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Autore: Hi Fis    15/04/2010    1 recensioni
È una storia strana, né favola, né tragedia, ma possiede le qualità di entrambe. Narra di Sogno, rettile oscuro creato con lo scopo di vendicarsi dei malvagi signori del regno della Mente, i tre fratelli me, Me e ME, che governano senza pietà sulle terre di memoria, del suo viaggio per trovarli e degli inganni con cui li combatte.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Sogno si raddrizzò immediatamente, pronto a colpire con le zanne levate, ma non c’era nessuno.
Da dove era venuto il colpo?
“Ma cosa è successo?” si chiese.
Il suo stupore poteva solo aumentare, quando davanti ai suoi occhi il bambino si tramutò in un serpente uguale a Sogno, solo di color cachi, invece che nero, e dagli occhi, sclera compresa, di colore diverso: uno era azzurro e uno rosso.
“Hai promesso: un solo oggetto. Ti sei preso un occhio, ma non puoi esigere anche l’altro, non ne hai il diritto.” 
Sogno capì di aver fatto un errore: le condizioni con cui aveva proposto l’indovinello non gli permettevano di ottenere il potere completo del bambino, ma solo una parte.
Era comunque già qualcosa, così non rimpianse troppo la sua scelta.
Si avvolse nelle spire, di nuovo calmo:
“Perdona il mio errore, sono nuovo di questi territori e non conosco le regole.”
Il serpente color cachi si avvolse anche lui nelle spire, copiando ogni suo movimento.
“Nessun danno, nessuna offesa.” Poi continuò la conversazione, saggiando l’aria con la lingua:
 “Noi ora condividiamo lo stesso potere,: mi hai ingannato, ma non ti odio. Sappi però che io non sono uno dei signori su cui desideri vendetta, per cui mi hai fatto un grave torto: hai colpito l’innocente. Perfino in questo regno simili atti sono malvisti, quindi sta attento.”
“Non ho paura d loro.”
“Dovresti, ma parli senza conoscere il loro potere.”
“Dimmi cosa posso fare per sconfiggerli allora.”
“Non lo so, io non ho potere su di loro, né conosco le loro ragioni. So però che ti cercheranno e alla fine, inevitabilmente, ti troveranno. Questo è il loro regno, non esiste luogo che non conoscano.”
“Non puoi aiutarmi tu?”
“Impossibile, io non ti odio, ma riverisco i miei signori, quindi perché dovrei aiutarti?”
Poi si tramutò di nuovo nel bambino, solo che ora gli mancava un occhio, e una sua mano era diventata nera, dello stesso colore delle squame di Sogno. L’altra mano per compensare continuava a cambiare colore: dall’azzurro al rosso.
“Mi hai fatto male, stupido serpente, lo sai? Adesso vado a dirlo ai miei signori.”
Scomparve nell’aria in un attimo, come se non fosse mai esistito, lasciando Sogno da solo a meditare sulle sue parole, indeciso sul da farsi.
Per prima cosa doveva digerire in fretta il potere del bambino, per quanto non fosse sufficiente ad opporsi ai signori, era pur sempre un punto di partenza.
Si stirò, gonfiò le spire e contrasse i muscoli, le vene pulsanti nello sforzo. Alla fine, col rumore di una bottiglia stappata, la sua pelle esplose, permettendo al suo nuovo corpo di uscire: era un corpo nero e lucido, con due gambe e completamente nudo e senza volto.
Era però incompleto: gli mancavano le mani, il suo potere non era sufficiente a permettere di farsene crescere un paio e i polsi terminavano in due moncherini.
Sogno urlò di dolore, per la trasformazione imperfetta che si era imposto, e cadde a terra bocconi. Era molto indebolito, tanto da avere la vista offuscata.
Doveva mangiare qualcosa per recuperare le forze. Si guardò attorno, ma non c’era nulla che fosse alla sua portata: tutto si trovava sotto l’odioso sole. L’unica cosa commestibile vicino a lui era la sua vecchia pelle e si rassegnò a mangiare quella.
Tuttavia, non avendo le mani il boccone continuava a cadere prima di raggiungere la sua bocca. Alla fine, scorato da quegli sforzi inutili, lasciò la pelle a terra e si chinò lui, inghiottendola in un sol boccone, direttamente dal terreno.
Il sapore era guastato dalla polvere di quel luogo, ma andava bene anche così: era pur sempre nutrimento.
Non si accorse che qualcuno lo stava osservando, perché era chinato e intento nel suo pasto. Quando lo straniero gli rivolse la parola si alzò di scatto spaventato:
“Cazzo, nemmeno io mangio così di gusto, sai?”
Era me a parlare e scoppiò in una risata, divertito dalla reazione di Sogno.
“E tu da quale buco dell’inconscio sei sbucato? Sei il nuovo giocattolo di Me?”
