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Autore: Cassandra Morgana    08/04/2010    3 recensioni
Sullo sfondo chiaroscurale di un'Accademia d'Arte Drammatica con troppe maschere da indossare e una posta in gioco che sale, tre ragazzi si incontrano.
Elena vince il proprio mal di vivere grazie a un'amicizia speciale, al ritrovato coraggio di gestire i conflitti e a un forte altruismo; si scontra con Isa, la sua nemesi, voce contraria e complementare che cerca di tessere una storia opposta.
Andrea, ragazzo ambiguo e dalla lingua affilata, vuole recuperare la stima di chi, troppo tardi, si è reso conto di amare.
Gabriele imbroglia la propria depressione fumando spinelli, nutre sentimenti ambivalenti verso Andrea e gioca da burattinaio.
Tra pettegolezzi sussurrati, volontà opposte in rotta di collisione, ambizioni frustrate, gelosie, complotti sotterranei, storie di ordinaria omofobia, dark enigmatici, musicisti irascibili, ex amanti, amicizie inossidabili e amori taciuti, in una storia in cui ognuno vuole far sentire la propria voce, resta solo stabilire chi sia Cleopatra e chi il serpente che le insidia il seno.
[Storia sesta classificata e vincitrice del premio "Stile e scrittura più originale" al contest Chi è normale non ha molta fantasia - La storia più originale su EFP, indetto da Butterphil]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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- Questa storia fa parte della serie 'Il bacio dell'aspide ~ la serie'
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Capitolo 6

La cronaca di un termine ignoto

 

 

La porta sbattuta in faccia è un’immagine eloquente, se devo liquidare il discorso con un simbolo che racchiuda bene il significato.

Retorica spicciola, okay, ammettere che così comincia e così finisce – stando alla logica passeggera di questo preciso istante – la parabola discendente di un’irrinunciabile occasione di vita. Porta in faccia, punto, poche storie.

Era la mia splendida, delirante occasione, sin dal momento in cui misi piede qua dentro, uno sfondo di troppe luci e troppe incertezze; occasione che poteva contenere, in nuce, la possibilità di portarmi qualcosa di buono. Eventualmente.

Occasione sbiadita, stanca; troppo sfuggente e remota per diventare concreta, per poterne intersecarne il cammino; e magari afferrarla, addomesticarla nel mio particolare caso con altrettanta indolenza.

Gabriele Derossi, molto piacere. Quello che, strategicamente, occupa sempre uno degli ultimi posti in fondo, qualche schiena di troppo a fare da barriera tra sé e l’eventuale seccatore. Quello insuperbito e tutto dalle sue: troppo, per scendere dal trespolo e dichiararsi comune mortale a tutti gli effetti. O forse, semplicemente, troppo codardo per esporsi in prima persona e, schiaffeggiato nel marasma di un teatrino d’interpreti mediocri, gridare sì, dannazione, sono vivo!

Quello abbastanza masochista – o abbastanza furbo – da preferire, se proprio deve, una sospetta frattura del setto nasale, con tanto di provvidenziale scivolamento nell’oblio, ad una “porta in faccia” morale che non lasci troppi segni visibili.

 

Ai suoi occhi fissi nei tuoi, che ridono sotto le leggendarie ciglia scure e tutto incatenano a sé; che ti catturano per un istante, nell’ebbrezza di un messaggio da decifrare, rendendoti fugacemente partecipe; e poi ti mollano lì, punto e capo, pronti a ribadire il concetto.

Io sono, mio caro. Esisto.

 

Insomma, mettetevi un po’ nei miei panni: un attimo prima c’era l’angoscia, il gelo della più nera autocommiserazione, il suo volto stampato davanti ai miei occhi come una specie di reliquia. Un attimo dopo, solo il cielo bianco abbagliante del soffitto a tre metri o poco più in linea con i miei occhi, un vago sentore di pace come dopo una dose di tranquillante, e il sapore del sangue a invischiarmi le labbra fino in fondo alla gola.

Chissà se lui si sarebbe fatto quattro risate o se, al contrario, avrebbe avuto un attimo di sgomento – perché, accidenti, anche Derossi è umano; anche Derossi ha il suo delizioso, insospettabile difetto di fabbrica –, nell’apprendere che il sottoscritto si sente svenire per due gocce di sangue: immaginate un po’ trovarsene la faccia impregnata, le labbra impastate di quel retrogusto appiccicoso, metallico.

Troppo pochi, i secondi a disposizione, per razionalizzare l’accaduto e non lasciarti portare alla deriva dalle tue personali fobie. Sempre meglio il mondo dei sogni.

Chissà se lui avrebbe commentato con la solita voce strascicata. Che magari, tutto sommato, gli facevo tenerezza. Lui e il suo sorriso disarmante.

