amo Jonathan. E farai meglio ad accettarlo, se vorrai cominciare a lasciarti questa infelicità alle spalle».

«Se è questo che vuoi, sono felice per te» fece lui, rassegnato. Nadia lo fissò intensamente: e dopo un attimo di smarrimento, prese a guardarlo con tutto il disprezzo che riusciva a provare; e senza pensarci, glielo gettò in faccia, quel disprezzo, senza rimorso né pietà. Perché sentiva di odiarlo profondamente per quello che aveva appena detto.

«E tu?» fece. «Tu cos'è che vuoi? Già, ma perché domandartelo? Tu fai sempre così. Non sei cambiato per nulla, in sei anni».

Lui la fissò senza parole. «Credevo fosse quello che volevi sentirti dire, no?» disse. Lei si morse le labbra, stringendo i pugni.

«Sei una tale nullità» fece. Jean la fissò interdetto. Aveva il volto tumefatto dalla rabbia troppo a lungo trattenuta e gli occhi che splendevano come due braci incandescenti. «Tu fai tutto quello che ti viene chiesto, senza mai opporti, senza mai dire no. Tu non sai dire no, salvo poi trincerarti in una vita che odi ma che ti sei creato da solo. È questo che detesto di te, questo tuo buonismo assoluto, così... così inumano. Lo trovo insopportabile».

«E cosa vorresti che facessi, che ti impedissi di andare con lui? Magari avresti preferito che ti impedissi di partire?» sbottò Jean. Si sentiva ferito. Non capiva dove avesse sbagliato. Le aveva sempre mostrato tutto il suo affetto e la sua comprensione, appoggiandola e aiutandola quando poteva. Cos'è che gli stava rimproverando?

«Sarebbe stato bello se tu l'avessi capito allora» disse lei, in un sorriso. «Ma tu non arrivi mai in tempo. Sei sempre in ritardo, Jean. E io sono stufa: stufa di aspettarti, stufa di farti capire che quello che cercavo non era la tua comprensione, e nemmeno la tua approvazione. Proprio come non la cerco ora».

Jean la afferrò per un braccio, strattonandola: e per un attimo ebbe paura di quello che aveva appena fatto. Non era da lui. Non si era mai comportato così. Ma non appena vide lo spavento negli occhi di lei lasciare il posto a una luce diversa, più intensa, che insensatamente lo spronava ad andare avanti, lui si riebbe e la lasciò andare.

«Io... non posso fare quello che dici» disse, con la voce che gli tremava. Nadia lo fissò triste. Dov'era quel Jean che aveva conosciuto cinque anni prima e che aveva amato così tanto? Non lo ritrovava più nell'uomo che aveva di fronte, un uomo duro, triste e smagrito, che viveva nel risentimento; e la cui immagine le pungeva il cuore così tanto e così profondamente da farlo sanguinare, pur istigando in lei tutta la sua passione più segreta.

«Tu non sai scegliere» disse lei, sprezzante «e non sai vivere. Avrei tanto voluto che tu scegliessi almeno una volta, Jean, che tu mi facessi capire cosa volevi veramente».

«Io ho sempre agito per un solo motivo, e lo sai» ribadì lui. Ma Nadia lo fissava ormai con occhi vuoti e inespressivi.

«Perché mi fai questo?» disse lei. «Perché lo fai a tutti e due?»

«Non lo capisci?» le sussurrò, prendendola per le spalle. Lei scosse la testa, divincolandosi.

«Basta» fece, strappandosi al suo abbraccio. «Queste cose non mi interessano più. Tu non mi interessi più. Se solo... se solo tu...»

«Cosa?» disse lui. E sentiva di non avere quasi più la forza di reggersi.

«Se solo tu mi avessi mostrato questo tuo motivo, almeno una volta...»

Jean restò a fissarla e capì che l'aveva davvero perduta. Ma non lì, non su quel ponte e non in quel momento. L'aveva perduta anni prima, quando aveva cominciato a dare lei e la sua esistenza come per scontata.

«Mi dispiace» disse lei. «Mi dispiace davvero. Ma adesso...»

Un suono improvviso, simile a quello di una sirena li interruppe. Nadia si guardò intorno, spaventata. Jean la prese delicatamente per un braccio, e lei gli si strinse accanto, mentre la riconduceva all'interno.