Di fronte allo stupore di Sogno, che rimaneva in silenzio a osservarlo, sempre che un volto senza occhi possa farlo, dedusse che fosse poco intelligente:
“Ehi pronto! Mi senti fesso? Sto parlando con te” disse avvicinandosi fino a quando non raggiunse Sogno sotto i porticati.
Sogno capì immediatamente che era uno dei signori quello che aveva davanti. Il potere che irradiava era di tutta altra qualità rispetto a quello del bambino.
“Allora mi capisci o no?” gli urlò in faccia me.
Sogno non rispose, era ancora confuso, tutto succedeva troppo in fretta, non era ancora pronto a sostenere un duello faccia a faccia con un signore.
“Bha che perdita di tempo, vieni, ti porto da Me.” Lo afferrò per uno dei moncherini e lo tirò a se. Il contatto per Sogno fu orribile, tanto che si tirò indietro liberandosi dalla presa e accucciandosi contro il muro.
“Che fai, ti ribelli?” disse me con un ghigno.
“Alzati e comportati da buon servitore, o ti spedisco a calci nel buco merdoso da dove sei uscito.”
Lo afferrò di nuovo con violenza, tirandolo a se.
Sogno si lasciò scappare un mugolio.
“Ma che diavolo hai si può sapere? Ti sto portando a casa, per cui smettila di dimenarti.” Lo trascinò fino al limite delle ombre e poi provò a tirarlo ancora più in la, ma Sogno si rifiutava di farsi condurre al sole, sapeva che avrebbe perso quel poco potere che i suoi inganni gli avevano garantito.
“Il sole, il sole” gridò. me smise di strattonarlo.
“Allora sai parlare quando vuoi.”
“Il sole, il sole”  ripeté Sogno.
“il sole, il sole, ma non sai dire altro?” lo scimmiottò me.
Sogno scosse la testa tentando di tornare indietro.
“Ho capito! Non ti piace il sole. Che razza di creatura sei per temere la luce della realtà? Mio fratello ti ha fatto proprio strano.”
me credeva che Sogno fosse una delle creature nata dalla fucina di suo fratello maggiore, Me. Tutti i costrutti che popolavano il regno erano nati così e tutti loro riverivano i loro signori, indipendentemente dalla nazione in cui risiedevano.
me era crudele per natura e pensò che poteva permettersi di giocare un poco, prima di riportare quell’imbecille da suo fratello: un ghignò si disegnò sul suo volto, vedendo che a Sogno mancavano le mani.
“Visto che mi sento buono, ho deciso di aiutarti: non sopporti il sole? Guarda caso io ho qui un bell’ombrello con cui ripararsi, ti piace?” Dal nulla aveva creato l’ombrello di tela che ora aveva in mano: era rosa confetto, un rosa osceno, qualcosa che perfino i vermi si vergognerebbero di indossare.
“È tutto tuo, ti piace?” scherzava, porgendolo a Sogno.
Il poverino cercò di prenderlo, ma mancando delle mani, non riuscì a evitare che cadesse a terra. Da lì tentò di aprirlo, ma i suoi moncherini non riuscivano ad afferrare il fusto. Ogni volta che falliva, me scoppiava in una risata volgare invitandolo a riprovarci.
Alla fine, dopo diversi tentativi, riuscì a trovare la leva di scatto che permetteva di aprire l’ombrello. Lo spinse con i moncherini, usando i piedi come aiuto per aprirlo. Quando la tela fu aperta completamente, se lo poggiò sulla spalla tenendo il fusto incastrato tra i monconi. Per fortuna era un ombrello abbastanza grande, che lo avrebbe riparato dal sole.
“Bravo bravo, ce l’hai fatta eh?”  disse me, in realtà dispiaciuto che il suo divertimento fosse finito così presto. Ma non poteva dare soddisfazione ad un servo, così disse:
“Visto che sei stato così bravo, l’ombrello te lo regalo: è tuo. Ora seguimi, monco.”
Sogno sorrise sul suo non volto. Aveva ottenuto inaspettatamente un riparo dai raggi del sole; per quanto uccidere me fosse ancora al di sopra della sua portata, il fatto che non sapesse del suo disegno lo avvantaggiava.
Decise che per il momento la strategia migliore era di fingere e assecondare quello stupido, fino al momento in cui non si fosse presentata l’occasione giusta.
me si voltò e camminò dritto davanti a se, dava per scontato che il suo “servo” lo seguisse.