Poi si sarebbe passato una mano tra i capelli e sarebbe tornato al solito sarcasmo in forma standard. Chi diavolo è, in fin dei conti, lo sconosciuto che si guarda intorno e distilla una parola ogni due ore?

Ed è così superfluo ripartire da principio, ora, e dire che la mia croce e delizia, l’alfa e l’omega, l’ascesa e il proverbiale declino, hanno nome Andrea Nicoletti?

Voglio dire che, quasi di certo, ogni singola cazzata che lui avrà avuto modo di assemblare sul mio conto fino a questo momento, purtroppo è vera. Che sono un paranoico, un lupo solitario, un’incognita trasparente, materia indistinta in via di ebollizione, insignificante agli occhi dei più? Niente di più vero.

Il fatto che non fosse riuscito a inquadrarmi al primo colpo, doveva aver scompaginato non poco la sua perversa, naturale tendenza che spazia dalla semplice provocazione al rendere il soggetto prescelto un’appetibile valvola antistress.

Se c’è una cosa che a Nicoletti riesce bene, in fin dei conti, è proprio farti incazzare. Sarà un modo di dimostrare il suo affetto, chissà.

Io l’avevo detto, del resto; l’avevo intuito da subito, che a furia di macinare discorsi su discorsi, di far previsioni del cazzo, lui era destinato a vestire i panni della mia Nemesi spietata, pronta a sviscerare le mie debolezze con i suoi occhi d’ardesia fine. E poi sputarci sopra.

Ho capito quale sarà la prossima domanda. Se è vero che mi faccio. E che sono fuori come un missile. Ho la certezza pressoché matematica che il solito Nicoletti abbia raccontato castronerie tali da surclassare persino il suo ex-compare di malefatte, l’Alessandro Alberti con cui ha rotto il sodalizio e che ora, presumibilmente, starà fremendo dalla gioia di andarsene a strillare ai quattro venti che Nicoletti lo dà via come se non fosse suo.

Non credete alle stronzate che vi dirà Andrea. La verità, se proprio lo volete sapere, è che avrò fumato sì e no una volta o due in sua presenza – e che sarà stato… – e, da lì, ecco partorita seduta stante la sua personale versione dei fatti, pronta da dare in pasto ai deficienti come verità assoluta, infiorettata a prova di cretino.

Del resto, non è che la mia stupenda, logorante ossessione. Andrea.

Eppure le cose parevano tutto fuorché destinate ad andare così – almeno, per quel che mi riguarda. Di certo non a vederci contrapposti come due ratti che cercano di passare contemporaneamente in un cunicolo troppo stretto; antagonisti per forza, dualismo imperfetto e caldeggiato artificiosamente, là fuori, da qualche pazzo sceneggiatore di soap-opera o qualche malalingua di passaggio. Con gran disappunto della nostra stellina, troppo al di sopra di tutti, a ben vedere, per accettare a cuor leggero la competizione fasulla con uno sfigato di prima categoria.

All’inizio dividevamo pure la stanza. Io e lui. Si parla della mitologia della mia permanenza al “Goldoni”, quando intorno a noi non c’era nient’altro che un microcosmo dalle pareti chiare; così semplice, ai miei occhi, incontaminato, salvo quel bizzarro, rassicurante profumo d’ignoto, come una scatola vuota da riempire. Strano dirlo, per uno che come me detesta le novità piazzate fra capo e collo e l’angoscia che ti artiglia la nuca.

Ero lì, completamente confuso, sospinto a viva forza dentro un labirinto di bivi e incertezze, inebriato da quel piacevole, nauseante profumo di nuovo.

Lui aveva stampata in viso l’espressione sagace dell’uomo di mondo, flemmatico e razionale, nulla di nuovo sotto il sole: nulla in grado di destabilizzarlo, le redini della situazione strette nel pugno.

Sembrava un sogno, e lui era il mago dal volto enigmatico.

Ti dirò il tuo futuro. Avvicinati, non temere.

Ricordo che ebbe la buona grazia di sollevarsi a sedere, come un gatto dalle movenze altezzose, quando irruppi per la prima volta nella camera spoglia, la sua reggia appena nidificata. Che ci apprestavamo a condividere. Continuava ad arrotolarsi pigramente tra le dita una ciocca di capelli come seta inanellata – lo ricordo ancora – e aveva gli occhi sottili e una piega appena percettibile all’angolo della bocca. Piega che, nel migliore dei casi, poteva sfociare nel più radioso dei sorrisi. Le labbra di velluto e uno scintillio acuto e sfuggente in fondo alle iridi.

