Capitolo
6
La cronaca di un
termine ignoto
La porta sbattuta
in faccia è un’immagine eloquente, se devo liquidare il discorso con un simbolo
che racchiuda bene il significato.
Retorica
spicciola, okay, ammettere che così comincia e così finisce – stando alla logica
passeggera di questo preciso istante – la parabola discendente di
un’irrinunciabile occasione di vita. Porta in faccia, punto, poche
storie.
Era la mia
splendida, delirante occasione, sin dal momento in cui misi piede qua dentro,
uno sfondo di troppe luci e troppe incertezze; occasione che poteva contenere, in nuce, la
possibilità di portarmi qualcosa di buono. Eventualmente.
Occasione
sbiadita, stanca; troppo sfuggente e
remota per diventare concreta, per poterne intersecarne il cammino; e magari
afferrarla, addomesticarla nel mio particolare caso con altrettanta
indolenza.
Gabriele Derossi,
molto piacere. Quello che, strategicamente, occupa sempre uno degli ultimi posti
in fondo, qualche schiena di troppo a fare da barriera tra sé e l’eventuale
seccatore. Quello insuperbito e tutto dalle sue: troppo, per scendere dal
trespolo e dichiararsi comune mortale a tutti gli effetti. O forse,
semplicemente, troppo codardo per esporsi in prima persona e, schiaffeggiato nel
marasma di un teatrino d’interpreti mediocri, gridare sì, dannazione, sono
vivo!
Quello abbastanza
masochista – o abbastanza furbo – da preferire, se proprio deve, una sospetta
frattura del setto nasale, con tanto di provvidenziale scivolamento nell’oblio,
ad una “porta in faccia” morale che non lasci troppi segni
visibili.
Ai suoi occhi
fissi nei tuoi, che ridono sotto le leggendarie ciglia scure e tutto incatenano
a sé; che ti catturano per un istante, nell’ebbrezza di un messaggio da
decifrare, rendendoti fugacemente partecipe; e poi ti mollano lì, punto e capo,
pronti a ribadire il concetto.
Io sono, mio
caro. Esisto.
Insomma,
mettetevi un po’ nei miei panni: un attimo prima c’era l’angoscia, il gelo della
più nera autocommiserazione, il suo volto stampato davanti ai miei occhi come
una specie di reliquia. Un attimo dopo, solo il cielo bianco abbagliante del
soffitto a tre metri o poco più in linea con i miei occhi, un vago sentore di
pace come dopo una dose di tranquillante, e il sapore del sangue a invischiarmi
le labbra fino in fondo alla gola.
Chissà se lui si sarebbe fatto quattro risate o
se, al contrario, avrebbe avuto un attimo di sgomento – perché, accidenti, anche Derossi è umano;
anche Derossi ha il suo delizioso, insospettabile difetto di fabbrica –,
nell’apprendere che il sottoscritto si sente svenire per due gocce di sangue:
immaginate un po’ trovarsene la faccia impregnata, le labbra impastate di quel
retrogusto appiccicoso, metallico.
Troppo pochi, i
secondi a disposizione, per razionalizzare l’accaduto e non lasciarti portare
alla deriva dalle tue personali fobie. Sempre meglio il mondo dei
sogni.
Chissà se lui avrebbe commentato con la solita
voce strascicata. Che magari, tutto sommato, gli facevo tenerezza. Lui e il suo
sorriso disarmante.
Poi si sarebbe
passato una mano tra i capelli e sarebbe tornato al solito sarcasmo in forma
standard. Chi diavolo è, in fin dei conti, lo sconosciuto che si guarda intorno
e distilla una parola ogni due ore?
Ed è così
superfluo ripartire da principio, ora, e dire che la mia croce e delizia, l’alfa
e l’omega, l’ascesa e il proverbiale declino, hanno nome Andrea
Nicoletti?
Voglio dire che,
quasi di certo, ogni singola cazzata che lui avrà avuto modo di assemblare sul
mio conto fino a questo momento, purtroppo è vera. Che sono un paranoico, un
lupo solitario, un’incognita trasparente, materia indistinta in via di
ebollizione, insignificante agli occhi dei più? Niente di più
vero.
Il fatto che non
fosse riuscito a inquadrarmi al primo colpo, doveva aver scompaginato non poco
la sua perversa, naturale tendenza che spazia dalla semplice provocazione al
rendere il soggetto prescelto un’appetibile valvola
antistress.
Se c’è una cosa
che a Nicoletti riesce bene, in fin dei conti, è proprio farti incazzare. Sarà
un modo di dimostrare il suo affetto, chissà.