 
Non sembrava dirigersi verso una meta particolare, o almeno così pensava Sogno, che non vedeva alcun edificio verso cui incamminare i propri passi. Dovette ricredersi: senza transizione, si ritrovò all’improvviso all’interno di una stanza dal pavimento e dal soffitto verde. Gettò lo sguardo dietro di sé: con orrore scoprì che non vi era alcun passaggio dietro di se. Nell’aria un rumore sferragliante di denti di metallo che scorrevano gli uni sugli altri, gli aggredì le orecchie. Quel rumore di metallo su metallo gli attraversò la testa, causando in lui una fastidiosa sensazione di nausea, e dovette appoggiarsi ad una delle poltrone della stanza per non cadere.
 “Dove … dove siamo?” chiese Sogno.
“Che cazzo di domande fai? Siamo nella fortezza di Proteo. Dove dovremmo essere, secondo te?” rispose me, il viso disteso nel sorriso dell’uomo che è a casa.
“Parola mia, sei l’esemplare più strano che mio fratello abbia creato.” Borbottò, quasi di buon umore, mentre si incamminava nel corridoio. Si  aspettava che Sogno lo seguisse, ma voltandosi vide che era ancora appoggiato alla sedia. Si mise ad aspettarlo, ma quando fu chiaro che sarebbe stata una cosa lunga, tornò indietro e lo afferrò con forza, trascinandoselo dietro. Per ogni passo che Sogno muoveva in avanti gli sembrava che l’aria gli si appiccicasse addosso, facendosi più pesante e opprimente. Usciti dalla stanza, l’aria aveva la densità di un liquido vischioso, ma me ancora lo tirava dietro di se, e non poteva opporsi.
Discese alcune scale, che lo portarono di fronte ad un enorme portone scorrevole di legno. Era un portone enorme: poggiava su ruote grandi come la testa di Sogno e sembrava fatto di legno. Sogno però fu colpito dall’odore: era lo stesso del sangue in cui era nato.
Quell’odore riportò alla sua mente ricordi paurosi: immagini di ricordi morti che aveva visto fugacemente prima di finire nel Vuoto. Perché quelle immagini lo tormentavano ora, che era così vicino alla sua meta? Stava per gridare, ma fu interrotto dalla sua guida:
“Avanti vai, torna in laboratorio. A Me salta la mosca al naso quando uno dei suoi trastulli si rovina.” me non si era accorto dei pensieri di Sogno.
Lui era renitente ad avvicinarsi di più alla porta, ancora tremava e dubitava che si sarebbe aperta.
“Forza muoviti, che stai aspettando?” lo incitò me.
“Cos’è, vuoi che ti apra la porta? Sei proprio inutile come servitore.”
Con una mano sola aprì il pesante portone, facendolo scorrere di lato.
“Visto? Sei a casa, adesso entra e datti una mossa, perché sto proprio perdendo la pazienza.”
Sogno ancora indugiava, tanto che alla fine me lo prese per un braccio e lo trascinò oltre il portone, che rimase aperto dietro di loro. La stanza in cui si trovò era una copia di quella in cui si era entrato prima, ma l’aria ora sembrava più leggera e riusciva a respirare meglio: c’era odore di fiori. Davanti a lui si apriva un’unica porta e, sempre tenendolo forte, me gli fece attraversare le varie sale che si succedevano dopo quella: un’armeria, una stanza piena di maschere, un laboratorio, una stanza piena di animali, una camera da letto … tutti luoghi che si alternavano senza soluzione di continuità.
Alla fine me trovò Me in una stanza con vista mare. La stanza era riempita di mobili che contenevano ognuno una classe di oggetti diversi, ma senza un criterio che li accomunasse tutti. Le pareti erano decorate da quadri cupi. Quando entrarono nella stanza, Me stava dando da mangiare ad un barbagianni, che prendeva il cibo appollaiato su di un trespolo. Nella stessa stanza c’era anche il bambino, seduto su una poltrona porpora. Alla vista di Sogno, saltò in piedi e andò a tirare i vestiti di Me.
“Cosa c’è ora? Ho già sostituito l’occhio che ti hanno rubato, cosa vuoi ancora piccolo?”
“Eccoti fratello, finalmente ti ho trovato, ti ho riportato il tizio che hai perso” disse me indicando Sogno, che ancora reggeva l’ombrello come poteva.
Me rivolse uno sguardo al visitatore, poi si rivolse a me:
“E questo chi sarebbe me? Non mi ricordo di aver mai creato un simile costrutto mentale.”
“Come no? E magari hai dimenticato anche che sono tuo fratello.”
“A volte mi piacerebbe” sospirò Me.
“Sei davvero uno stronzo lo sai? Mi prendo la briga di riportarti i tuoi adorati costrutti e questo è il trattamento? Perché non vai a farti fott … ARGH!”
Dall’ombra del barbagianni era spuntata una figura avvolta in un burqa del colore del mare, che aveva piantato una lama del colore delle fiamme nel petto di me.
“A cuccia, cane” disse la voce da sotto il burqa.
ME, hai fatto presto, novità?” chiese Me.