Non so dire se la stoccata in pieno stomaco fu il vibrare della sua voce bassa in un Piacere, Andrea leggermente trascinato, l’impronta vagamente adolescenziale; un miagolio troppo studiato, troppo per dirsi appunto “studiato”. O se fu piuttosto la lunga stretta di mano che seguì, accompagnata da un cenno sibillino del capo.

E poi… Non so, ripeto. Non so cos’altro aggiungere per fare chiarezza. Non era che un preludio dai colori troppo tenui, caliginosi, per individuarne i contorni, e una luce soffusa rendeva tutto così dolce, pulito, privo di fuorvianti implicazioni.

Avevo intuito che Nicoletti non era il tipo che desiderassi farmi nemico: no, non era quel suo essere malizioso e imprevedibile a spaventarmi, man mano che imparavo a conoscerlo, quanto il fatto che la sua presenza, per qualche motivo, mi turbava.

Ci sono incognite che rendono appetibile l’oggetto che ti capita davanti agli occhi. Andrea è l’esempio emblematico. Se ne stava lì, lui e i suoi lucidi occhietti persi in contorte riflessioni o nella sommaria catalogazione del nuovo mondo intorno a lui, e le labbra di tanto in tanto si piegavano in un vago sorriso. Parlava poco e dispensava perle di semplice arguzia. E intanto cresceva il piccolo mito, lì confinato e circoscritto. Così carino, candido, ironico… Il bel Nicoletti. E poi, Dio, che forza, mentre imparava a calcare le scene e si vestiva di fiamme! Il nostro splendido, adorabile, piccolo genio. A furia di dirglielo, ha finito per crederci.

Che poi, rimanga tra noi, ma recitare è l’altra cosa che a Nicoletti riesce troppo bene. Qualsiasi sfumatura si voglia dare alla parola “recitare”. È l’Attore, lui, l’Attore con la “A” maiuscola, l’istrione, dentro e fuori dalla cornice-palcoscenico o in qualsiasi altro contesto lo si voglia infilare. Per lui il vero palcoscenico è destreggiarsi tra i suoi simili. L’altra sua specialità, l’ho detto, è generare incazzature di portata storica.

Forse era il sottoscritto a fare eccezione alla legge sulle persone introverse, un po’ ermetiche, sul sottile alone di fascino che esercitano intorno a sé. E lo sapevo, dannazione – lo compresi soltanto a posteriori –, sapevo che è meglio fare meno affidamento possibile sui luoghi comuni. Perché ogni caso è mostruosamente unico e irripetibile, impossibile da ricondurre ad una legge che faccia da collante.

Io ero l’altra faccia della medaglia, nulla di più: l’equazione cui a nessuno, in realtà, importava prendersi la briga di decifrare, di rendere esplicita. Sempre più difficile, quando tutto, intorno a te, si configura nelle iridi di metallo brunito di un intrigante demonietto dai gesti attutiti nella nebbia, l’enigma al di là delle ciglia.

Forse mi trovava troppo insipido per lui, o forse, con altrettanta plausibilità, non aveva nessuna voglia di mettersi di buona lena a scandagliarlo come si conviene, il bizzarro termine ignoto così ben mascherato.

Ci sono poi ferite che riesci a portare tutto sommato con orgoglio, almeno in fase di cicatrice. Altre di cui non vai fiero, e allora preferisci occultarle sotto il calore di qualcosa che faccia da scudo. Ecco, era il mio caso.

Tre mesi da quell’ingresso semi-trionfale, e non avevo stretto amicizia praticamente con nessuno. Nicoletti compreso. Si scherzava ogni tanto, ci si provocava a tempo perso, in quelle lunghe serate autunnali trascorse a seguire il ricamo della pioggia sulla superficie del vetro; ci si chiamava cameratescamente per cognome. Ma per il resto, ripeto, eravamo poco più che due incognite impazzite, due particelle costrette a scorrazzare nel vuoto senza mai sfiorarsi.

Dopo il periodo di assestamento, era stato presto catturato nell’orbita di Alberti e Isa – altri futuri astri nascenti –, quasi per legge di natura. Io stavo là, osservatore nell’ombra e, al tempo stesso, vittima ignara di sferzate più o meno letali.

Chiariamo: l’ultima delle cose che desideravo, in quella delicata situazione, era che Andrea fosse tratto in inganno da un’idea sbagliata sul mio conto, unì’idea figlia di discorsi del cazzo. L’idea del superbo che non guarda in faccia nessuno, dell’invidioso che si rode il fegato nell’ombra, metabolizzando controvoglia i successi altrui, professionali, umani e quant’altro. Questa l’avrei quasi sopportata meglio. Peggio ancora, trovarmi con il marchio di sfigato senza appello, di povero alienato con la testa fra le nuvole che proprio non vuol saperne di scendere dal suo universo incantato.