Io l’avevo detto,
del resto; l’avevo intuito da subito, che a furia di macinare discorsi su
discorsi, di far previsioni del cazzo, lui era destinato a vestire i panni
della mia Nemesi spietata, pronta a sviscerare le mie debolezze con i suoi occhi
d’ardesia fine. E poi sputarci sopra.
Ho capito quale
sarà la prossima domanda. Se è vero che mi faccio. E che sono fuori come un
missile. Ho la certezza pressoché matematica che il solito Nicoletti abbia
raccontato castronerie tali da surclassare persino il suo ex-compare di
malefatte, l’Alessandro Alberti con cui ha rotto il sodalizio e che ora,
presumibilmente, starà fremendo dalla gioia di andarsene a strillare ai quattro
venti che Nicoletti lo dà via come se non fosse suo.
Non credete alle
stronzate che vi dirà Andrea. La verità, se proprio lo volete sapere, è che avrò
fumato sì e no una volta o due in sua presenza – e che sarà stato… – e, da lì,
ecco partorita seduta stante la sua personale versione dei fatti, pronta da
dare in pasto ai deficienti come verità assoluta, infiorettata a prova di
cretino.
Del resto, non è
che la mia stupenda, logorante ossessione. Andrea.
Eppure le cose
parevano tutto fuorché destinate ad andare così – almeno, per quel che mi
riguarda. Di certo non a vederci contrapposti come due ratti che cercano di
passare contemporaneamente in un cunicolo troppo stretto; antagonisti per forza,
dualismo imperfetto e caldeggiato artificiosamente, là fuori, da qualche pazzo
sceneggiatore di soap-opera o qualche malalingua di passaggio. Con gran
disappunto della nostra stellina, troppo al di sopra di tutti, a ben vedere, per
accettare a cuor leggero la competizione fasulla con uno sfigato di prima
categoria.
All’inizio
dividevamo pure la stanza. Io e lui. Si parla della mitologia della mia
permanenza al “Goldoni”, quando intorno a noi non c’era nient’altro che un
microcosmo dalle pareti chiare; così semplice, ai miei occhi, incontaminato,
salvo quel bizzarro, rassicurante profumo d’ignoto, come una scatola vuota da
riempire. Strano dirlo, per uno che come me detesta le novità piazzate fra capo
e collo e l’angoscia che ti artiglia la nuca.
Ero lì,
completamente confuso, sospinto a viva forza dentro un labirinto di bivi e
incertezze, inebriato da quel piacevole, nauseante profumo di nuovo.
Lui aveva
stampata in viso l’espressione sagace dell’uomo di mondo, flemmatico e
razionale, nulla di nuovo sotto il sole: nulla in grado di destabilizzarlo, le
redini della situazione strette nel pugno.
Sembrava un
sogno, e lui era il mago dal volto enigmatico.
Ti dirò il tuo
futuro. Avvicinati, non temere.
Ricordo che ebbe
la buona grazia di sollevarsi a sedere, come un gatto dalle movenze altezzose,
quando irruppi per la prima volta nella camera spoglia, la sua reggia appena
nidificata. Che ci apprestavamo a condividere. Continuava ad arrotolarsi
pigramente tra le dita una ciocca di capelli come seta inanellata – lo ricordo
ancora – e aveva gli occhi sottili e una piega appena percettibile all’angolo
della bocca. Piega che, nel migliore dei casi, poteva sfociare nel più radioso
dei sorrisi. Le labbra di velluto e uno scintillio acuto e sfuggente in fondo
alle iridi.
Non so dire se la
stoccata in pieno stomaco fu il vibrare della sua voce bassa in un Piacere, Andrea leggermente trascinato, l’impronta vagamente adolescenziale;
un miagolio troppo studiato, troppo per dirsi appunto “studiato”. O se fu
piuttosto la lunga stretta di mano che seguì, accompagnata da un cenno sibillino
del capo.
E poi… Non so,
ripeto. Non so cos’altro aggiungere per fare chiarezza. Non era che un preludio
dai colori troppo tenui, caliginosi, per individuarne i contorni, e una luce
soffusa rendeva tutto così dolce, pulito, privo di fuorvianti
implicazioni.
Avevo intuito che
Nicoletti non era il tipo che desiderassi farmi nemico: no, non era quel suo
essere malizioso e imprevedibile a spaventarmi, man mano che imparavo a
conoscerlo, quanto il fatto che la sua presenza, per qualche motivo, mi
turbava.
