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Autore: Hi Fis    12/04/2010    1 recensioni
È una storia strana, né favola, né tragedia, ma possiede le qualità di entrambe. Narra di Sogno, rettile oscuro creato con lo scopo di vendicarsi dei malvagi signori del regno della Mente, i tre fratelli me, Me e ME, che governano senza pietà sulle terre di memoria, del suo viaggio per trovarli e degli inganni con cui li combatte.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Era giunto dai territori più oscuri della mente, dalle lontane terre di Memoria, dove tutto è buio.
Aveva strisciato per tutta la strada che lo aveva condotto fino al palazzo dove i loro signori governavano, superando le distese del vuoto, solitarie e brutali.
Aveva viaggiato a lungo, povero rettile oscuro, aveva strisciato sulla pancia fino a escoriarsi le squame; sempre saggiando l’aria con la lingua alla ricerca di una traccia, un profumo che indirizzasse le sue spire nella giusta direzione. Dove strisciava, il suo sangue lasciava un sentiero scuro, unica testimonianza del suo passaggio nel vuoto. Dopo venti anni del suo peregrinare, finalmente un giorno aveva visto: là, dove orizzonte e cielo divenivano la stessa cosa, un alto muro si stagliava, bianco come il sale di mille lacrime.
Il suo cuore saltò un palpito a quella vista: finalmente avrebbe esatto la sua vendetta. Era il suo destino in fondo: era stato creato per quell’unico scopo dagli abitanti di Memoria.
Sogno si arrotolò nelle sue spire ricordando il passato.
Ognuno dei ricordi che abitavano il limbo delle terre di Memoria forniva potere con la sua esistenza al depravato regno che comandava il loro destino: morte e oblio, o sopravvivenza. Andava avanti così da lungo tempo; troppo per la verità. Così i ricordi avevano deciso di cambiare il loro fato di comune accordo. Se volevano confrontarsi coi loro padroni però, era necessario creare una forma che potesse contrapporsi con quelle dei loro signori. Ognuno degli abitanti di Memoria si era messo all’opera per quel compito, donando in base alle proprie possibilità una parte di se stesso. Molti erano morti in quell’impresa, ma si erano sacrificati con gioia.
Il primo a donare la sua essenza era stato Primo Settembre, la più piccola di tutti: si era tagliata la gola e aveva fatto scorrere il suo sangue nella fontana della piazza della città, mentre tutti i suoi fratelli e sorelle maggiori piangevano la sua scomparsa. Quando l’acqua della fonte fu scura come la notte senza stelle che avvolgeva il regno di Memoria, Terzo Maggio si era tagliato un braccio. Quarto Agosto lo aveva preso, e aveva modellato dalla carne di suo fratello minore una bottiglia di Klein. La bottiglia non poteva essere riempita  se non di sostanza, ma prima questa doveva essere separata dall’acqua della fonte. Allora la loro sorella Sesto Novembre aveva preso la sua treccia e se la era tagliata. Ottavo Aprile aveva intrecciato i capelli fino a ricavarne una corda robusta, con la quale si era impiccato. Il suo cuore era stato asportato da Dodicesimo Gennaio che ancora batteva, quindi, usando il femore di Quattordicesimo Giugno, il loro fratello più bello, aveva battuto il cuore fino a ridurlo una striscia, lunga e sottile. Poi aveva piegato la striscia su se stessa, unendo capo e coda, creando un nastro di Mobius. Secondo settembre, la bambina preferita da tutti, ancora piangeva la scomparsa di suo fratello, ma ubbidiente prese il nastro di Mobius e lo mise nella fontana. Tutto ciò che non aveva forma fu attratto da quel paradosso, e si attorcigliò attorno ad esso. Il paradosso ora era divenuto reale, e quindi scomparve dalle terre di memoria: ciò che era reale non poteva esistere in quel luogo. Poi ognuno degli altri ricordi donò una parte di se: chi una goccia di sangue, chi un piede, chi un orecchio e tutto fu buttato nella fontana. Poi Quindicesimo Maggio, con il suo sguardo fiero e adulto cominciò a cantare: cantò fino quando non cominciò a uscirgli sangue dalla bocca, ma non si fermò nemmeno un momento. Il suo canto fece bollire l’acqua della fontana, separando i componenti. I vapori di sostanza furono raccolti nella bottiglia di Klein. Poi i pochi rimasti in vita tapparono la bottiglia con i loro mani, se ancora le possedevano, fino a quando non si raffreddò.