Dicevano che ero bravo, o che comunque non ero così male. Dicevano persino che ero bello, ma non davo confidenza a nessuno.

E ritrovarsi così, in sospeso, invisibile, trasparente, costantemente frainteso, faceva male, dannazione! Faceva male già di suo, Andrea: ci hai mai pensato? Non riuscire a schizzare fuori da una fottuta corazza che, anziché ripararti da quel che sta fuori, tutto ciò che fa è renderti fragile, vulnerabile.

Forse è in quel momento che ho cominciato a fumare, anche se non ha molta importanza; non è che il risvolto macroscopico della questione, che cattura l’attenzione, l’involucro non necessariamente più significativo del contenuto. Non ricordo come diavolo è che ho iniziato a ficcare a viva forza nella mia esistenza abitudini che, fino a quel momento, poco e nulla avevano a che fare con me. Mi ci vedete? No, ecco. Nemmeno io. Ero il soggetto passivo della questione, manovrato dalle mie stesse paure. Fuma che ti passa.

Forse era la necessità disperata di fermarmi un momento, sigillare tutto in un unico istante, prima che la situazione imboccasse il sentiero del non-ritorno. Dormire e non pensarci più, sognando l’opportunità che non mi era stata elargita, l’attimo in cui le possibilità erano ancora immense e sconosciute, e nulla era ancora precipitato nel grigiore angosciante della salita impraticabile, senza aria per respirare. Sognare l’occasione di vita che in realtà non sarebbe mai stata, sapere quale via imboccare; immaginare di tornare indietro quando l’avessi voluto e riprendere in mano tutto da principio, io e Andrea, senza scivolare nel baratro della frecciata di troppo che devia il corso del fiume. Frecciata che mai – ci mancherebbe altro – nessuno si era mai degnato di scagliarmi in piena faccia. Che forse non sarei neppure stato in grado di rispedire al mittente senza incidenti diplomatici. Come ad esempio, chiarire a Isa che in fin dei conti mi andavo bene anche così, pure sfigato, leggermente paranoico e con qualche piccolo problema di socializzazione, se l’alternativa era diventare inutili puttanelle popolari.

Per farla breve, se proprio vogliamo metterla su questo piano, mi drogavo per regalarmi la possibilità, quando rientravo la sera, di non trascorrere il resto della serata a fissare il soffitto; a macinare, nella prospettiva di un alienante vicolo cieco, il vuoto di una giornata scivolata via dalle dita dentro la tana dei leoni, con una posta in gioco sempre più aspra.

Unico episodio degno di nota fu quella sera che Nicoletti se ne rientrò a notte fonda completamente sbronzo. Non so cosa gli fosse frullato in testa – forse il rientrare a pieno titolo tra le simpatie del suo amato professor Neri o chissà quale altro, effimero trionfo. Fatto sta che quella sera Andrea non si reggeva in piedi. Non che fossi in condizioni migliori, mezzo addormentato e con un post-canna niente male, ma in qualche modo riuscii a evitargli d’inciampare su ogni ostacolo lungo la sua traiettoria, risparmiandogli un’indegna conclusione della sua notte brava, disteso a tappetino sul pavimento.

Era completamente cotto e continuava a mugolare cose incomprensibili, aggrappato a me come a qualcosa di rassicurante, le unghie che affondavano con voluttà nella stoffa della maglietta. Alla fine riuscii a depositarlo sul letto.

Hai bisogno di qualcos’altro, principino? Sicuro che il mio ruolo si esaurisca qui?

- Derossi… Ho sete. Cosa c’è in frigo?

Vodka, tesoro. Per tutti i gusti. Ma non per te. Non è il caso.

- Ho la gola secca… – continuava a piagnucolare con la voce cantilenante, impastata di sonno.

Cazzi tuoi, Andrea. L’acqua del rubinetto è ciò che passa il convento. Chissà, magari ti rinfresca un po’ le idee.

- Gabri…? – un pigolio sottile sottile, di micio abbandonato.

Mi sembra di sentirlo ancora, in lontananza, un’eco che non si è mai smorzata del tutto.

Difficile conciliare tutto questo con il cipiglio a metà tra lo strafottente e l’annoiato che campeggiava di solito su quel volticino di porcellana.

Che succede, Andre? Ti fa male la testa?

E poi… Ecco, non so come ho fatto, a questo punto, a non stramazzare a terra.

- Gabri… Resti a dormire con me?

La cazzata del secolo, dannazione. E dannazione a te, Andrea. Maledetto. Fottuti imbecilli, tutti e due.

Cos’avrei dovuto farci secondo te su quel letto? Cosa diavolo ci facevo con te?

Ero il trastullo del momento, naturalmente; il giocattolo nuovo di zecca, il giaciglio su cui adagiare le tue membra aggraziate.