Ci sono incognite
che rendono appetibile l’oggetto che ti capita davanti agli occhi. Andrea è
l’esempio emblematico. Se ne stava lì, lui e i suoi lucidi occhietti persi in
contorte riflessioni o nella sommaria catalogazione del nuovo mondo intorno a
lui, e le labbra di tanto in tanto si piegavano in un vago sorriso. Parlava poco
e dispensava perle di semplice arguzia. E intanto cresceva il piccolo mito, lì
confinato e circoscritto. Così carino, candido, ironico… Il bel Nicoletti. E
poi, Dio, che forza, mentre imparava a calcare le scene e si vestiva di fiamme!
Il nostro splendido, adorabile, piccolo genio. A furia di dirglielo, ha finito
per crederci.
Che poi, rimanga
tra noi, ma recitare è l’altra cosa che a Nicoletti riesce troppo bene.
Qualsiasi sfumatura si voglia dare alla parola “recitare”. È l’Attore, lui,
l’Attore con la “A” maiuscola, l’istrione, dentro e fuori dalla
cornice-palcoscenico o in qualsiasi altro contesto lo si voglia infilare. Per
lui il vero palcoscenico è destreggiarsi tra i suoi simili. L’altra sua
specialità, l’ho detto, è generare incazzature di portata
storica.
Forse era il
sottoscritto a fare eccezione alla legge sulle persone introverse, un po’
ermetiche, sul sottile alone di fascino che esercitano intorno a sé. E lo
sapevo, dannazione – lo compresi soltanto a posteriori –, sapevo che è meglio
fare meno affidamento possibile sui luoghi comuni. Perché ogni caso è
mostruosamente unico e irripetibile, impossibile da ricondurre ad una legge che
faccia da collante.
Io ero l’altra
faccia della medaglia, nulla di più: l’equazione cui a nessuno, in realtà,
importava prendersi la briga di decifrare, di rendere esplicita. Sempre più
difficile, quando tutto, intorno a te, si configura nelle iridi di metallo
brunito di un intrigante demonietto dai gesti attutiti nella nebbia, l’enigma al
di là delle ciglia.
Forse mi trovava
troppo insipido per lui, o forse, con altrettanta plausibilità, non aveva
nessuna voglia di mettersi di buona lena a scandagliarlo come si conviene, il
bizzarro termine ignoto così ben mascherato.
Ci sono poi
ferite che riesci a portare tutto sommato con orgoglio, almeno in fase di
cicatrice. Altre di cui non vai fiero, e allora preferisci occultarle sotto il
calore di qualcosa che faccia da scudo. Ecco, era il mio
caso.
Tre mesi da
quell’ingresso semi-trionfale, e non avevo stretto amicizia praticamente con
nessuno. Nicoletti compreso. Si scherzava ogni tanto, ci si provocava a tempo
perso, in quelle lunghe serate autunnali trascorse a seguire il ricamo della
pioggia sulla superficie del vetro; ci si chiamava cameratescamente per cognome.
Ma per il resto, ripeto, eravamo poco più che due incognite impazzite, due
particelle costrette a scorrazzare nel vuoto senza mai
sfiorarsi.
Dopo il periodo
di assestamento, era stato presto catturato nell’orbita di Alberti e Isa – altri
futuri astri nascenti –, quasi per legge di natura. Io stavo là, osservatore
nell’ombra e, al tempo stesso, vittima ignara di sferzate più o meno
letali.
Chiariamo:
l’ultima delle cose che desideravo, in quella delicata situazione, era che
Andrea fosse tratto in inganno da un’idea sbagliata sul mio conto, unì’idea
figlia di discorsi del cazzo. L’idea del superbo che non guarda in faccia
nessuno, dell’invidioso che si rode il fegato nell’ombra, metabolizzando
controvoglia i successi altrui, professionali, umani e quant’altro. Questa
l’avrei quasi sopportata meglio. Peggio ancora, trovarmi con il marchio di
sfigato senza appello, di povero alienato con la testa fra le nuvole che proprio
non vuol saperne di scendere dal suo universo incantato.
Dicevano che ero
bravo, o che comunque non ero così male. Dicevano persino che ero bello, ma non
davo confidenza a nessuno.
E ritrovarsi
così, in sospeso, invisibile, trasparente, costantemente frainteso, faceva male,
dannazione! Faceva male già di suo, Andrea: ci hai mai pensato? Non riuscire a
schizzare fuori da una fottuta corazza che, anziché ripararti da quel che sta
fuori, tutto ciò che fa è renderti fragile, vulnerabile.
Forse è in quel
momento che ho cominciato a fumare, anche se non ha molta importanza; non è che
il risvolto macroscopico della questione, che cattura l’attenzione, l’involucro
non necessariamente più significativo del contenuto. Non ricordo come diavolo è
che ho iniziato a ficcare a viva forza nella mia esistenza abitudini che, fino a
quel momento, poco e nulla avevano a che fare con me. Mi ci vedete? No, ecco.