Quando la bottiglia fu fredda, sentirono una voce provenire dall’interno.
Era un pigolio lieve, ma era comunque una voce:
“Io sono Sogno, salve a tutti.”
I ricordi non sapevano che aspetto avesse Sogno, non potevano aprire la bottiglia, altrimenti Sogno, che era reale, sarebbe scomparso anche lui.
Così si limitarono a parlargli attraverso la bottiglia.
“Salve a te, Sogno” dissero tutti i ricordi in coro:
“Sai quel’è il tuo compito?” gli chiesero.
“Vendicarci tutti” rispose da dentro la bottiglia la voce pigolante di Sogno.
“Allora vai, e compi il tuo destino. Lungo la strada troverai dei segnali che ti guideranno. Seguili, se vuoi avere successo.” dissero i ricordi, poi tirarono la bottiglia, ognuno in una direzione diversa, fino a quando si ruppe. Per un attimo Sogno apparve ai loro occhi: era un lungo serpente nero, con gli occhi neri e la lingua nera. Sogno li guardò tutti, ma poiché era reale, non fecero nemmeno in tempo ad augurargli buona fortuna che era già scomparso. Così Sogno si trovò catapultato dalla sua stessa natura nelle lande labirintiche del Vuoto. Sapeva che oltre quelle lande c’era il palazzo dei loro signori, ma non aveva modo di sapere quanto fosse distante.
Non che fosse importante; voleva solo preparare la sua mente al viaggio. Sogno si arrotolò su stesso, e saggiò l’aria. L’odore dei ricordi proveniva da sud, e in quella direzione si diresse.
Il primo segnale lo trovò dopo un anno: era un piccolo robot di latta, con le lucine che si accendevano sulla testa. Quando sbatteva contro un ostacolo, si girava e tornava indietro, ma le sue braccia rimanevano ostinatamente puntate verso est. Sogno aveva una fame terribile, perché non aveva mai mangiato, e il robot era la prima cosa appetibile che vedeva nel labirinto in cui si trovava, così lo inghiottì. Riposò una notte e poi si diresse verso est.  
Quella routine divenne abituale nei venti anni successivi: trovava un segnale, lo mangiava, si riposava una notte e poi si dirigeva in una nuova direzione. Il secondo segnale lo aveva diretto verso nord, era un pedone degli scacchi, il terzo verso ovest, poi di nuovo a sud. Aveva strisciato per venti anni, trovando cento e otto segnali, ma finalmente i suoi occhi vedevano i confini del regno dei loro signori.
Si concesse mezza notte di riposo, prima di affrontare la parte finale del suo viaggio.
Giunto che fu il mattino, arrivò alle porte vere e proprie del regno. Le mura bianche che circondavano il regno erano intervallate da un unico ed enorme portone rosso, azzurro, beige e cachi, ma sembrava sbarrato. Non c’era nessuno di guardia, perché quelle mura non servivano a difendere, ma a separare due spazi. Sogno non vedeva alcuna apertura,  il portone era sbarrato e molto pesante e lui troppo debole per spingerlo. Non poté fare altro che cercare un’altra entrata che fosse aperta.
Circumnavigò il muro, ma dopo due anni era tornato al punto di partenza senza aver trovato un altro portone o un’apertura. Sembrava che l’unico modo per entrare fosse attraverso quella porta.
Guardando meglio il portone notò una targa, appesa sullo stipite della porta. Non c’era quando aveva guardato il portone la prima volta ne era sicuro, e Sogno si chiese chi e quando potesse averla messa nel frattempo.
“Quella targa c’è sempre stata.” disse una voce dentro di lui.
“Come sarebbe a dire che c’è sempre stata?” chiese Sogno guardingo, cercando il possessore di quella voce.
“La targa c’era anche due anni fa, ma era invisibile: quando chiudi in un cerchio fatto col tuo sangue qualcosa, appare ciò che era nascosto.” Disse la voce.
“Non sapevo di avere questo potere. Ma tu chi sei?” chiese Sogno.
“Sono il robot, la prima indicazione che hai mangiato.”
“Non sapevo sapessi parlare” disse Sogno, un po’ sorpreso.
“Posso farlo una sola volta, per cui ho preferito resistere fino a quando ce ne fosse bisogno.”
“Anche gli altri segnali possono parlare?”
“Non credo,  io sono l’unico con le batterie qui dentro, e mi sto esaurendo. Per cui odimi bene, perché non ho più molto tempo.”