Per il resto, ti limitavi a ignorarmi e a dispensare sorrisi falsi. Era uno di quelli?

 

Chi c’è a disposizione per quattro innocenti lisciatine di testa? Gabriele Derossi, uno degli scemi con cui divido la stanza. Quello alto e bruno, con i capelli sconvolti, fisicamente passabile? Vada per lui, allora.

 

E allora coraggio, Derossi: non essere timido, accetta l’offerta generosa, lasciati onorare dal felino che ti si struscia sulle gambe, che ti spinge con il muso, desideroso di attenzioni, e si rifà le unghie sulla tua salute mentale.

Il dio Gatto l’aveva predetto.

 

Non so come trascorse poi quella notte. Ad ogni modo, assecondai il suo ennesimo capriccio. E sperai – sperai davvero, stavolta – in quella scintilla di deliziosa intimità. In quel corpo accaldato addossato al mio, un braccio sul mio petto come una barriera, possessivo, quasi a volermi impedire la fuga. Il suo respiro lento, appena alterato, dritto sul mio collo; il suo profumo destabilizzante, mix letale tra l’aroma cristallino della sua pelle e un sottile retrogusto d’alcool.

Erano poi i movimenti con cui chiedeva tacitamente una carezza, la parte ostica; quelle labbra delicate da fanciulla, e i suoi capelli, che mi ritrovavo continuamente sulla faccia.

Ti amo, Andrea. Maledizione.

L’ho detto. Qui lo dico e qui lo nego, per quanto possa negarlo fino a un certo punto.

 

Mi vuoi bene, Gabriele, almeno tu? Qua non me ne vuole nessuno. Vogliono solo l’amicizia del primo della classe, ma di Andrea a nessuno importa più di tanto. Mi getteranno nel cestino della carta straccia, appena sarò inutile ai loro propositi.

Tu almeno me ne vuoi un po’, Gabriele?

 

Sarebbe stato… Oh, dannazione! Sarebbe stato perfetto, il bandolo della matassa ritrovato, se le cose avessero seguito quella scia.

Cosa succede, Andrea? Cos’era successo, piccolo?

E dannazione a me che, per un istante, ripresi a respirare. E a sperare. Una svolta, in quel preciso istante. Una qualsiasi. Avrei potuto mettermi a supplicare.

Che diavolo ci facevi appiccicato a me a mo’ di francobollo, piuttosto, per poi arrivare a… allo schifo attuale?

Perché ti eri sbarazzato dei tuoi vestiti, idiota, e perché te ne stavi lì al caldo, simulacro vivo e tremendamente eccitante, premuto a viva forza contro le mie ossa, vestito solo di t-shirt e intimo?

Volevo baciarti, Andrea. Ibernare quella follia nella capsula di un secondo da rivivere all’infinito, come un nastro da rimandare indietro. Calcificarla su qualche superficie tangibile, come una fotografia che conservi i profumi, i singoli frammenti di vita.

Volevo baciarti. Disperatamente. Piano, così. Adagio. Ed eri così bello…

Non dicesti nulla. Ti limitasti a stringerti a me, braccia e gambe, il tuo viso e la tua bocca a stretto contatto con la mia pelle, appena sotto la gola, un sospiro appena percettibile a seguire il ticchettio dei secondi.

In qualche modo, anche quella notte vide il suo termine.

L’indomani, manco a dirlo, eri uno straccio per lavare i vetri. Ti limitasti a mugolare, dal groviglio delle lenzuola, che non stavi bene, che non avresti schiodato le chiappe da quel letto per niente al mondo e non ti saresti presentato a lezione. Di inventarmi una balla e mandare tutti a quel paese da parte tua.

Il professor Neri, il tuo mentore, naturalmente poteva aspettare i tuoi comodi. Non che il fatto che la sera precedente fossi ubriaco non avesse fatto il giro dell’istituto. Comunque, nessuno ti torse un capello. O non ancora, non a viso scoperto.

Si respirava un’atmosfera strana, il veleno nell’intonaco delle pareti: il veleno di chi avrebbe venduto la madre pur di procacciarsi una chance e accedere di diritto allo stage di Neri, stimato docente di Drammaturgia e Tecniche teatrali. Andrea era il suo pupillo, l’ho già detto.

Ed io ero demoralizzato al massimo. Non mi piaceva per nulla come stavano andando le cose. Non mi piaceva il mio modo di stare là dentro, il mio ruolo ritagliato nelle trame elaborate della tappezzeria nuova della sala audizioni. Non mi piaceva la figura in ombra seduta laggiù in fondo, assente, i gomiti puntati e un fitto banco di nebbia tra sé e l’altro, tra sé e il fantasma di ciò che desidera, tra sé e ciò che avrebbe voluto o potuto essere, che gli si chiedeva di essere. Presente. Sarebbe bastato questo.