Nemmeno io. Ero il soggetto passivo della questione, manovrato dalle mie stesse
paure. Fuma che ti passa.
Forse era la
necessità disperata di fermarmi un momento, sigillare tutto in un unico istante,
prima che la situazione imboccasse il sentiero del non-ritorno. Dormire e non
pensarci più, sognando l’opportunità che non mi era stata elargita, l’attimo in
cui le possibilità erano ancora immense e sconosciute, e nulla era ancora
precipitato nel grigiore angosciante della salita impraticabile, senza aria per
respirare. Sognare l’occasione di vita che in realtà non sarebbe mai stata,
sapere quale via imboccare; immaginare di tornare indietro quando l’avessi
voluto e riprendere in mano tutto da principio, io e Andrea, senza scivolare nel
baratro della frecciata di troppo che devia il corso del fiume. Frecciata che
mai – ci mancherebbe altro – nessuno si era mai degnato di scagliarmi in piena
faccia. Che forse non sarei neppure stato in grado di rispedire al mittente
senza incidenti diplomatici. Come ad esempio, chiarire a Isa che in fin dei
conti mi andavo bene anche così, pure sfigato, leggermente paranoico e con
qualche piccolo problema di socializzazione, se l’alternativa era diventare
inutili puttanelle popolari.
Per farla breve,
se proprio vogliamo metterla su questo piano, mi drogavo per regalarmi la
possibilità, quando rientravo la sera, di non trascorrere il resto della serata
a fissare il soffitto; a macinare, nella prospettiva di un alienante vicolo
cieco, il vuoto di una giornata scivolata via dalle dita dentro la tana dei
leoni, con una posta in gioco sempre più aspra.
Unico episodio
degno di nota fu quella sera che Nicoletti se ne rientrò a notte fonda
completamente sbronzo. Non so cosa gli fosse frullato in testa – forse il
rientrare a pieno titolo tra le simpatie del suo amato professor Neri o chissà
quale altro, effimero trionfo. Fatto sta che quella sera Andrea non si reggeva
in piedi. Non che fossi in condizioni migliori, mezzo addormentato e con un
post-canna niente male, ma in qualche modo riuscii a evitargli d’inciampare su
ogni ostacolo lungo la sua traiettoria, risparmiandogli un’indegna conclusione
della sua notte brava, disteso a tappetino sul pavimento.
Era completamente
cotto e continuava a mugolare cose incomprensibili, aggrappato a me come a
qualcosa di rassicurante, le unghie che affondavano con voluttà nella stoffa
della maglietta. Alla fine riuscii a depositarlo sul
letto.
Hai bisogno di
qualcos’altro, principino? Sicuro che il mio ruolo si esaurisca
qui?
- Derossi… Ho
sete. Cosa c’è in frigo?
Vodka, tesoro.
Per tutti i gusti. Ma non per te. Non è il caso.
- Ho la gola
secca… – continuava a piagnucolare con la voce cantilenante, impastata di
sonno.
Cazzi tuoi,
Andrea. L’acqua del rubinetto è ciò che passa il convento. Chissà, magari ti
rinfresca un po’ le idee.
- Gabri…? – un
pigolio sottile sottile, di micio abbandonato.
Mi sembra di
sentirlo ancora, in lontananza, un’eco che non si è mai smorzata del
tutto.
Difficile
conciliare tutto questo con il cipiglio a metà tra lo strafottente e l’annoiato
che campeggiava di solito su quel volticino di porcellana.
Che succede,
Andre? Ti fa male la testa?
E poi… Ecco, non
so come ho fatto, a questo punto, a non stramazzare a
terra.
- Gabri… Resti a
dormire con me?
La cazzata del
secolo, dannazione. E dannazione a te, Andrea. Maledetto. Fottuti imbecilli,
tutti e due.
Cos’avrei dovuto
farci secondo te su quel letto? Cosa diavolo ci facevo con
te?
Ero il trastullo
del momento, naturalmente; il giocattolo nuovo di zecca, il giaciglio su cui
adagiare le tue membra aggraziate.
Per il resto, ti
limitavi a ignorarmi e a dispensare sorrisi falsi. Era uno di
quelli?
Chi c’è a
disposizione per quattro innocenti lisciatine di testa? Gabriele Derossi, uno
degli scemi con cui divido la stanza. Quello alto e bruno, con i capelli
sconvolti, fisicamente passabile? Vada per lui,
allora.
E allora
coraggio, Derossi: non essere timido, accetta l’offerta generosa, lasciati
onorare dal felino che ti si struscia sulle gambe, che ti spinge con il muso,
desideroso di attenzioni, e si rifà le unghie sulla tua salute
mentale.