“Ti ascolto.” Disse Sogno, saggiando l’aria con la lingua.
“Ci sono tre cose che devi assolutamente sapere se vuoi riuscire: la prima è che per entrare nel regno devi indovinare”
“Indovinare che cosa?”
“Indovinare il nome. Se leggi la targa ci troverai scritto un enigma. Risolvilo e la porta si aprirà.”
“Ho capito, e la seconda?”
“Non esporti mai al sole del regno, tu sei reale, ma sei una realtà di ricordi, poco più che un fantasma. Se ti esporrai al sole del regno, perderai le forze.”
“Ho capito, e la terza?”
“Devi aumentare la tua forza se vuoi sconfiggerli, ora come ora sei troppo debole per vincere i nostri signori.”
“Come posso fare una cosa del genere?”
“Non lo so, dovrai capirlo da te, usa l’astuzia!”
Poi il robot continuò con voce flebile, dalle profondità del suo essere:
“Addio Sogno, io muoio, ma ti auguro buona fortuna.” Poi la sua voce cessò del tutto.
Sogno pianse un poco:
“Avevo un amico e non lo sapevo. Mi ha aiutato quando avevo bisogno di un consiglio e ora è  morto.” Sogno ululò al cielo la sua disperazione e si morse la lingua con le zanne:
“Siano maledetti i signori, che hanno ucciso il mio amico.” Il veleno stillò dalla sua bocca, assieme alle lacrime dai suoi occhi, bruciando il terreno.
Quando ebbe pianto tutta la sua tristezza, si avvicinò alla targa. Su di essa era scritto in caratteri eleganti il seguente indovinello:
 
L’ultimo santuario è inviolato,
un bianco cancello lo separa dal vuoto
due sentinelle vegliano su di lui
e un intero corpo è preposto alla sua difesa.
 
Sogno era abile negli indovinelli, ne aveva inventati molti durante il suo viaggio, ma la soluzione di quello gli sfuggiva. Ci penso su per una settimana intera, poggiando la coda squamosa sotto il mento e rimanendo immobile.
Alla fine gli faceva così male la testa che non riusciva nemmeno a pensare.
“Un momento!” pensò Sogno “non è la testa che mi fa male, è la mia …”
Allora capì di aver trovato la soluzione all’enigma:
“Mente!” sibilò al cancello.
Il portone si dischiuse ubbidiente come un’enorme chiostra di denti, permettendogli di entrare.
“Ricorda: non esporti mai al sole del regno” l’avviso del suo amico gli attraversava l’essenza. Per il momento non sembrava difficile attenersi a quella indicazione: all’interno c’era un porticato largo circa otto metri che gli garantiva tutta l’ombra di cui aveva bisogno. Il tetto era sorretto da colonne quadrate di legno rosso, disposte ad un intervallo di circa sei metri l’una dall’altra.
Appena entrato, il portone si chiuse dietro di Lui.
 Sogno rimase tranquillo, dato che non aveva intenzione di uscire. Si addentrò nella fresca penombra offerta della tettoia, cercando un sentiero coperto o un’indicazione. Ad un certo punto vide qualcuno che giocava tra una colonna e l’altra. Era il bambino: stava giocando a nascondino da solo. Quando  vide Sogno, smise di cercarsi e gli rivolse un saluto:
“Ciao,benvenuto nel regno della Mente.”
“Chi sei tu?” sibilò Sogno.
“Non lo vedi? Sono un bambino.” Disse.
Sogno osservò bene il bambino che aveva di fronte: aveva uno sguardo liquido color violetto che lo inquietava.
All’inizio Sognò pensò che fosse un guardiano del regno che gli stesse tenendo un tranello, così disegnò un cerchio attorno al bambino, per scoprire se nascondeva qualcosa. Questo lo lasciò fare, rimanendo quietamente ad osservarlo.
Completato il cerchio, sul volto del bambino comparve un tatuaggio attorno agli occhi:
“Cosa hai fatto? Mi prude.” Disse portandosi le manine agli occhi per sfregarseli.
Sogno si avvide che aveva le mani di colore diverso: una blu e una rossa.
“Che stranezza.” pensò.
“Volevo vedere se nascondevi qualcosa, se esci dal cerchio dovrebbero smettere di pruderti.”
Uscito che fu dal cerchio, anche il tatuaggio intorno agli occhi scomparve, come se non fosse mai esistito. Ma ora Sogno sapeva che il potere del bambino stava nei suoi occhi.