Non mi piaceva ciò che gli altri vedevano di me, non mi piaceva la mia immagine distorta sbalzata in fondo alle pupille del casuale osservatore. Io non ero nulla di tutto ciò.

Fu Nicoletti, manco a dirlo, a buttare il carico da undici. Non ero la sua compagnia preferita, l’avevo capito. Non mi conosceva. Conosceva ciò che non ero, che non mi rappresentava, e questo non gli diceva nulla. Aveva gettato la spugna da tempo. Molto meglio archiviare la parentesi della sbronza in fondo a un cassetto su in soffitta.

Sembrava che l’ambizione di essere il migliore, ancora una volta, di distinguersi in quel marasma di schegge impazzite, se lo stesse mangiando. Ormai, evitavo completamente l’argomento, perché mi avrebbe fatto capire che per lui non ero all’altezza. Alla sua, quantomeno. Era diventato l’argomento tabù, pena la defenestrazione.

Tu… contro di me, Derossi? Sembravano gridarmi i suoi occhietti liquidi, sfuggenti, sarcasmo ritagliato in un blocco d’ossidiana. Anche tu, sciocchino, sei tra quelli che vorrebbero soffiarmi il posto? Possibile che a nessuno venga in mente di riservarmi scommesse più appetitose?

Si leccava le labbra come una tigre pronta ad addentare un pasto esiguo per quanto vitale.

E continuava a guadagnare punti. L’Accademia intera smaniava per lui, tutti lo guardavano con rispetto; qualcuno l’avrebbe pure voluto morto, ma erano dettagli insignificanti.

Me lo disse chiaro e tondo: cosa volete di più? Io non mi sento in competizione con te, Gabriele. Non sei un… problema. La fissa è solo tua. Tu… e me? Stai scherzando?

Non so cosa mi trattenne, quel giorno, da colpirlo su quel faccino da serpe fino a buttarlo a terra, fino a vedere il sangue. So solo che qualcosa, qualche morbo oscuro ancorato in fondo alla gola, soffocò il mio grido sul nascere, inchiodò la mia volontà alla parete.

Almeno… avrei potuto almeno urlargli addosso quel suo stesso disprezzo gravato degli interessi. Invece fu solo tanta rabbia in potenza, e poi la figura misera di chi non è in grado di rimbalzare al mittente l’umiliazione subita.

Tutto ciò che venne fuori da quella mezza discussione biascicata tra sguardi scivolosi e pieni di rancore, fu la mia ritirata fulminea, ho bisogno di un’altra stanza, cambio stanza, per favore – non voglio un deficiente vanaglorioso fra i piedi. E un “vaffanculo” smozzicato sul limitare della porta. Vaffanculo, Nicoletti. È il posto che più ti si addice.

Neri intanto se la mangiava con gli occhi, la sua creatura. Era abbastanza. Sin dal primo momento, quelle attenzioni mi avevano reso furioso. E deluso. Come studente, come cretino innamorato di un mostro insensibile dalle mille facce. Avrei dato quanto avevo di più caro, per ficcarmi lì in mezzo a viva forza, guadagnarmi la stima del professore e l’amicizia di Andrea. Ci tenevo. Mi mangiavo il fegato nell’ombra. Perché io ero il figlio della serva, lui splendeva davanti agli occhi di chiunque lo osservasse.

Ero lì. Ancora una volta fermo al palo, escluso da trame che desideravo fare mie, geloso del gesto più banale, di una quotidianità rasserenante che non mi apparteneva; di occhi che mai si sarebbero posati su di me, di un rapporto umano, del calore che non riuscivo a sentire né a trasmettere. O meritare.

Sicuro che tutti ti odino, Nicoletti? O era la tua ennesima menata? Volevi irretire anche me. O forse no, nemmeno questo. Perché, a pensarci bene, non ero indispensabile alla tua sopravvivenza. Semplicemente non esistevo nel tuo orizzonte. Ero il torrente di parole non dette. Perché avresti dovuto preoccupartene?

 

Cos’eri tu, Gabriele, prima che arrivasse lui? Che cos’era, prima, la tua vita?

Era il Caos. La perenne, frustrante mancanza. Un continuo ripiegarsi. E lui, tutto sommato, non è che una singola manifestazione, una delle tante facce momentaneamente vive di questa “mancanza”. Di questo fluttuare nel vuoto. La perenne indecisione, l’intima vigliaccheria che uccide il moto concreto mentre stai per gettarti su un banchetto immaginario.

 

È stato forse lui a segnare lo stacco, a decretare la sconfitta, la frustrazione, l’occasione mancata? A porsi come punta dell’iceberg del tuo disastro esistenziale?