Il dio Gatto
l’aveva predetto.
Non so come
trascorse poi quella notte. Ad ogni modo, assecondai il suo ennesimo capriccio.
E sperai – sperai davvero, stavolta – in quella scintilla di deliziosa intimità.
In quel corpo accaldato addossato al mio, un braccio sul mio petto come una
barriera, possessivo, quasi a volermi impedire la fuga. Il suo respiro lento,
appena alterato, dritto sul mio collo; il suo profumo destabilizzante, mix
letale tra l’aroma cristallino della sua pelle e un sottile retrogusto
d’alcool.
Erano poi i
movimenti con cui chiedeva tacitamente una carezza, la parte ostica; quelle
labbra delicate da fanciulla, e i suoi capelli, che mi ritrovavo continuamente
sulla faccia.
Ti amo, Andrea.
Maledizione.
L’ho detto. Qui
lo dico e qui lo nego, per quanto possa negarlo fino a un certo
punto.
Mi vuoi bene,
Gabriele, almeno tu? Qua non me ne vuole nessuno. Vogliono solo l’amicizia del
primo della classe, ma di Andrea a nessuno importa più di tanto. Mi getteranno
nel cestino della carta straccia, appena sarò inutile ai loro
propositi.
Tu almeno me ne
vuoi un po’, Gabriele?
Sarebbe stato…
Oh, dannazione! Sarebbe stato perfetto, il bandolo della matassa ritrovato, se
le cose avessero seguito quella scia.
Cosa succede,
Andrea? Cos’era successo, piccolo?
E dannazione a me
che, per un istante, ripresi a respirare. E a sperare. Una svolta, in quel
preciso istante. Una qualsiasi. Avrei potuto mettermi a
supplicare.
Che diavolo ci
facevi appiccicato a me a mo’ di francobollo, piuttosto, per poi arrivare a…
allo schifo attuale?
Perché ti eri
sbarazzato dei tuoi vestiti, idiota, e perché te ne stavi lì al caldo, simulacro
vivo e tremendamente eccitante, premuto a viva forza contro le mie ossa, vestito
solo di t-shirt e intimo?
Volevo baciarti,
Andrea. Ibernare quella follia nella capsula di un secondo da rivivere
all’infinito, come un nastro da rimandare indietro. Calcificarla su qualche
superficie tangibile, come una fotografia che conservi i profumi, i singoli
frammenti di vita.
Volevo baciarti.
Disperatamente. Piano, così. Adagio. Ed eri così bello…
Non dicesti
nulla. Ti limitasti a stringerti a me, braccia e gambe, il tuo viso e la tua
bocca a stretto contatto con la mia pelle, appena sotto la gola, un sospiro
appena percettibile a seguire il ticchettio dei secondi.
In qualche modo,
anche quella notte vide il suo termine.
L’indomani, manco
a dirlo, eri uno straccio per lavare i vetri. Ti limitasti a mugolare, dal
groviglio delle lenzuola, che non stavi bene, che non avresti schiodato le
chiappe da quel letto per niente al mondo e non ti saresti presentato a lezione.
Di inventarmi una balla e mandare tutti a quel paese da parte
tua.
Il professor
Neri, il tuo mentore, naturalmente poteva aspettare i tuoi comodi. Non che il
fatto che la sera precedente fossi ubriaco non avesse fatto il giro
dell’istituto. Comunque, nessuno ti torse un capello. O non ancora, non a viso
scoperto.
Si respirava
un’atmosfera strana, il veleno nell’intonaco delle pareti: il veleno di chi
avrebbe venduto la madre pur di procacciarsi una chance e accedere di diritto
allo stage di Neri, stimato docente di Drammaturgia e Tecniche teatrali. Andrea
era il suo pupillo, l’ho già detto.
Ed io ero
demoralizzato al massimo. Non mi piaceva per nulla come stavano andando le cose.
Non mi piaceva il mio modo di stare
là dentro, il mio ruolo ritagliato nelle trame elaborate della tappezzeria nuova
della sala audizioni. Non mi piaceva la figura in ombra seduta laggiù in fondo,
assente, i gomiti puntati e un fitto banco di nebbia tra sé e l’altro, tra sé e
il fantasma di ciò che desidera, tra sé e ciò che avrebbe voluto o potuto
essere, che gli si chiedeva di essere. Presente. Sarebbe bastato
questo.
Non mi piaceva
ciò che gli altri vedevano di me, non mi piaceva la mia immagine distorta
sbalzata in fondo alle pupille del casuale osservatore. Io non ero nulla di
tutto ciò.