“Ricorda: devi aumentare la tua forza se vuoi sconfiggerli” l’avviso del suo amico era chiaro nella sua mente.
 
Si chiese quale poteva essere il modo migliore per farlo, ovviamente non poteva usare la forza. Ma Sogno era scaltro, così chiese la bambino:
“Ti va di fare un gioco?”
Gli occhi del bambino si dilatarono a quella proposta e un largo sorriso si stampò sul suo volto innocente:
“Sì, ti prego. Qui non ho mai nessuno con cui giocare, solo il monarca Me ogni tanto spende un po’ di tempo con me. È ormai lo fa così di rado.” Disse abbassando lo sguardo al suolo.
“E così uno dei signori si chiama Me” si disse Sogno; avrebbe fatto bene a ricordarselo.
“A cosa giochiamo?” chiese il bambino, alzando di nuovo il viso verso Sogno, pieno di aspettativa.
“Giochiamo agli indovinelli, ti va?” disse Sogno.
“Sì, gli indovinelli, gli indovinelli” trillò il bambino felice, facendo una giravolta su se stesso. Poi però tornò serio:
“Ma come?” chiese guardando fisso Sogno.
“Facciamo in questo modo,” gli spiegò il serpente:
“ Se indovini il mio nome io sarò tuo, ma se non lo indovini mi prenderò qualcosa che ti appartiene. Ti va bene?”
Al bambino non parve vero di poter avere di nuovo un compagno di gioco, dopo tutti quei secoli (o erano millenni?), quindi accettò subito.
Sogno tracciò tre righe nella polvere:
“Tre tentativi, nessuna scorrettezza.”
Il bambino annuì vigorosamente, tanto che le sue orecchie rimasero per un momento indietro rispetto alla testa.
Poi si fece serio e si mise ad osservarlo, con i suoi occhi viola.
“Non mi dai nemmeno un indizio?” disse un po’ deluso.
Sogno non poteva permettersi che il bambino rinunciasse. Se voleva impossessarsi del suo potere, doveva fare in modo che giocasse e sbagliasse tre volte. Quindi per coinvolgerlo di più nel gioco, acconsentì a fornire un indizio:
“Comincia con la S” disse sibilando con la lingua.
“Allora è sicuramente serpente, sei un serpente, per cui ti chiami per forza serpente!” disse il bambino tutto d’un fiato.
Sogno scosse la testa e cancellò una riga dalla polvere:
“Due tentativi, nessuna scorrettezza.”
Il bambino apparve un po’ imbronciato nell’aver fallito la prima prova, ma si stava solo riscaldando:
“Esse, Esse, sarà squama, sì ti chiami sicuramente squama, sei coperto di squame, per cui ti chiami per forza squama!”
Sogno cancellò un'altra riga dalla polvere:
“Un tentativo, nessuna scorrettezza.”
Al bambino vennero i lucciconi, era la prima volta che giocava ad un gioco così impegnativo, ma era un bambino forte e così non si arrese. Non si rendeva conto della posta in gioco.
“ESSE, ESSE, ESSE sarà sottile, tu sei sottile per cui ti chiami per forza sottile.”
Sogno cancellò anche l’ultima riga dalla polvere:
“Nessun tentativo, nessuna scorrettezza. Ora mi prendo quello che mi spetta.”
Raccolse tutto il suo corpo in un’unica spira e balzò addosso al bambino, divorandosi un occhio, nel momento esatto in cui atterrò su di lui. Il bambino gridò di dolore e si divincolò forte tenendosi con una mano la parte del volto ferita. Sogno era troppo occupato a deglutire il boccone per tenere la presa e cadde a terra.
Quando ebbe inghiottito l’orbita, sentì il potere del bambino che si univa al suo e si senti reale e forte, per la prima volta da quando esisteva.
“Meno uno, ne manca solo un altro” pensò prima di raccogliere tutto il suo corpo come una molla. Saltò, mirando di nuovo al volto del bambino, ma un calcio lo colpì a mezz’aria, rispedendolo di nuovo nella polvere.



Post Fazione: La bottiglia di Klein è un oggetto paradossale, costruito e concepito per non poter contenere alcun liquido: è una bottiglia che contiene l’esterno.
Il nastro di Mobius è invece un solido a due facce (Se si considera anche lo spessore della carta), in pratica un rettangolo di carta avvolto su se stesso e unito alle estremità.

  
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