«Cosa succede?» gli chiese lei. «Cos'è questo suono?»

«L'allarme. Qualcosa non va come dovrebbe».

Alcune luci si accesero dall'interno e Hanson comparve sulla porta, in canottiera e con i capelli spettinati incollati alla fronte.

«Jean, eccoti qui. Presto, vieni, c'è qualcosa che dovresti vedere».

Jean lasciò il braccio di Nadia e scomparve all'interno dell'abitacolo. Nadia gli tenne dietro, avvolgendosi sempre più strettamente nel lenzuolo. Quando entrò, incrociò casualmente lo sguardo di John, che si stava alzando proprio in quel momento, svegliato come tutti dal suono assordante della sirena. Nel vedere che Nadia e Jean erano rientrati insieme, lui strinse gli occhi, lanciandole un'occhiata interrogativa, a cui lei non rispose se non distogliendo lo sguardo.

«Avevamo inserito il pilota automatico» diceva Hanson, indicando alcune manopole a fianco dei quadranti. «Ma non appena siamo entrati nello spazio aereo boliviano, abbiamo cominciato a perdere velocità e altitudine. Ecco, guarda. Per quanto ne sappia, non sembrano esserci problemi ai motori o al pallone».

Jean stava chino sulla plancia, appoggiandosi con entrambe le mani. Il suo viso era teso e tradiva una certa preoccupazione. «Il carburante è a posto» notò. «E le valvole?»

Hanson premette qualche pulsante. «A posto anche quelle. Jean, non ci sono danni ma stiamo ugualmente precipitando».

«Com'è possibile?» mormorò lui. Si voltò e incrociò lo sguardo ansioso di Marie, che si era svegliata di soprassalto e ascoltava senza capire quello che si dicevano, tra le braccia di Rebecca. Quindi si volse verso Alex, che osservava la strumentazione al suo fianco.

«Può essere un campo magnetico, che ha disturbato l'attività del pilota automatico» suggerì lei.

«No, la bussola funziona» disse Jean, chinandosi a controllare. «Il problema è un altro, ma non riusciamo a capire quale. E se non lo scopriamo in fretta, presto saremo nei guai».

Nadia ascoltava tutto trattenendo il respiro. Tutte quelle persone erano in pericolo perché lei le aveva coinvolte. Se fosse successo qualcosa a qualcuno, non sarebbe mai riuscita a...

State tranquilli e non vi accadrà nulla. Siamo noi, ora, a guidare la vostra nave. Non avete nulla da temere, non abbiamo intenzione di farvi alcun male. Ma se reagirete, risponderemo di conseguenza.

«Avete sentito?»

Tutti si volsero a guardarla. Nadia scrutò uno per uno i volti dei presenti, che la fissavano senza capire che cosa intendesse dire.

«Avete sentito? Quella voce!»

Sanson e Hanson si scambiarono un'occhiata perplessa. John si avvicinò a Nadia, prendendola per le spalle.

«Non c'era nessuna voce» disse. Nadia scosse il capo.

«Io l'ho sentita. Diceva di non preoccuparsi, che non ci sarebbe stato nulla da temere. Sono loro a guidare la nostra nave».

Jean strinse gli occhi. «Loro? Loro chi?»

«Nadia...» fece Rebecca, sospettosa.

«Guardate!»

Un'intensa luce risplendette improvvisa e abbagliante proprio davanti all'abitacolo, investendoli in pieno e accecandoli. Jean si riparò gli occhi con le mani, giusto in tempo per non rimanere abbagliato: schermandosi, si voltò cautamente a guardare quella che pareva una immensa struttura in metallo, materializzatasi all'improvviso proprio davanti al dirigibile. Si avvicinò al finestrino, per osservarla meglio: e notò che era immensa, dalla forma allungata, simile a quella di una gigantesca megattera. Lo scafo risplendeva di un intenso colore vermiglio ed era costellata di luci lungo tutta la fiancata, alcune delle quali brillavano a intermittenza. Nel suo complesso, quella cosa sembrava grande come tre o quattro incrociatori messi in fila, e larga almeno due. Con stupore crescente, Jean restò a fissarla mentre eseguiva una complessa manovra in aria, virando agilmente e a grande velocità, come se poggiasse su un cuscinetto d'aria.