Fu Nicoletti,
manco a dirlo, a buttare il carico da undici. Non ero la sua compagnia
preferita, l’avevo capito. Non mi conosceva. Conosceva ciò che non ero, che non
mi rappresentava, e questo non gli diceva nulla. Aveva gettato la spugna da
tempo. Molto meglio archiviare la parentesi della sbronza in fondo a un cassetto
su in soffitta.
Sembrava che
l’ambizione di essere il migliore, ancora una volta, di distinguersi in quel
marasma di schegge impazzite, se lo stesse mangiando. Ormai, evitavo
completamente l’argomento, perché mi avrebbe fatto capire che per lui non ero
all’altezza. Alla sua, quantomeno. Era diventato l’argomento tabù, pena la
defenestrazione.
Tu… contro di me,
Derossi? Sembravano
gridarmi i suoi occhietti liquidi, sfuggenti, sarcasmo ritagliato in un blocco
d’ossidiana. Anche tu, sciocchino, sei
tra quelli che vorrebbero soffiarmi il posto? Possibile che a nessuno venga in
mente di riservarmi scommesse più appetitose?
Si leccava le
labbra come una tigre pronta ad addentare un pasto esiguo per quanto
vitale.
E continuava a
guadagnare punti. L’Accademia intera smaniava per lui, tutti lo guardavano con
rispetto; qualcuno l’avrebbe pure voluto morto, ma erano dettagli
insignificanti.
Me lo disse
chiaro e tondo: cosa volete di più? Io
non mi sento in competizione con te, Gabriele. Non sei un… problema. La fissa è
solo tua. Tu… e me? Stai scherzando?
Non so cosa mi
trattenne, quel giorno, da colpirlo su quel faccino da serpe fino a buttarlo a
terra, fino a vedere il sangue. So solo che qualcosa, qualche morbo oscuro
ancorato in fondo alla gola, soffocò il mio grido sul nascere, inchiodò la mia
volontà alla parete.
Almeno… avrei
potuto almeno urlargli addosso quel suo stesso disprezzo gravato degli
interessi. Invece fu solo tanta rabbia in potenza, e poi la figura misera di chi
non è in grado di rimbalzare al mittente l’umiliazione
subita.
Tutto ciò che
venne fuori da quella mezza discussione biascicata tra sguardi scivolosi e pieni
di rancore, fu la mia ritirata fulminea, ho bisogno di un’altra stanza, cambio
stanza, per favore – non voglio un deficiente vanaglorioso fra i piedi. E un
“vaffanculo” smozzicato sul limitare della porta. Vaffanculo, Nicoletti. È il
posto che più ti si addice.
Neri intanto se
la mangiava con gli occhi, la sua creatura. Era abbastanza. Sin dal primo
momento, quelle attenzioni mi avevano reso furioso. E deluso. Come studente,
come cretino innamorato di un mostro insensibile dalle mille facce. Avrei dato
quanto avevo di più caro, per ficcarmi lì in mezzo a viva forza, guadagnarmi la
stima del professore e l’amicizia di Andrea. Ci tenevo. Mi mangiavo il fegato
nell’ombra. Perché io ero il figlio della serva, lui splendeva davanti agli occhi di
chiunque lo osservasse.
Ero lì. Ancora
una volta fermo al palo, escluso da trame che desideravo fare mie, geloso del
gesto più banale, di una quotidianità rasserenante che non mi apparteneva; di
occhi che mai si sarebbero posati su di me, di un rapporto umano, del calore che
non riuscivo a sentire né a trasmettere. O meritare.
Sicuro che tutti
ti odino, Nicoletti? O era la tua ennesima menata? Volevi irretire anche me. O
forse no, nemmeno questo. Perché, a pensarci bene, non ero indispensabile alla
tua sopravvivenza. Semplicemente non esistevo nel tuo orizzonte. Ero il torrente
di parole non dette. Perché avresti dovuto
preoccupartene?
Cos’eri tu,
Gabriele, prima che arrivasse lui? Che cos’era, prima, la tua
vita?
Era il Caos. La
perenne, frustrante mancanza. Un continuo ripiegarsi. E lui, tutto sommato, non
è che una singola manifestazione, una delle tante facce momentaneamente vive di
questa “mancanza”. Di questo fluttuare nel vuoto. La perenne indecisione,
l’intima vigliaccheria che uccide il moto concreto mentre stai per gettarti su
un banchetto immaginario.
È stato forse lui
a segnare lo stacco, a decretare la sconfitta, la frustrazione, l’occasione
mancata? A porsi come punta dell’iceberg del tuo disastro
esistenziale?
Non è così. È
solo la falce di luna visibile in questo frangente.
Ha cambiato
qualcosa, in concreto?