Non è così. È solo la falce di luna visibile in questo frangente.

 

Ha cambiato qualcosa, in concreto?

Mi ha reso di nuovo vivo, almeno per un po’. Intimamente, ma senza le sovrastrutture per esserlo davvero. Solo una frustrante implosione che non riesce a valicare le barriere.

 

La sua semidivinità non ebbe lunga vita. Qualcosa si spezzò, e poi giunse la tempesta a riscrivere i confini.

Neri fu sollevato dai suoi incarichi. Qualcuno fece una soffiata, qualcun altro vociferò che avesse una mezza relazione con un suo allievo. Che quest’ultimo ne avesse beneficiato in qualche modo. Il nome dell’allievo non venne mai fuori.

La verità, poi, è che a fare le scarpe a Neri furono la Longoni e la Balducci, nemiche di vecchia data. Con la complicità dei loro cocchini raccomandati e corruttibili. Che naturalmente lo odiavano.

Chissà se saltò fuori proprio allora, il nome di Andrea. Non era l’unico ragazzo bisex o omosessuale nell’intero istituto, questo no. Era l’unico, però, a starsene appiccicato al professore in maniera al dir poco equivoca.

Ancora una volta, conoscevo i retroscena. E ancora una volta mi preoccupai di morsicarmi la lingua. O meglio, vi fu qualcosa di ancestrale che mi fece gettare ai rovi la possibilità di immerdare a puntino un figlio di puttana reo di essermi entrato nel cuore e avermelo ridotto a uno scolapasta. Di aver scovato con il lanternino i miei punti deboli ed esserci passato sopra più e più volte con l’aratro. Di aver minato la mia sanità mentale, propinandomi a scadenze alterne sorrisetti provocatori che sapevano di miele, riaccendendo in me la speranza di nonsochecosa, per poi infliggermi la mazzata con gli interessi e scagliarmi di nuovo nel fosso.

Questo è il mio ultimo favore per te, Andrea, giurai. Il mio ultimo atto di lealtà.

Come ad esempio, un po’ di tempo fa, evitare che Alberti, nel corso di una lite, ti pestasse di santa ragione. Ecco, quella non so proprio come mi venne. Dovevo aver fumato di recente, per forza di cose, o non me la spiego. Sarebbe stato il coronamento ideale: Alberti e Nicoletti che se le danno di santa ragione, e fine dell’idillio.

Come dicevo, la semidivinità di Andrea uscì da questa storia intaccata, trafitta da insidiosi punti di domanda, privo com’era del suo pigmalione. Non so poi cosa accadde di preciso, nel frattempo. So solo che, per un po’, evitai di mangiarmi il fegato crogiolandomi nella fugace visione, sempre fissa nella mia mente, di Andrea fra le braccia del professore. Ma questo di solito succede quando ho particolarmente voglia di farmi del male.

Chissà cos’era vero e cosa non lo era, alla fine. Chissà cos’era stato per lui tutto questo. Se davvero era il viscido profittatore che avevo creduto per lungo tempo. Chissà… com’erano andate davvero le cose. Senza il fiele del pregiudizio a fare da filtro.

Vi chiedete come diavolo faccia a sapere tutte queste cose? Beh… È una storia ancora più lunga. Tutt’altro che entusiasmante, credetemi.

La tempesta sul momento parve placarsi, tra un sorriso gravido di veleno e un cattivo proposito trattenuto malamente fra le dita. Troppi giri strani, troppi avvoltoi che si lanciavano a beccare le briciole, dopo la caduta di Neri. E le cose andarono di male in peggio.

Fu a quel punto che entrò in scena la Loria. O meglio, che mi avvidi della sua esistenza. Elena Anna Loria, presente. A scadenze alterne, ma mai ai miei livelli.

Di lei, per quel poco che posso ricordare, avevo sempre creduto fosse un tipo tosto. Abbastanza tosto da portarsi in giro con fierezza una criniera che ormai le sfiorava i fianchi, in barba alle occhiate al vetriolo di qualche vipera che mal sopportava il suo starsene fuori da ogni recinto imposto, il suo rifuggire con altrettanta noncuranza il posto che le era stato affibbiato – quello del brutto anatroccolo che dovrebbe far “sì” con la testa per paura di finire in bocca allo squalo di turno –, nonché il suo fermo rifiuto di affondare le zanne nella carne martoriata del nemico appena abbattuto e demonizzato a dovere. Era una che badava ai cazzi propri. O, almeno, fu la mia prima impressione.

Come dicevo, la ghenga al femminile di Isa mal tollerava l’atteggiarsi a regina di picche di quella che sarebbe stata la outsider per eccellenza, se fossimo stati in un teen-moovie made in Usa. Si trascinava da un corridoio all’altro come una visione in bianco e nero, dimentica di chi la accusava di non prendere posizione. Secchiona del cazzo. Se mai ci fosse stata, aggiungo, una “posizione” definita, non inquinata da secondi fini prestabiliti, che valesse la pena di essere abbracciata senza riserve.