«Che cos'è quella cosa?» ringhiò Sanson. Tutti si precipitarono a guardare. Solo Nadia restò in disparte, cercando di fare mente locale.

«Sembra una nave, una nave volante» mormorò Hanson. «Ma è ancora più terribile di quelle che usava Gargoyle»

«Se Gargoyle avesse avuto una flotta di queste, saremmo stati spacciati» fece Sanson. Nadia si avvicinò, tirandolo per un braccio e costringendolo a voltarsi.

«Io ho sentito quello che dicevano. Sono loro a guidarci. Non vogliono farci del male».

«E tu gli credi?» fece Alex, dubbiosa. «E perché loro parlano solo con te?»

«Non lo so, ma penso che stiano dicendo la verità» disse lei. Sanson fece una smorfia.

«Ah! Io sono dell'idea di sparagli contro tutto quello che abbiamo per coglierli di sorpresa; e quindi, di svignarcela nel più breve tempo possibile».

«Se faremo così, daremo loro l'occasione per attaccarci!» fece Nadia. «Vi prego, fate come vi ho detto».

Tutti si guardarono l'un l'altro. Nadia restò a fissarli con il fiato sospeso, passando in rassegna i loro visi uno per uno. Finché non incrociò lo sguardo di Jean.

Ti prego... sussurrò. Ma lui strinse le labbra, opponendole uno sguardo duro.

«Credo che Sanson abbia ragione» disse, riscuotendo l'approvazione generale. «Facciamo fuoco su quella cosa, presto!»

«Agli ordini!» ruggì Sanson. E afferrando la cloche, attivò le contromisure senza farselo dire due volte.

«Tre... due... uno...»

«No!» gridò Nadia, ma John la trattenne, prima che potesse interferire.

«Vai! Fategliela vedere a quell'ammasso di lamiera!»

Quattro razzi si staccarono dallo scafo, diretti alla nave ad alta velocità. Dopo pochissimi istanti, uno dopo l'altro colpirono il bersaglio, che venne evidentemente colto alla sprovvista, perché si interruppe la presa che esercitava sul dirigibile. Tutti lanciarono un grido di esultanza, nel vedere la nave ondeggiare e girare velocemente su se stessa.

«E vai!» esultò Sanson. «Lo sapevo che avevo ragione a voler imbarcare quelle caramelline!»

«Siamo liberi, riacquistiamo energia!» fece Hanson. Jean afferrò la manopola dei motori.

«Andiamocene di qui, forza!» disse, spingendo i motori alla massima potenza. Ma si erano appena risollevati di qualche decina di metri, che di nuovo si smorzò tutto il loro entusiasmo.

«Questa cosa non mi piace per nulla» fece Rebecca indicando la nave, che in quel momento stava eseguendo una virata di prua, proprio per andarsi a opporre frontalmente al dirigibile. «Credo che li abbiamo fatti arrabbiare...»

Improvvisa, una selva di colpi partì dalla nave per raggiungere lo scafo del dirigibile, che venne investito da una serie di violente scariche elettriche. La strumentazione esplose in un mare di scintille davanti ai volti allibiti di Hanson e Jean, che non poterono fare nulla per evitare che andasse in corto circuito.

«Il pallone è andato, e il timone non risponde più ai comandi!» gridò Sanson nel frastuono generale. «Stiamo precipitando!»

«Tenetevi! Allontanatevi dai vetri e aggrappatevi ai seggiolini, allacciando le cinture. Presto!» gridò Jean. Quindi si tuffò su Marie, trascinandola verso il proprio posto di guida e lottando con tutte le sue forze contro la gravità che lo spingeva verso l'alto, nel tentativo di assicurarla al seggiolino. Quando riuscì finalmente ad allacciare la cintura di sicurezza di Marie, Jean si aggrappò come poté, chiudendo gli occhi. Il suono assordante del dirigibile che precipitava gli riempiva le orecchie, stordendolo. Fece appena in tempo a sollevare gli occhi, per cercare tra gli altri il volto di Nadia. La vide stretta a John, gli occhi chiusi. Lui stava chino su di lei, per ripararla. Sembrava al sicuro. Ma come se Jean l'avesse chiamata, in quell'istante lei aprì gli occhi, a guardarlo. Restarono a fissarsi per un tempo che parve non finire mai, e che li fece sentire come sospesi. Poi, improvviso, lo schianto.


  
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