Mi ha reso di
nuovo vivo, almeno per un po’. Intimamente, ma senza le sovrastrutture per
esserlo davvero. Solo una frustrante implosione che non riesce a valicare le
barriere.
La sua
semidivinità non ebbe lunga vita. Qualcosa si spezzò, e poi giunse la tempesta a
riscrivere i confini.
Neri fu sollevato
dai suoi incarichi. Qualcuno fece una soffiata, qualcun altro vociferò che
avesse una mezza relazione con un suo allievo. Che quest’ultimo ne avesse
beneficiato in qualche modo. Il nome dell’allievo non venne mai
fuori.
La verità, poi, è
che a fare le scarpe a Neri furono
Chissà se saltò
fuori proprio allora, il nome di Andrea. Non era l’unico ragazzo bisex o
omosessuale nell’intero istituto, questo no. Era l’unico, però, a starsene
appiccicato al professore in maniera al dir poco equivoca.
Ancora una volta,
conoscevo i retroscena. E ancora una volta mi preoccupai di morsicarmi la
lingua. O meglio, vi fu qualcosa di ancestrale che mi fece gettare ai rovi la
possibilità di immerdare a puntino un figlio di puttana reo di essermi entrato
nel cuore e avermelo ridotto a uno scolapasta. Di aver scovato con il lanternino
i miei punti deboli ed esserci passato sopra più e più volte con l’aratro. Di
aver minato la mia sanità mentale, propinandomi a scadenze alterne sorrisetti
provocatori che sapevano di miele, riaccendendo in me la speranza di
nonsochecosa, per poi infliggermi la mazzata con gli interessi e scagliarmi di
nuovo nel fosso.
Questo è il mio
ultimo favore per te, Andrea, giurai. Il mio ultimo atto di
lealtà.
Come ad esempio,
un po’ di tempo fa, evitare che Alberti, nel corso di una lite, ti pestasse di
santa ragione. Ecco, quella non so proprio come mi venne. Dovevo aver fumato di
recente, per forza di cose, o non me la spiego. Sarebbe stato il coronamento
ideale: Alberti e Nicoletti che se le danno di santa ragione, e fine
dell’idillio.
Come dicevo, la
semidivinità di Andrea uscì da questa storia intaccata, trafitta da insidiosi
punti di domanda, privo com’era del suo pigmalione. Non so poi cosa accadde di
preciso, nel frattempo. So solo che, per un po’, evitai di mangiarmi il fegato
crogiolandomi nella fugace visione, sempre fissa nella mia mente, di Andrea fra
le braccia del professore. Ma questo di solito succede quando ho particolarmente
voglia di farmi del male.
Chissà cos’era
vero e cosa non lo era, alla fine. Chissà cos’era stato per lui tutto questo. Se
davvero era il viscido profittatore che avevo creduto per lungo tempo. Chissà…
com’erano andate davvero le cose. Senza il fiele del pregiudizio a fare da
filtro.
Vi chiedete come
diavolo faccia a sapere tutte queste cose? Beh… È una storia ancora più lunga.
Tutt’altro che entusiasmante, credetemi.
La tempesta sul
momento parve placarsi, tra un sorriso gravido di veleno e un cattivo proposito
trattenuto malamente fra le dita. Troppi giri strani, troppi avvoltoi che si
lanciavano a beccare le briciole, dopo la caduta di Neri. E le cose andarono di
male in peggio.
Fu a quel punto
che entrò in scena
Di lei, per quel
poco che posso ricordare, avevo sempre creduto fosse un tipo tosto. Abbastanza
tosto da portarsi in giro con fierezza una criniera che ormai le sfiorava i
fianchi, in barba alle occhiate al vetriolo di qualche vipera che mal sopportava
il suo starsene fuori da ogni recinto imposto, il suo rifuggire con altrettanta
noncuranza il posto che le era stato affibbiato – quello del brutto anatroccolo
che dovrebbe far “sì” con la testa per paura di finire in bocca allo squalo di
turno –, nonché il suo fermo rifiuto di affondare le zanne nella carne
martoriata del nemico appena abbattuto e demonizzato a dovere. Era una che
badava ai cazzi propri. O, almeno, fu la mia prima
impressione.
Come dicevo, la
ghenga al femminile di Isa mal tollerava l’atteggiarsi a regina di picche di
quella che sarebbe stata la outsider per eccellenza, se fossimo stati in un
teen-moovie made in Usa. Si trascinava da un corridoio all’altro come una
visione in bianco e nero, dimentica di chi la accusava di non prendere
posizione. Secchiona del cazzo. Se
mai ci fosse stata, aggiungo, una “posizione” definita, non inquinata da secondi
fini prestabiliti, che valesse la pena di essere abbracciata senza
riserve.