“Io osservo”, sembrava rispondere lei. E un po’ la ammiravo per questo. Non che fosse un personaggio: semplicemente, non doveva fregargliene proprio un accidente, di guerre di quartiere e affini.

Non che Loria sia brutta. Semplicemente, a qualcuna avrebbe fatto comodo che, a suo tempo, si fosse rassegnata all’invisibilità. Bisognava abbatterla in tutte le sue accezioni, come collega, come donna; farle terra bruciata intorno, lasciarla in disparte: una rottura di palle in meno. Comunque devo ammettere che ha una bella faccia, alla fine. Occhi scuri, zigomi alti. Ha un che di drammatico, forse anche questo contribuì al suo ingresso, chissà. Al silente interesse di Neri nei suoi confronti, interesse non gridato, per sua fortuna, come accadde per Nicoletti.

È risaputo poi come la penso io, no? E dico che se mai dovesse frullarmi in testa di andare a letto con una donna, ecco, penso che la mia scelta ricadrebbe più su un tipo alla Elena Loria. Non mi dice nulla la quinta abbondante che Sara, l’amica del cuore di Isa, si ostinava a sbattermi sotto il naso a ogni piè sospinto. Benedetta figliola, devo forse mettertelo per iscritto che, uno, mi piacciono gli uomini; due, il sangue di arpia mi sarebbe indigesto…? Forse, se l’élite dei miracoli non mi avesse ritenuto una specie di alieno completamente schizzato, alla fine un pensiero ce l’avrebbe fatto. Con mio sommo imbarazzo.

Alla fine, per farla breve, non fu Loria a coinvolgermi nel folle progetto. Fu uno scambio fitto di e-mail durante il quale rifiutai fino all’ultimo di palesarle la mia identità. Le passai tutto il materiale che riuscii a racimolare – materiale da cui saltarono fuori simpatici altarini, vedi il padre di Alessandro Alberti che, tramite finanziamenti incrociati, si preoccupava di supportare di tasca propria parte delle attività extracurricolari per cui l’Accademia era rinomata, e via discorrendo, con altre beltà di questo genere. Peccatucci veniali e meno veniali in un intreccio inedito.

E la seconda bomba ben presto esplose; Nicoletti fiutò l’affare, fece il voltafaccia e diede inizio alla sua donchisciottesca crociata per riabilitare Neri, vittima, a suo dire, di complotti dall’alto perché scomodo agli alti vertici. E il resto, come sapete, è storia.

Ora, certo qualcuno si starà chiedendo perché colui che complottò esclusivamente nell’ombra, che fino all’ultimo rifiutò di parare la faccia, ora giace disteso sul pavimento del corridoio nord dell’istituto, di fronte all’aula ventitré, con una probabile frattura al naso. E per quale motivo Andrea Nicoletti, il diavolo, si porta a spasso le sue ossa tutte intere, mentre strilla ai quattro venti che spaccherà la faccia al primo stronzo che oserà mettere in dubbio la moralità di Neri dopo aver avallato, in cambio di qualche posizione di favore, le porcherie di Longoni, Balducci e relativo codazzo di leccapiedi matricolati.

Il nodo cruciale è che vorrei davvero riuscire a odiarlo, Andrea. Disperatamente. A fargli male, per una volta.

 

 

 

 

 

 

Buonasera a tutti!

Poiché vado un po’ di fretta, stavolta evito le circonvoluzioni verbali e passo direttamente a rispondere alle recensioni.^^

Witch: oltre al fatto che il tuo commento… estremamente “passionale”, “istintivo”, ecco, mi ha fatto davvero piacere, devo dire che, ebbene sì, non ci hai visto affatto sbagliato. Almeno, riguardo alla situazione per come si presenta fino a questo momento. E, chissà, forse in questo capitolo le questioni si delineano in maniera un po’ meno fumosa.

La “doppia coincidenza nominale”, se ci pensi, ha un che di “terribile”, in un certo qual modo. Comunque, mi sa proprio che Andrea è venuto su così e ci possiamo fare ben poco, XD. Doveva risultare un po’ “coglione”, quello sì: diciamo, ecco, che l’obbiettivo è stato raggiunto. Chissà, però, che i fatti non ci smentiscano nel tempo. Che il pugnale l’abbia già sfoderato a suo tempo, come dicevi, è sacrosanto. Crescerà. Almeno, spero. In ogni caso, trattare con lui come personaggio, si sta persino rivelando divertente!

Alla prossima, un bacio! <3

 

 

   
 
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