“Ho rivoltato l’intero regno, ma non ho trovato nessuno che corrispondesse alla descrizione che mi hai dato” rispose.
“Hai visto? Te l’avevo detto che non poteva esserci nessun esterno.” disse Me al bambino, spazzolandogli i capelli.
“Veramente è quello che me ha portato con se. Lo riconosco, ha cambiato aspetto, ma sono sicuro che è lui.
Me osservò attentamente Sogno, il quale sarebbe rimasto schiacciato dalla forza che sembrava sprigionare il so sguardo, se un urlo non avesse squarciato il silenzio della sala:
“Brutta puttana, stavolta la paghi!” era me, che si scagliò, la spada ancora piantata nelle sue carni, contro ME.
ME venne gettata contro un muro dal colpo improvviso, rovesciando un quadro e trascinando un mobile a terra nel tentativo di rialzarsi.
“Adesso non fai più tanto la spavalda vero?” disse me bloccando i polsi di ME a terra e sedendosi su di lei.
“Ecco che ricominciano” sospirò Me.
“Lasciamo andare, maiale” urlò piccata ME.
“Lasciami. Andare. Subito.”
“Non credo proprio, sorellina. Questo maiale sta per darti una bella scossa, ci puoi scommettere.”
Me non provò nemmeno a intervenire: erano secoli che quei due non andavano d’accordo e aveva rinunciato a dissuaderli già da tempo. Se poi si fossero eliminati a vicenda gli avrebbero fatto un favore, finalmente avrebbe avuto un po’ di quiete; li lasciò continuare.
Sogno però aveva uno scopo da raggiungere e l’occasione era perfetta, così si rivolse a ME:
“Presto, ME, dammi un po’ del tuo potere. Se lo farai, ti potrò prestare un aiuto.”
Tutti  si erano dimenticato di lui di fronte al litigio dei due fratelli, e ME credette che fosse Me a parlare. Non gli sembrò strano che lui, il più forte fra di loro chiedesse in prestito il suo potere: era una richiesta logica nonostante tutto. Così indirizzò la sua forza verso il punto da dove veniva la voce.
All’improvviso Sogno si sentì potente e grazie a questa certezza si formarono, un osso prima di un muscolo e prima della pelle, un bel paio di mani dalle dita affusolate, con le quali poteva smettere di reggere l’ombrello coi moncherini.
Chiuse l’ombrello, mentre sentiva la sua nuova forza crescere dentro di se, grande abbastanza da sfidare i signori, o almeno così credeva.
Posato l’ombrello a terra, si gettò su me e afferrò la spada per l’elsa: tirando con tutte le sue forze, riuscì a estrarla dal suo corpo; poi lo prese per una spalla e lo lanciò attraverso la stanza.
me atterrò in un armadio di vetro che conteneva tanti piccoli orologi a carillon, ognuno dei quali suonava il valzer della primavera allo scoccare dell’ora, ma con una velocità differente dagli altri.
ME, vedendo il suo salvatore, si avvide solo allora dell’errore che aveva commesso, ma non poteva esimersi dal ringraziarlo, sarebbe stato illogico.
“Grazie mille.”
“Dovere.” rispose Sogno, per poi continuare con un sorriso sul suo non volto:
“Non potevo permettere che ti uccidesse, quello è compito mio.”.
 Vibrò alta la spada, pregustando il rumore di una testa che rotolava sul pavimento, ma prima che potesse calare il colpo fatale, ME si smaterializzò, insieme alla spada che Sogno aveva in mano.
“Non osare alzare le mani sui miei fratelli” era il bambino ad aver parlato. Grazie al suo intervento ME e la sua spada erano sfuggiti alla presa di Sogno, trasportati chissà dove, fuori dalla sua portata, proprio nel momento in cui stava per esigere vendetta.
 “Non avresti dovuto intrometterti, sciocco” disse Sogno, mentre l’ira e la frustrazione ne guidavano i gesti. Brandì l’ombrello rosa e si scagliò sul bambino, intenzionato a colpirlo con violenza.
L’aveva quasi raggiunto, quando Me fermò tutto, nel senso più letterale del termine. Bloccò in aria Sogno con un gesto della mano.
“Mi dispiace, ma non posso permetterti di fare del male all’innocente; in fondo io e lui siamo la stessa cosa. Si può sapere tu chi sei?”.



Questo è stato il capitolo che mi ha dato più problemi, dal punto di vista narrativo: inizialmente era un unicum col successivo, ma ad un certo punto ha superato la complessità e la lunghezza massima che riesco a gestire, quindi ho dovuto spezzarli in due. Trovo il lessico di questo capitolo molto verboso, e ho fatto molta fatica a sistemarlo, per quanto creda di non aver fatto abbastanza. Sappiatemi dire come lo trovate.

 
  
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