“Io osservo”,
sembrava rispondere lei. E un po’ la ammiravo per questo. Non che fosse un
personaggio: semplicemente, non doveva fregargliene proprio un accidente, di
guerre di quartiere e affini.
Non che Loria sia
brutta. Semplicemente, a qualcuna avrebbe fatto comodo che, a suo tempo, si
fosse rassegnata all’invisibilità. Bisognava abbatterla in tutte le sue
accezioni, come collega, come donna; farle terra bruciata intorno, lasciarla in
disparte: una rottura di palle in meno. Comunque devo ammettere che ha una bella
faccia, alla fine. Occhi scuri, zigomi alti. Ha un che di drammatico, forse anche questo contribuì
al suo ingresso, chissà. Al silente interesse di Neri nei suoi confronti,
interesse non gridato, per sua fortuna, come accadde per
Nicoletti.
È risaputo poi
come la penso io, no? E dico che se mai dovesse frullarmi in testa di andare a
letto con una donna, ecco, penso che la mia scelta ricadrebbe più su un tipo
alla Elena Loria. Non mi dice nulla la quinta abbondante che Sara, l’amica del
cuore di Isa, si ostinava a sbattermi sotto il naso a ogni piè sospinto.
Benedetta figliola, devo forse mettertelo per iscritto che, uno, mi piacciono
gli uomini; due, il sangue di arpia mi sarebbe indigesto…? Forse, se l’élite dei
miracoli non mi avesse ritenuto una specie di alieno completamente schizzato,
alla fine un pensiero ce l’avrebbe fatto. Con mio sommo
imbarazzo.
Alla fine, per
farla breve, non fu Loria a coinvolgermi nel folle progetto. Fu uno scambio
fitto di e-mail durante il quale rifiutai fino all’ultimo di palesarle la mia
identità. Le passai tutto il materiale che riuscii a racimolare – materiale da
cui saltarono fuori simpatici altarini, vedi il padre di Alessandro Alberti che,
tramite finanziamenti incrociati, si preoccupava di supportare di tasca propria
parte delle attività extracurricolari per cui l’Accademia era rinomata, e via
discorrendo, con altre beltà di questo genere. Peccatucci veniali e meno veniali
in un intreccio inedito.
E la seconda
bomba ben presto esplose; Nicoletti fiutò l’affare, fece il voltafaccia e diede
inizio alla sua donchisciottesca crociata per riabilitare Neri, vittima, a suo
dire, di complotti dall’alto perché scomodo agli alti vertici. E il resto, come
sapete, è storia.
Ora, certo
qualcuno si starà chiedendo perché colui che complottò esclusivamente
nell’ombra, che fino all’ultimo rifiutò di parare la faccia, ora giace disteso
sul pavimento del corridoio nord dell’istituto, di fronte all’aula ventitré, con
una probabile frattura al naso. E per quale motivo Andrea Nicoletti, il diavolo,
si porta a spasso le sue ossa tutte intere, mentre strilla ai quattro venti che
spaccherà la faccia al primo stronzo che oserà mettere in dubbio la moralità di
Neri dopo aver avallato, in cambio di qualche posizione di favore, le porcherie
di Longoni, Balducci e relativo codazzo di leccapiedi
matricolati.
Il nodo cruciale
è che vorrei davvero riuscire a odiarlo, Andrea. Disperatamente. A fargli male,
per una volta.
Buonasera a
tutti!
Poiché vado un
po’ di fretta, stavolta evito le circonvoluzioni verbali e passo direttamente a
rispondere alle recensioni.^^
Witch: oltre al fatto che il tuo commento…
estremamente “passionale”, “istintivo”, ecco, mi ha fatto davvero piacere, devo
dire che, ebbene sì, non ci hai visto affatto sbagliato. Almeno, riguardo alla
situazione per come si presenta fino a questo momento. E, chissà, forse in
questo capitolo le questioni si delineano in maniera un po’ meno
fumosa.
La “doppia
coincidenza nominale”, se ci pensi, ha un che di “terribile”, in un certo qual
modo. Comunque, mi sa proprio che Andrea è venuto su così e ci possiamo fare ben
poco, XD. Doveva risultare un po’ “coglione”, quello sì: diciamo, ecco, che
l’obbiettivo è stato raggiunto. Chissà, però, che i fatti non ci smentiscano nel
tempo. Che il pugnale l’abbia già sfoderato a suo tempo, come dicevi, è
sacrosanto. Crescerà. Almeno, spero. In ogni caso, trattare con lui come
personaggio, si sta persino rivelando divertente!
Alla prossima,
un bacio! <3